Hans Dülfer: morte sul fronte

Questo è il primo capitolo di Le quattro estati di Hans Dülfer, un libro su cui il noto alpinista e guida alpina Ivo Rabanser ha appena cominciato a lavorare.

Siamo lieti di pubblicare in anticipo il primo capitolo di quello che certamente sarà la più bella biografia del grande alpinista tedesco.

 

La morte sul fronte
di Ivo Rabanser

«Sono tremila, affinché rimangano in duemila quando saranno giunti presso i colli e i villaggi»
Thomas Mann

Si levò l’alba del 15 giugno 1915. La notte era stata tiepida e la luce dell’aurora ebbe ben presto la meglio sulle tenebre. Con il nuovo giorno ricominciò il fuoco di sbarramento dell’artiglieria, che spietatamente martellava le postazioni nemiche sul fronte occidentale nei pressi di Arras. Era un rombo senza posa, cupo di morte, di tuoni e di boati; sembrava voler sconquassare il cuore nel petto e i timpani nelle orecchie. L’odore acre del fumo ammorbava l’aria umida, empiendola con rossi bagliori d’incendio.

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Dai boschi si riversavano frotte di soldati verso l’altura che si allungava davanti a loro, correndo col cuore palpitante per la paura e i piedi appesantiti dalle zolle. Correvano bilanciando il fucile nella mano abbassata, buttandosi a terra a ogni sibilo di una granata in arrivo, da dietro incalzati dal rullo del tamburo. Occorreva arrivare ai reticolati, dare l’ultima spinta a un sanguinoso sfondamento. Sotto l’elmo il viso dei soldati era bagnato di sudore e sporco di fango. Ardevano quei volti sfigurati dallo sforzo compiuto, ma ancor di più per l’orrore alla vista di questo macabro spettacolo di morte. Avanzavano a precipizio, con grida scomposte e passo sempre più maldestro. All’urlo dei proiettili in arrivo si buttavano ancora a terra, per poi rialzarsi e proseguire avanti, con esclamazioni di giovanile incoscienza per non esser stati colpiti. Altri invece cadevano per non rialzarsi più, centrati da una scheggia di granata, trafitti da uno sparo in fronte, nel cuore, nelle viscere. Cadevano agitando le braccia, ritrovandosi col viso nel fango. Giacevano poi con la schiena sollevata dallo zaino, la nuca affondata nel terreno. Non si muovevano più, oppure si scuotevano in ultimi convulsi sussulti, mentre la vita sfuggiva via, irrimediabilmente. Cadevano come corpo morto cade. Era un inferno di detonazioni e di fiammate, di proiettili e schegge di granate. Con ogni soldato che sul campo rimaneva, dal bosco ne arrivavano degli altri. E urlando anch’essi si buttavano a terra, accovacciandosi nelle buche aperte dai proiettili, per poi rialzarsi e procedere con sforzo ostinato, incespicando tra i morti.

Per riportare movimento sul fronte ed uscire dallo stallo di una logorante guerra di posizione, l’esercito francese intendeva sfondare le linee nemiche, facendo breccia nelle trincee fortificate. Sapendo di questo ennesimo attacco, i soldati tedeschi avevano puntato sull’avanzata francese un micidiale fuoco d’interdizione, con granate di grosso calibro, che scoppiavano saccheggiando i campi dell’ampia distesa.

In questa guerra si uccideva in modo mirato e meccanico. La rivoluzione industriale aveva prodotto armi potenti e precise, la cui gittata faceva sì che spesso i soldati non vedevano neppure i nemici che stavano massacrando. E sul campo di battaglia ormai i morti non si contavano più. La ferrea motivazione istillata negli ufficiali e soldati francesi, di assicurarsi la vittoria con l’impiego di truppe lanciate in impetuosi attacchi alla baionetta, «svolti col massimo ardore possibile», s’infransero contro i reticolati di filo spinato, controllati dal fuoco delle mitragliatrici tedesche, impossibili da forzare. Nonostante la scarsa resa, questi logoranti attacchi si protraevano ormai da oltre un mese. «Tre uomini e una mitragliatrice possono paralizzare un intero battaglione di eroi», dirà in seguito un generale francese. La guerra a occidente si era irrigidita definitivamente in un conflitto di posizione, con intermittenti bombardamenti e qualche singolo colpo di mano nelle trincee nemiche.

