Nell’agosto 1975 la cordata italiana Calcagno-Machetto affrontò con successo una sfida per quel tempo impensabile: salire un quasi Ottomila con uno stile (che poi si sarebbe chiamato alpino) del tutto nuovo nell’ambito dell’alpinismo di spedizione: senza portatori, senza ossigeno, senza spole, solo due alpinisti. Stiamo parlando della via degli Italiani sul versante ovest del Tirich Mir West, con prosecuzione fino alla vetta del Tirich Mir Principale.
L’impresa non ebbe la risonanza che avrebbe meritato: la storia parla chiaro, la cronaca meno. I due compirono qualcosa di davvero eccezionale per il tempo, sia dal punto di vista psichico che fisico. Solo un anno dopo Pete Boardman e Joe Tasker avrebbero salito quella stupenda parete ovest del Changabang, accendendo la curiosità e i sogni di mille e mille alpinisti. La vittoria di Calcagno e Machetto non è per nulla inferiore, quanto a creatività e a impegno, a quella dei due inglesi. I due hanno solo avuto la sfortuna d’aver agito contemporaneamente all’altra grande sfida del 1975: quella di Messner e Habeler sul Gasherbrum I. Un Ottomila, sì 360 metri più alto del Tirich Mir, ma con difficoltà tecniche nel complesso assai inferiori, ha oscurato Calcagno e Machetto. La storia deve prenderne atto e imparare a prendere strade diverse dalla cronaca se vuole essere seria.
Guido Machetto: sull’Himalaya come sulle Alpi
di Mauro Penasa (pubblicato su Annuario del CAAI, 2001-2002)
Non ho mai conosciuto Guido Machetto. Quando mi sono avvicinato alla montagna ormai Guido era scomparso. Ne ho così conosciuto la fama, sentendone parlare così tanto spesso (sono biellese come lui], ne ho percepito il carisma, attraverso l’ammirazione che traspariva dai discorsi degli appassionati di montagna… Un po’ per volta mi sono anche accorto che si trattava di un personaggio ruvido e in definitiva scomodo, come tanti grandi alpinisti della sua generazione, duri e spietati con se stessi ma anche con gli altri. Uno che alla montagna aveva saputo sacrificare tutto, per prima cosa quei rapporti interpersonali che potevano ostacolarlo sulla strada che stava percorrendo. Non era una persona che si caricasse volentieri di legna verde, e non credo che ciò lo rendesse particolarmente simpatico, specie nell’ambiente casalingo… Come si dice spesso, nemo propheta in patria…
Guido Machetto al bivacco Balzola dopo la prima invernale alla via Crétier-Binel alla Grivola. 25 gennaio 1970
Pochi sono disposti a perdonare una personalità forte e superiore, ma altrettanto pochi hanno potuto negare i meriti eccezionali di Machetto, fondati sull’amore profondo per la montagna e per la sfida continua raccolta attraverso di essa, che lo hanno portato a essere una figura fondamentale nella transizione dell’alpinista italiano verso la modernità.
Non ho conosciuto Machetto, ma ho potuto leggere i suoi libri. Tike Saab, il primo, è un piccolo gioiello, ogni volta in grado di dare emozioni profonde, un libro intessuto di poesia, una perla unica nel panorama della letteratura di montagna. Un suo ulteriore contributo è contenuto nel volume Sette anni contro il Tirich, frutto della collaborazione con Riccardo Varvelli e sua moglie Maria Ludovica. I flash contenuti nel suo primo libro fanno qui spazio al racconto lucido e stringato della salita del Tirich Mir compiuta con Gianni Calcagno nel 1975, e consentono a Guido di esporre in dettaglio le sue idee su come la montagna andrebbe affrontata, con una punta di polemica e una serie di provocatori messaggi.
Ho cercato qui di estrarre un po’ dei concetti espressi da Machetto nel suo scritto proponendone alcuni passi, perché, nonostante siano chiaramente influenzati dalla situazione contingente, l’inizio del 1976, e possano quindi sembrare a tratti un po’ ingenui, li ritengo ancora di attualità estrema. Tanto più che a ben venticinque anni dalla sua morte non mi sembra che questa visione sia stata recepita se non in modo superficiale, schiacciata dalle necessità commerciali così tipiche di questi ultimi anni, che vedono nella montagna nient’altro che un ulteriore potenziale mercato. O peggio ancora soffocata da un conformismo e una pigrizia mentale che una maggior parte di alpinisti, per mancanza di fantasia, coraggio e libertà, non osa superare per affrontare a viso aperto l’avventura alpinismo.
Guido Machetto ha tracciato una via, anche per tutti noi… a noi raccoglierne il testimone, a qualunque livello… a noi mutare la nostra storia…
“Quella sera a casa di Gianni parlai quasi sempre io. Seduto dall’altra parte del tavolo lui ascoltava attento, riceveva le notizie, le separava e le catalogava nella sua mente perché sapeva che alla fine del mio discorso doveva darmi una risposta. Giovanna, sua moglie, si dava da fare in cucina; a prima vista sembrava intenta ai suoi lavori, ma sono certo che non perdette una sola parola di quello che si disse quella sera. E’ duro essere la moglie di un alpinista come Gianni, perché lui è uno che prende delle posizioni e le posizioni bisogna sostenerle e la sua donna deve essere lì al suo fianco a lottare per difendere il suo alpinismo, quell’alpinismo di cui farebbe volentieri a meno. Lei sa che Gianni continuerà a scalare e che un giorno potrebbe non tornare più dal Monte Bianco o dall’Himalaya, ma sa anche che deve stringere i denti. Andammo avanti un bel po’; Giovanna mise a letto la figlia, poi tornò e si sedette al tavolo, dicendo di parlare piano per non svegliare la bimba. La scena assomigliava a un convegno di maquis in un qualche casolare abbandonato; l’esposizione del piano prendeva forma, di quando in quando Gianni mi interrompeva per farmi domande, secche, brevi, col minimo spreco di parole. – Conosco il posto, in due possiamo farcela… “.
Bruno Allemand e Guido Machetto a Courmayeur dopo l’evacuazione elicottero dal Col Peuterey. 17 febbraio 1971
Ci sono molti modi di fare una spedizione. Ciò è vero ancora oggi, anche dopo che cento anni di alpinismo extraeuropeo hanno definito con relativa chiarezza le diverse possibilità di approccio, privilegiando concetti di leggerezza ed agilità nei confronti dei limiti etici e pratici delle spedizioni pesanti. Ma, se nel nuovo millennio si ricorre sempre meno di frequente all’ormai vituperato titolo di “pesante”, è forse solo perché questa caratteristica è stata sostituita dall’abuso di tecnologia, e dal preponderante aspetto commerciale richiesto dalla pratica di un tipo di alpinismo economicamente molto dispendioso.
In considerazione del periodo in cui si sviluppa la sua personale concezione dell’alpinismo himalayano, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, Guido si trova di fronte a un panorama in cui spiccano le grandi spedizioni nazionali, spesso dotate di mezzi esagerati, ma in cui sono comunque presenti spedizioni più piccole, di sezione, per forza di cose limitate in quanto a disponibilità di mezzi e uomini e quindi con obiettivi minori, oppure di Club o di Gruppo, nel qual caso si assiste spesso a realizzazioni di livello molto elevato… E’ l’epoca in cui si svolgono spedizioni internazionali, femminili, militari e nelle sue parole:
“ancora altre che scaturiscono dalla mente fervida di qualche avventuroso, così come ci sono scadenti alpinisti che si iscriverebbero a qualunque partito pur di partecipare, o ottimi scalatori che ricevono un invito all’anno e regolarmente rinunciano. La faccenda è che la differenza tra una scalata alpina e una himalayana è grande: è tutta un’altra cosa, sono quasi portato a pensare che non nascano neanche dalla stessa base di passione. Al momento in cui feci la mia proposta a Gianni avevo preso parte a nove spedizioni in Sud America e in Himalaya; alcune erano state rovinate dalle squallide controversie che molte volte caratterizzano questo tipo di avventura, di altre avevo conservato un bellissimo ricordo e una nostalgia sempre viva, tuttavia esse facevano tutte parte di una delle categorie che ho elencato“.
Guido Machetto a Yellowknife, Canada. Agosto 1971
La concezione dell’alpinismo è spesso condizionata dalla moda del momento, che nella maggior parte delle situazioni non fa altro che bloccare la creatività dell’individuo, limitando spesso le potenziali realizzazioni di spiccate personalità d’indiscutibile coraggio, capacità e preparazione. Nel preparare una spedizione si dovrebbe sempre porre particolare attenzione all’etica che la dovrebbe animare:
“La cosa più importante, però, e che raramente viene discussa, è il rapporto tra quello che si intende fare e come lo si intende fare; avendo giocato per molti anni sull’ignoranza del pubblico in materia, l’alpinismo di spedizione si è permesso talvolta di far passare per imprese memorabili alcune scalate, dimenticandosi di informare l’opinione pubblica sul rapporto uomini-mezzi-obiettivo. Perché un’impresa è grande solo se il rapporto è rispettato; come per la corrida, se qualcuno ne ha vista una o ne ha sentito parlare“.