«Domani torneremo in postazione», aveva scritto Hans Dülfer in una lettera a suo padre. «E dopodomani – 15 giugno 1915 – è l’anniversario della Est della Fleischbank. Per festeggiare fumo dalla pipa che allora insieme allo zaino mi ruzzolò giù da metà parete».

Questa data, che due anni prima era stata una giornata luminosa che aveva riempito il cuore del giovane arrampicatore con gioia e soddisfazione, stavolta non gli porterà fortuna. Di rinforzo in un reggimento di volontari, che con le loro baionette dovevano decidere le sorti della difesa alle trincee davanti alla linea dei colli e ai villaggi in fiamme. Erano studenti per la maggior parte, sangue giovane, da poco tempo sul campo di battaglia. Avevano l’ordine di agire e di vincere, senza tener conto delle gravi perdite che stava decimando la fanteria. Occorreva resistere, fermare e respingere sul nascere ogni avanzata dei francesi. Poco più che ragazzi, alcune di queste reclute erano già perite durante la marcia forzata d’avvicinamento, dimostrandosi troppo fragili per il fronte. Altri non sarebbero sopravvissuti al fuoco delle prime granate, che esplodendo rivoltavano il terreno e i soldati. Se il loro corpo giovane, sostenuto dalle più profonde riserve di vita, sopportava le fatiche, non reclamando il sonno mancato né il cibo negato, era invece impossibile abituarsi a quell’inferno di schianti e di fiammate, di gemiti dei moribondi e grida disperate. E questa continua tensione nervosa chiudeva lo stomaco anche ai più coraggiosi.

Hans Dülfer sarebbe stato fra i primi a scontrarsi con i massicci attacchi delle truppe francesi. Il suo compito, oltremodo rischioso, con tanto di ordine dal proprio comandante, prevedeva una ronda d’ispezione agli avamposti della compagnia. Doveva agire da solo, con risolutezza. Sapeva del pericolo estremo di questa missione e non gli pesava la solitudine. Fin dall’infanzia aveva imparato a doversi bastare. E in questa guerra era già stato impegnato nella logorante guerra di posizione di St-Quentin, che sfociò in una battaglia tra le più sanguinose del fronte occidentale, aveva toccato con mano la precarietà della propria esistenza. In quel fracasso infernale era rimasto accovacciato nelle trincee circolari scavate nel terreno dalle esplosioni delle granate. Il cuore gli batteva all’impazzata, come a volergli scoppiare nel petto, e al suono di ogni nuovo proiettile serrava gli occhi per un attimo, come faceva da bambino, quando una situazione lo spaventava. Come da ordine, sarebbe uscito dalla protezione di quella trincea, si sarebbe spinto in avanti su quella terra di nessuno, ammorbidita dalle piogge, verso la linea nemica.

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Cadde Hans Dülfer – oppure si scaraventò a terra – all’arrivo di una granata, che esplose lì vicino con dirompente potenza, affondando nel terreno e riversando in aria zolle d’erba, fuoco e micidiali schegge di piombo. Con tutto il corpo descrisse un semicerchio, piegandosi poi violentemente di lato, con i piedi simmetricamente allineati. In quell’istante lo sguardo gli si spezzò, ma non per gli occhi chiusi, come faceva da bambino ogni qual volta si spaventava. Una scheggia di granata gli aveva reciso la gola. Lo sforzo sui lineamenti si distese e la bellezza di una gioventù precocemente svanita poté rasserenare il suo volto. Erano le undici antimeridiane di una giornata di quasi solstizio estivo.

Cosa avrai pensato, Hans Dülfer, udendo il sibilo di quell’ultima granata? Quell’ordigno micidiale che in una giornata luminosa di tarda primavera avrebbe tranciato il filo sottile che ti legava alla vita? Riversato per terra, avrai guardato verso la luce del cielo? Quella luce a cui tante volte arrivasti, uscendo dall’abisso di una parete. In fondo tra la vita e la morte il rapporto è come se non fosse poi tanto reale. Fintanto ci siamo, la morte non c’è, e quando c’è la morte non ci siamo noi.