Machetto è un uomo della sua epoca, che vive l’avventura spedizione in vista dell’impresa alpinistica. Oggi è sempre più difficile realizzare delle vere performance per alpinisti “normali”, ciononostante esigenze d’immagine portano spesso a vendere al meglio la propria merce, e di conseguenza a sorvolare sui propri scheletri nell’armadio, inclusivi dell’equilibrio etico della salita, dando spesso un valore oggettivo a realizzazioni che non possono averlo. Si deve comunque salvare il valore soggettivo di qualunque salita, che va riconosciuto all’alpinista: così si possono ancora raccontare delle imprese, che sono una conquista sulle paure personali e delle piccole affermazioni di fantasia, e in definitiva di coraggio. Sempre che si mantengano gli equilibri. Cosa non facile per una spedizione tradizionale in quegli anni, a meno di casi, comunque pochi, con obiettivi eticamente ambiziosi.
“Ciò che andavo spiegando invece quella sera era qualcosa di totalmente diverso e rivoluzionario, o meglio evoluzionario.
– Solo noi due; dovremo agire come un commando. Ce la faremo, vedrai“.
L’idea di Guido era semplice: in una spedizione tradizionale ogni uomo ha un suo compito, ben definito e spesso limitativo rispetto all’apertura che una spedizione richiede e che sa così bene ricompensare. Già allora si trattava di una concezione che non poteva più andare bene e che troppo spesso non ha funzionato.
Gianni Calcagno, Alessandro Gogna e Guido Machetto a una qualche presentazione della spedizione Annapurna 1973
“La nostra storia alpinistica è costellata di fallimenti dovuti proprio a questi motivi. Come la vedo io, invece, è che i partecipanti di una spedizione devono essere come i membri di un commando: ciascuno riunisce in sé tutte – chiamiamole – le arti e i mestieri che in una spedizione tradizionale sono suddivisi tra i partecipanti. Avvengono così due cose: la prima è che, mancando un uomo, niente compromette il funzionamento: la seconda, e ben più importante, è che nessuno si sentirà umiliato nel suo lavoro gregariale perché la selezione per gli eletti che conquisteranno la vetta sarà naturale, dovuta alla miglior forma dell’uno più che dell’altro, piuttosto che a decisioni premeditate. Se si dà a ognuno la possibilità di raggiungere la vetta, nessuno reclamerà se dovrà far da mangiare o portare 3O kg di materiali“.
Gianni Calcagno a circa 7600 metri sulla via dei Cecoslovacchi al Tirich Mir
Potrebbe sembrare una visione un po’ ingenua e semplicistica ma se accoppiata ad una selezione accurata delle persone e a piccoli gruppi la cosa funziona… Pur non essendo una idea del tutto nuova neanche per le alte quote, basti pensare alla prima ascensione del Broad Peak, nel 1957, ad opera di una spedizione leggera austriaca di sole quattro persone [ma che persone – Hermann Buhl, Kurt Diemberger, Markus Schmuck, Fritz Wintersteller] la cui linea avveniristica non era poi peraltro stata seguita dall’evoluzione dell’etica himalayana, Guido Machetto aveva sviluppato questa convinzione profonda di cui non si sarebbe liberato tanto facilmente, se non fosse tragicamente scomparso dopo poco tempo, in un incidente di arrampicata sulla Tour Ronde. Sarebbe stato proprio Gianni Calcagno a raccogliere questa eredità per portarla fino in fondo a livello personale come concetto di sfida pulita con la montagna, by fair means, come dicono gli inglesi, per molti anni ancora, con realizzazioni ai massimi livelli internazionali.
Un commando dunque, un piccolo gruppo, autosufficiente, veloce e determinato; e soprattutto omogeneo.
“Molta importanza riveste invece il fatto che, oltre all’abilità e ai talenti personali, ci deve essere l’uniformità di idee sulla maniera di intendere una scalata himalayana: il rischio è un inevitabile compagno che bisogna costantemente controllare, e la morte molto spesso fa la sua comparsa. Il membro di un commando deve avere una sua filosofia sulla morte come sulla vita, sul coraggio come sulla paura; le sue azioni e i suoi pensieri devono essere rivolti verso la conoscenza di se stesso invece che, come più facilmente accade, appigliarsi a soluzioni che questo tipo di società ha inventato a uso e consumo dell’interesse materiale“.
La spedizione del 1973 all’Annapurna, cui sia Guido che Gianni avevano partecipato, e che fu un primo passo verso una nuova organizzazione più coinvolgente per ogni componente del gruppo, era stata emblematica di quanto l’unicità di vedute potesse essere importante per il raggiungimento di un obiettivo, nel momento in cui la tragedia, che è purtroppo sempre parte del gioco in montagna, ed una volta di più in Himalaya, fa il suo ingresso sulla scena. Una valanga uccise Leo Cerruti e Miller Rava, e parte degli alpinisti rimasti non se la sentì di continuare. Nelle parole di Guido “la morte mise a nudo i limiti personali e fermò l’ingranaggio”.
L’omogeneità di idee non è facile da raggiungere, impossibile se non per piccoli gruppi; e sono proprio i piccoli gruppi ad assicurare più facilmente l’equilibrio etico con la montagna.
“Dopo aver partecipato ad alcune spedizioni nelle quali non era presa in considerazione la questione del rapporto, decisi che era inutile continuare a lottare contro ignoranti e conservatori e che era invece ora di creare la possibilità di avvicinarsi alle grandi montagne senza far uso di appoggi burocratici particolari e auto-amministrandosi, di usare insomma la tecnica del commando. Così nell’estate del 1974 Beppe Re ed io scalammo il vergine Tirich West II di 748O metri“.
Riccardo Varvelli, profondo conoscitore della zona, accompagna fino al campo base Guido e Beppe, lasciando loro l’eredità della sua passione per questa montagna, per questa terra, per questo popolo. Dopo un avventuroso viaggio condotto a tappe forzate, i due ottengono un notevole successo sull’ultima cima ancora non scalata dell’Hindukush. E’ già un commando, anche se con loro c’è Ayat-ut-din, e sono veramente soli soltanto sulla parete.
“La bombetta era di Beppe Re, una di quelle inglesi da banchiere della City. Gliel’aveva regalata un amico dopo un viaggio in Inghilterra e lui se l’era portata dietro partendo per la spedizione al Tirich nell’estate del 1974. Ce l’aveva in testa all’aeroporto di Fiumicino, e, tolto i momenti in cui tirava vento o faceva troppo freddo, aveva continuato a tenerla in testa, fino in vetta.
– Piuttosto lascio giù la roba da mangiare, ma la bombetta me la porto dietro… – aveva proclamato il giorno dell’ascensione, e l’aveva cacciata nel sacco. Ora, scalare una vetta di 748O metri in due era già una bella cosa, ma la soddisfazione per lui di tirar fuori la bombetta e farsi ritrarre in cima al monte con la faccia bruciata e la barba incrostata di ghiaccio, era certamente fuori del comune, e quasi diabolica. La storia della bombetta aveva l’aria della sfida condotta con garbo, da vero gentleman: tutta la spedizione aveva l’aria della sfida“.
Già, la sfida… Anche questo fa parte della molla che spinge gli alpinisti… non tutti sentono questo richiamo, non tutti lo raccolgono. Di sicuro la sfida che ci arriva dalla vita attraverso una parete, una cima, è una motivazione forte nella realizzazione di ogni impresa. E naturalmente ogni sfida richiede di mantenere il giusto equilibrio mezzi-fine, per conservarne pienamente il valore. E Guido non è una persona da tirarsi indietro… senza perdere di vista il fatto che si tratta ancora e sempre di un gioco, un’affermazione personale del tutto gratuita, su cui è comunque necessario ironizzare, per alleggerire una tensione a momenti difficile da sopportare.
“Con quella salita ero convinto di aver dato inizio, almeno in Italia, a un sistema diverso di scalare sopra i settemila metri, più snello, più decontratto, più gioioso; certamente il rischio era portato al limite, ma l’indicazione non stava nella quantità di rischio ma nel sistema. E a tutto questo aveva contribuito la bombetta del Beppe!”
Forte di questa esperienza Guido si rivolge a Gianni Calcagno, già suo compagno all’Annapurna, uno di quelli che non hanno mollato, che non lo avrebbero mai fatto. E qui ci ricolleghiamo alla conversazione nella casa di Genova, da cui siamo partiti.
Guido Machetto a circa 7500 m sulla via dei Cecoslovacchi al Tirich Mir
– Per l’allenamento?
– Questo è il punto: dovremo prepararci fisicamente e perdere peso, poi scalare insieme almeno un mese; tutta la meccanica si basa sull’allenamento, sull’alimentazione e sulla concentrazione psichica. L’equilibrio tra queste cose deve essere perfetto. Una volta presa la decisione di partire dovremo essere convinti di potercela fare: l’allenamento e la vita assolutamente sana ingigantiranno in noi la certezza, se non di riuscire, di lottare molto prima di rinunciare.
– Bisognerà andare parecchio veloci…
– Eh sì, in due senza retrovie e nessun aiuto dal basso: tutto è nelle nostre gambe e nella nostra resistenza. I campi dovranno essere almeno a 7OO-1OOO metri di dislivello uno dall’altro.
– … Ci faremo un culo che passa l’immaginazione!
– Sì, è come dici tu, però ammetti che è la sfida più bella che ti abbiano mai proposto…
– Maledetto Machetto…
– Allora?
– Allora, allora… Allora è sì, cosa potrebbe essere altro?