Ogni persona è quello che in vita ha fatto ripetutamente. E tu hai vissuto di montagna e di musica, ricercando quella sublime bellezza che può dare un senso alla vita. Avventure dello spirito hanno potenziato la tua semplicità, hanno permesso di superarti, di realizzare i tuoi ideali. Alla montagna andasti, di montagna vivesti. E in montagna, una volta dicesti, sarebbe stato bello conciliarsi infine con la vita. Ci sono stati momenti in cui nei tuoi sogni paventavi la brevità della tua esistenza terrena. Come dei cupi presagi di morte imminente. «Se non avessi visto null’altro che il fondovalle del Hinterbärenbad e dal Stripsenjoch la forma unica del Predigtstuhl, sarei già contento, malgrado la mia giovane età».

Hai vissuto velocemente percorrendo al galoppo le stagioni della vita, che non ti fu concesso di raggiungere nel tempo. Hai vissuto pericolosamente e come potevi immaginare di dover dire «ho avuto l’onore» su un campo di battaglia, abbrutito dalle miserie umane, dove il fango si mischiava alla sofferenza, su una pianura, così lontano dai tuoi monti. L’armonia ti attirava, sia sui monti come nella musica. Hai vissuto in un periodo di grandi illusioni, in cui la società danzava spensierata, non sapendo che il piano su cui si muoveva era spiovente sull’abisso. Un’epoca che inneggiava alla vita eroica, che per te non è stato solo un inno. Ora questa macabra danza di morte, nella quale sei stato trascinato, a cui andasti volontario per quell’senso d’onore inculcatoti dal tuo tempo, ha segnato la fine di quello spicchio di esistenza che la sorte ti aveva assegnato. E sarebbe stato solo l’inizio. Per lunghi anni ancora i paesi europei si sarebbero dilaniati a vicenda in questa guerra tremenda, che dopo nessuno voleva aver iniziato, ma che nessuno neanche aveva saputo impedire. Ma forse questo rientra nella natura sconclusionata del genere umano, che non riesce a prosperare nell’idillio e di tanto in tanto sembra doversi perdere e rigenerare nella confusione e nella totale rovina.

Nella primavera della tua vita, proprio quando compiutamente avevi trovato uno scopo, una collocazione, persino l’amore, si doveva concludere il tuo viaggio terreno. Non eri destinato a scoprire se l’emozione selvaggia dei tuoi vent’anni fosse sopravvissuta ai tradimenti e agli inganni del tempo e dell’età.

Questa è la storia di Hans Dülfer. Racconta la breve parabola di vita di un giovane studente di musica, che con le sue innovazioni tecniche e la sua concezione influì in modo determinante l’evoluzione dell’arrampicata. La storia si svolse nel mondo di ieri, negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, con il cui principio s’infransero molteplici illusioni. Una storia per certi versi fiabesca, che solo un’epoca di grandi entusiasmi e di grandi speranze poteva propiziare. Che doveva concludersi brutalmente con i bagliori di un immane incendio propagatosi poi su tutta l’Europa. Dove, come in tutte le guerre, la verità fu la prima a morire. Ma come era stato possibile che i popoli europei fossero scivolati nel baratro di un conflitto talmente catastrofico che sarebbe costato milioni di vittime, avrebbe scardinato imperi e intere società e messo per sempre in discussione il primato dell’Europa nel mondo?

Fin da quando mio nonno materno attraverso i suoi racconti mi schiuse il mondo della montagna, una delle figure che maggiormente animarono la mia fantasia di intrepido adolescente è stata quella di Hans Dülfer. Questo ragazzo, caduto nel 1915 sul fronte occidentale a soli ventitré anni, spalancò le porte allo stile d’arrampicata che in seguito si sarebbe imposto definitivamente, legittimando l’uso della corda e dei chiodi quali assicurazione contro il rischio di una caduta mortale. Malgrado la sua giovane età fece scuola, senza mai proporselo come obiettivo, ma semplicemente indicando un esempio che la storia avrebbe poi del tutto convalidato. Impressionava i compagni di cordata per lo stile con cui affrontava le pareti, arrampicando con calma e sicurezza, con accorto impiego della corda, «accarezzando» la roccia, in perfetta simbiosi con la natura. Con Hans Dülfer cominciò anche a farsi strada il concetto di eleganza del tracciato su una parete e la scalata giunse ad essere un mezzo di espressione, di creazione personale. Trionfi del corpo, che concretizzavano i bisogni e le aspirazioni dello spirito.