“Sapevamo benissimo che questo gioco l’avremmo portato fino in fondo: scalare un monte di 77OO metri in due significava spezzare il vincolo di quella società civile che ti pone continuamente dei limiti. Avremmo dovuto essere spietati prima con noi stessi poi col compagno; l’Annapurna era su di noi: tre mesi contro il maltempo, gli uomini e la paura di aver paura. E adesso volevamo aprire un nuovo itinerario su quelle altitudini, in due. Ci saremmo dovuti allenare ad andare slegati sul difficile per essere veloci, ma soprattutto perché le difficoltà di uno non danneggiassero l’altro…
Non riuscivo a prendere sonno, avevo fumato troppo; niente in confronto a quello che aveva fumato la Giovanna che avviandosi verso la camera da letto aveva mormorato: “Cristo, si ricomincia!”.
La Stampa, 2O luglio 1975
(Poche lire e molto coraggio per vincere l’Himalaya)
Sono il biellese Guido Machetto e il genovese Gianni Calcagno – Scaleranno una parete del Tirich Mir a 770O metri di quota – Pensano di spendere un milione a testa.
L’estate scorsa dimostrò che con un milione, una cifra che ormai molti spendono per discreti viaggi organizzati, era possibile andare in Himalaya e scalare una vetta di settemila metri; quest’anno Guido Machetto, 38 anni, biellese, guida alpina e rappresentante di articoli sportivi, ci riprova, ma con programmi ancora più ambiziosi.
La minispedizione, composta da Machetto e Gianni Calcagno, 32 anni, genovese e accademico del CAI, partirà giovedì prossimo dall’Italia in aereo con meta Kabul; di qui, prima in taxi poi in jeep, si inoltrerà nella catena dell’Hindukush. Una lunga marcia di avvicinamento accompagnati da soli due portatori e infine la scalata ai 7708 metri del Tirich Mir lungo un inviolato sperone di ghiaccio con 1300 metri di dislivello che, se il tentativo riuscirà, riceverà il nome di Via degli Italiani.
“C’è anche una punta polemica in questa nostra spedizione – dice Machetto -; fare gli alpinisti in Italia non è facile. Noi che viviamo in montagna per professione [soltanto per allenarci a questa impresa abbiamo scalato in venti giorni sei pareti nord], notiamo come gli escursionisti e gli scalatori siano in costante aumento, ma diminuiscano quelli che vogliono misurarsi con imprese impegnative tanto che l’alpinismo italiano è nettamente in declino“.
In tutto il mondo ormai, ad eccezione che in Italia, anche per il grosso pubblico l’alpinismo ha superato il mito dell’impresa sportiva, fatta con rischio estremo da uomini eccezionali, per diventare un fenomeno sociale: la spedizione statunitense al K2 è guidata da un senatore democratico del New Jersey [immaginiamo un uomo politico italiano che lo imiti?), in Inghilterra uno scalatore come Chris Bonington compare alla televisione più spesso dei cantanti più noti, in Giappone il giornale Mainichi di Tokio finanzia ogni anno diverse spedizioni di grande impegno.
“Le piccole spedizioni extraeuropee – continua Machetto – funzionano piuttosto bene, ma appena l’organizzazione diventa più complessa nascono le polemiche o mancano i risultati. Per salire l’Everest abbiamo speso due miliardi e impiegato duemila portatori e l’ossigeno, quando le ragazze cinesi e giapponesi sono arrivate in vetta senza respiratori. Il nostro tentativo sul Tirich Mir vuole dimostrare che senza mezzi faraonici, ma soltanto con un buon allenamento e serietà, è possibile compiere imprese rilevanti e far sì che finalmente anche l’uomo della strada s’interessi all’alpinismo“.
E pochi dati bastano a dimostrare che la spedizione di Machetto e Calcagno nella sua modestia ha qualcosa di eccezionale, addirittura di folle: un costo di un milione e duecentomila lire a testa (quanto costa un tour organizzato di 15 giorni in Polinesia), una tenda a due posti che pesa otto etti, trecento metri di corda, alcuni chiodi al titanio, non un grammo di cibo. I due infatti, che da alcuni mesi seguono una dieta macrobiotica, acquisteranno sul posto le vivande per tutta la scalata (per lo più granaglie] e in una quantità talmente bassa che farebbe inorridire tutti i buongustai.
“I due portatori – continua Machetto – ci accompagneranno per la lunga marcia di avvicinamento, poi sistemeranno una tenda di campo base: di lì in poi saremo completamente isolati. Dovremo percorrere 35 km fino a giungere a 63OO metri, all’attacco della parete, portando in spalla tutta l’attrezzatura e il cibo per una dozzina di giorni di scalata: è inutile dire che di radio per collegamenti e di bombole di ossigeno nemmeno se ne parla. Cominceremo a salire lo sperone, ad attrezzarne con corde fisse i tratti più difficili e a scenderlo più volte per acquistare il necessario acclimatamento. Poi, se il tempo sarà rimasto buono, se non ci saremo ammalati, se una valanga non ci avrà spazzato via dalla parete, fra il 15 e il 2O agosto, dovremo essere in vetta. Se riusciremo, forse ad altri verrà la voglia di imitarci, e scopriranno che per salire queste montagne non occorrono grandi mezzi“.
Il Tirich Mir West da ovest. La via dei Cecoslovacchi sale nel canale a sinistra, la via degli Italiani percorre l’evidente sperone che prosegue in basso ben al di sotto della parete
“L’articolo apparso sulla stampa ci avrebbe in seguito condizionato parecchio: dare la notizia in anteprima era avere pubblicità solo sulle intenzioni, e questo non era molto onorevole per alpinisti seri: d’altra parte però l’informazione era completa e comprensibile se si sapeva quando nasceva, come si sviluppava e come andava a finire la cosa in questione. Non era certo la prima volta che finivamo sui giornali: nonostante ciò sentimmo che era diverso: il titolo aveva toni di sfida e di polemica, il pubblico da quel momento avrebbe tenuto in serbo bordate di sarcasmo se per qualunque motivo non ce l’avessimo fatta. Se c’era una cosa al mondo che io e Gianni non volevamo, era sputtanarci.
Il 23 luglio caricammo le nostre cose sull’auto di un’amica e partimmo per l’aeroporto di Linate. Niente parenti, abbracci e lacrime: meglio farla sembrare una cosa normale, senza pensieri per nessuno (…) Lo stesso giorno Beppe Re, il compagno del Tirich II, si sposava nella chiesa del suo paese. Il 23 luglio gli uomini del Tirich cominciavano così, chi in una maniera chi nell’altra, una delle più grandi avventure della loro vita“.
Come sia andata questa eccezionale spedizione è cosa più o meno nota. Machetto e Calcagno non si accontentarono di una nuova salita; andarono ben più in là, dimostrando una naturalezza di approccio decisamente superiore alla media, anche al giorno d’oggi. Si trattava del resto di fuoriclasse.
“Il giorno 7 agosto lo passammo al campo base a mangiare e riordinare le idee. Il Gianni disse: – Mi è venuta in mente una cosa… ma forse è una cazzata…
Gianni normalmente parla già poco, in due poi, dopo una settimana, quasi tutti gli argomenti erano stati sviscerati: si viveva quindi volentieri e senza imbarazzo nel silenzio, e il fatto che avesse pensato una cosa e non osasse tirarla fuori mi dava una certa emozione, e questo perché anch’io avevo elaborato dei pensieri che tenevo per me (…).
– Si potrebbe ripetere la “via dei Cecoslovacchi” al Tirich per allenamento…
(…). Era dunque tale il nostro ottimismo che un azzardo del genere, mai tentato e nemmeno mai pensato da nessuna spedizione, almeno che sappia io, ci riempì di gioia, e di smania di cominciare a menar le mani: il pensiero poi della faccia che avrebbero fatto in Italia amici e nemici quando avessimo detto loro “Due volte, proprio due volte: naturalmente una per allenamento” ci caricò ancor di più. Ammettemmo anche che era piuttosto infantile come soddisfazione, ma l’ambiente alpinistico è ben lungi dall’essere quel fraterno club che la gente crede: al contrario, è traboccante di invidie e di meschinerie e l’unica maniera per ridimensionarle era ed è quella di tappare la bocca coi fatti“.
La via dei Cecoslovacchi va liscia come l’olio. Il tempo è splendido e le condizioni sono perfette. Addirittura troppo facile. Le parole di Gianni Calcagno, tratte dal suo libro Stile Alpino, riportano un inconsueto stato d’animo di fronte a un sogno raggiunto in modo eccessivamente agevole.
“Continuai quasi con stupore: tutto era così perfetto, talmente facile che provai un senso di delusione. Mille volte avevo sognato di accingermi alla conquista finale con lo stomaco contratto dall’ansia, i polmoni spossati nell’inutile tentativo di carpire ossigeno dall’aria rarefatta, le gambe distrutte dalla fatica e il corpo rattrappito dal gelo. Dov’era la vetta nascosta dalla tormenta sulla quale, come un naufrago allo stremo delle forze, dovevo finalmente approdare? Il senso di delusione prese corpo: la montagna era finita, la cima stava sotto i miei piedi, ma era mancata la lotta che accompagna una dura vittoria. Una fugace gioia per la meta raggiunta e l’inutile ricerca di qualcosa su cui salire ancora.
Dalla punta guardai distrattamente in basso, verso lo sperone, e d’improvviso compresi: quello era il mio Tirich, la mia montagna. Questa era solo una vetta qualsiasi“.
Rimane allora la via degli Italiani. Il tempo è cambiato, mettendo a dura prava la resistenza mentale di Guido e Gianni. Poi finalmente uno squarcio consente di risalire ai campi alti.
“Un forte vento teso in quota sollevava sulle creste polveroni di neve, ma il tempo teneva: freddo boia, quello sì, con temperature che stimammo vicino ai trenta, anche quaranta sotto zero: il Tirich ci offriva l’ultima chance e sembrava dicesse: Se mi volete, sarà alle mie condizioni“.
“24 agosto. Tardi per scalare in Hindukush, troppo tardi per trovarsi ancora ad alta quota: (…) noi, in quell’isolamento psicologico (non solo eravamo solo noi due su quella montagna, ma probabilmente in tutta la catena], avevamo almeno due giorni di scalata dura davanti e altri ventuno erano nelle nostre gambe e nei nostri polmoni. Il nostro peso si aggirava sui 58 kg per me e 56 per Gianni: quasi al limite, la mente continuava a prevalere sul fisico“.
Ben 10 kg di meno rispetto alla partenza. E’ normale perdere un bel po’ di peso durante uno sforzo continuo di giorni e giorni, col rischio però di poter crollare improvvisamente. Ma si può qui constatare come la testa abbia davvero un ruolo preminente nel consentire la realizzazione di progetti tanto coinvolgenti come una salita di questo tipo (quando il fisico cede il più delle volte la mente lo ha già abbandonato da un pezzo – citazione da José Saramago, autorevolezza da premio Nobel).
Così alla fine la cima è di nuovo conquistata, il 25 agosto, in un attimo di quiete in mezzo a una bufera perfetta. Ancora le parole di Gianni Calcagno, sempre da Stile Alpino, in stridente contrasto con le sue impressioni di pochi giorni prima:
“Storditi e barcollanti approdammo sulla vetta del Tirich Mir. Ci abbracciammo confusi. Avrei voluto dire tante cose, lasciare esplodere tutte le sensazioni che mi turbavano, esultare, gridare. Ci provai, ma un nodo di commozione mi strozzò la gola e farfugliai qualcosa d’incomprensibile. Sentii le lacrime salire e in silenzio piansi, anche se gli occhi restarono due fessure asciutte. Anche Guido tentò di esprimere qualcosa. Percepii solo pochi suoni inarticolati misti a una commozione senza pari. Avevamo attraversato mezzo mondo, vissuto momenti duri e altri allegri, lottato con tutte le forze per raggiungere la vetta di quel Tirich e ora che c’eravamo sopra non avevamo neanche più la forza di parlare“.
Questa volta il ritorno è ben più impegnativo: Guido e Gianni sono stanchi, le loro forze sono quasi esaurite, il tempo non li risparmia.
“La discesa prese tutto il pomeriggio ed era notte fonda quando ci buttammo sotto la tendina a igloo; l’ultimo tratto l’avevo fatto inciampando e cadendo in ginocchio ogni cinque passi. Quasi subito le nuvole circondarono le montagne, e cominciò a scendere la neve. Sfuggiti! Era fortuna, era destino, c’era da ringraziare qualcuno? lo e Gianni non lo sapevamo; forse era giustizia o semplice coincidenza. Probabilmente il Tirich pensava di batterci meglio con il freddo e il vento, piuttosto che con la neve“.
Non c’è retorica in queste parole: l’amore di Guido per la montagna non nasconde la componente epica del suo alpinismo, pur sempre figlio del suo tempo – e la bombetta del Beppe non è stata sufficiente a rivoluzionare del tutto la sua prosa…
“Ero disfatto, ma la mente era lucida come non mai; sì, la lucidità era una cosa importante, l’ultima cosa importante mentre cominciavo a pensare che si poteva morire, e che la cosa, adesso che la sentivo vicina, non era molto importante in sé quanto il farlo con garbo e stile…
L’ultimo quadro che quel giorno si fissò nella mia mente era il ghiacciaio spazzato da una tormenta fortissima e davanti a me Shirgol Khan piegato per resistere al vento e per lo sforzo di tirarsi appresso una sacca di roba nostra; la sacca lunga e deforme lasciava una traccia sulla neve, sembrava un esquimese intento a portarsi a casa una foca catturata.
Non c’era un villaggio senza frane, il raccolto di quell’estate era perduto, la strada era crollata, e tutti furono gentili con noi quando tornammo dal Tirich Mir, il monte più alto del volo dell’aquila“.
Guido Machetto in vetta al Tirich Mir
Guido Machetto è una figura importante, come si è già detto. Forse le sue idee possono sembrare ovvie oggi, ma trent’anni fa non lo erano affatto, e ancor più era difficile trovare qualcuno che le vivesse fino in fondo sulla propria pelle.
Guido ha ribadito in modo del tutto personale e idealista una maniera di porsi di fronte all’alpinismo che era già stato indicata da altri prima di lui, e che veniva riproposta in quello stesso periodo da Messner e Habeler con lo scaltro taglio di sensazionalismo tanto appetibile dai mass media…
Credo che chiunque concordi sull’influenza delle sue salite e del modo in cui le ha portate a termine. Se poi in pratica Guido ha avuto pochi seguaci lo si deve principalmente alla severità che la sua concezione impone. La maggior parte di noi alpinisti della domenica, e non si veda in questo titolo alcuna espressione critica ma solo la constatazione di un dato di fatto, quando affronta una spedizione extraeuropea è poco disposta a prendersi dei rischi non necessari nel solo nome dell’equilibrio con la sfida da portare a termine. Più in generale, nella sua evoluzione attuale centrata sugli aspetti economici, la società occidentale sicuramente non guarda con interesse una simile propensione al romanticismo. Per questo Machetto mi è caro e va ricordato.
Perché è stato uno degli ultimi eroi. Perché ha saputo sognare lontano. Perché è stato un poeta, uno dei pochi in alpinismo.
“Proseguo per la cresta,
la vetta non è lontana.
Sale la nebbia, pettina
la parete ed esce come
un’onda dalla punta per
fare un looping nel cielo.
E’ come quei giorni di primavera,
mentre si cammina per
le prime volte dopo la neve,
con i prati e le foglie di
quel verde tenero,
con gli animali che non sono
ancora spaventati;
si cammina nel delicato
equilibrio dei nostri pensieri
e poche volte succede
che un uomo sia così
garbato con la propria anima“.
Guido Machetto
Ho appena finito di leggere il libro “Stile alpino” di Calcagno ragazzi che alpinisti cazzutissimi 40 anni in anticipo sui tempi, si parla sempre di Bonatti precursore ma loro cosa erano MARZIANI complimenti.
Questa riproposizione delle imprese e delle idee di Guido Machetto ci voleva proprio! Aveva un carattere difficile, ma era anche un grande e leale amico, in grado di capirti, senza giudicarti. La salita del Gokhan Sar ( Chitral) nel suo piccolo è stata una esperienza indimenticabile. Anche grazie a lui. Carlo Alberto Pinelli
mi ha fatto molto piacere leggere questo articolo sul Guido,
le sue visioni sull’evoluzione dell’alpinismo sono state per noi una vera nuova frontiera da esplorare,
Tike Saab un libro straordinario!
Alberto, io credo molto in quello che dici e spesso racconto le “storie” ai giovani curiosi che apprendono.
Purtroppo ai molti non interessa, loro sono sempre alla ricerca di sensazionalismo e del modo per mettersi in mostra anche per un istante, senza capire che possono creare qualcosa di personale.
Il nostro mondo appartiene da tempo ai mediocri e agli ignoranti che si alleano in modo clientelare, rimestando il passato e creando vecchie ovvietà per mettersi in evidenza.
Per far questo escludono tutti quelli che eccellono o perché non li capiscono, o perché si sentono offuscati.
Era iniziato tutto in quegli anni e i “capitani coraggiosi” amano da allora chiamarsi “i successori dei padri fondatori”.
Si Paolo erano due alpinismi molto diversi: decisamente intimo quello di Machetto e Calcagno, da palcoscenico quello di Messner.
Paolo, credo invece che sia utile parlare e raccontare da parte di chi quei tempi li ha vissuti. E fare conoscere una storia che molti oggi non conoscono.
Alberto, per me erano diversi gli alpinismi: molto razionale e mediatico l’uno e molto passionale e intimo l’altro.
Io ricordo così il loro modo di andare in montagna.
Noi amavamo qualcosa del primo e tantissimo dell’altro.
Ma forse sono passati troppi anni per dire queste cose, o magari ormai mi appaiono come illusioni.
Erano anni di bellissimo alpinismo.
Messner e Habeler con la loro salita al Gasherbrum I vennero capiti ? Penso di si visto che fu accolta come un’impresa innovativa.
Come mai Machetto e Calcagno con la loro al Tirich no?
Sarà stato che il Gasherbrum I è un 8000 e il Tirich no. Sarà stata la maggiore notorietà dei primi due e la grande parlatina di Messner a fare la differenza?
Grazie Luca di aver ben compreso il senso dell’articolo.
Tutto terribilmente vero. Ricordo di essere andato a Torino a vedere Marchetto in una conferenza che tenne l’inverno prima di morire sulla Tour Ronde. Anche se avevo quindici anni percepivo la frustrazione di qualcuno che ha fatto qualcosa di straordinario che non viene capito, anzi, che viene accolto con scetticismo e grandi scosse di testa. A vederlo in retrospettiva è terribile.
Da facebook 17 febbraio 2016 ore 10.35
Erano due nei nostri pochi miti di gioventù.
Per me pochi altri italiani si sono espressi come loro successivamente.
Ma che testoni!!!
La via dei cecoslovacchi come allenamento, poi via nuova in puro stile alpino, isolamento e oltre i 7500 m. … livello impressionante anche ai giorni nostri. Giù il cappello, anzi, la bombetta.
Gran bell’articolo.
Guido Machetto, un grande sotto tutti gli aspetti
Bravo che la “ricordi”..va ricordata