Di questo irripetibile protagonista della storia dell’alpinismo mi colpì la fermezza nei suoi propositi, la tranquilla ponderatezza del suo agire, che gli consentirono di passare di successo in successo con decisa perseveranza. Nell’arco esiguo di quattro estati riuscì a concretizzare cinquanta prime ascensioni sulle pareti rocciose del Kaisergebirge e delle Dolomiti, alcune delle quali figurano fra le massime e più audaci realizzazioni del periodo d’anteguerra. Sono convinto che se non fosse scoppiata la guerra, con qualche anno d’esperienza in più, questo ragazzo avrebbe anticipato l’avvento del sesto grado, disciplinato e concentrato com’era sempre in tutte le sue scalate.

Ivo Rabanser

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Di certo Hans Dülfer è stata una stella luminosa nel firmamento alpinistico dell’epoca. Una luce che brillava accanto di quella di Angelo Dibona, Paul Preuss, Luigi Rizzi e pochi altri. Ma cosa spingeva questo ragazzotto nato e cresciuto nel Reihnland della Germania, lontano quindi dai monti, ad esprimersi attraverso l’arrampicata e la musica? Cosa lo portava a sviluppare la propria creatività nel confronto aspro con le pareti rocciose? Molto più del fatto che nell’arte dell’arrampicata abbia superato i limiti dell’allora fattibile, di questa figura mi affascina sempre più che concepisse l’apertura di una nuova via su una parete rocciosa come la composizione di un pezzo musicale. Con la sua metrica, i ritmi, una propria musicalità. Come un artista che sulla tela non soltanto dipinge dei colori, ma gli riesce la meraviglia di farli armonizzare assieme.

La vita di Hans Dülfer coincide con la Belle Époque, con la vita brillante nelle grandi capitali europee, le numerose esperienze artistiche, lo spirito spensierato e positivo che esprimeva l’idea che il nuovo secolo sarebbe stata un’epoca di pace e di benessere. Un’epoca ricca di fermenti e di cambiamenti epocali. Ma anche di grandi illusioni e speranze andate disattese. Sempre più m’interessai a chi fosse stato veramente Hans Dülfer. Iniziai così a raccogliere sue notizie. Scritti pubblicati in riviste tedesche dell’epoca. Consultai materiale fotografico. Ripercorsi molti dei suoi sentieri verticali, le tracce indelebili che lasciò sulle pareti delle Dolomiti e del Wilder Kaiser. Cercai di capire la società e le istituzioni che impressero il suo mondo, oltre a familiarizzare con i valori, le idee, le emozioni e i pregiudizi che orientavano la visione delle Germania a cavallo tra i due secoli. Come tanti tasselli che man mano riuscirono a restituirmi un’immagine sua, sempre più nitida e comprensibile. Una visione soggettiva, certo, come tutte le inquadrature sono soggettive all’occhio di chi le osserva. E non è stato semplice tentare di cogliere l’essenza di questo giovanotto. In fondo, il regista nel teatro del nostro io sta nascosto dietro le quinte.

Per oltre un anno l’ho sempre portato nei miei pensieri, Hans Dülfer. Durante le escursioni sci alpinistiche o negli avvicinamenti, quando riflettere ti fa sentire meno la fatica, aggiustavo mentalmente le frasi che potessero essere appropriate a descrivere la sua persona. Poi, come d’incanto, successe che le parti s’invertirono. E fu lui, Hans Dülfer, a schiudermi il suo mondo, a farmi comprendere il «Zeitgeist», lo spirito della sua epoca, fatta d’entusiasmo e di speranza, di un oggi incomprensibile senso dell’onore, spinto fino all’ultima istanza dello scacco finale.

Col tempo riuscii a immaginarmelo. Alto e magro, col viso serio e la fronte largamente stempiata, malgrado la giovane età. La sua camminata svelta, sulle lunghe gambe dinoccolate, salutando i conoscenti con garbo cavalleresco. Come stava assorto nei propri pensieri, fischiettando un motivo, isolandosi dal mondo che lo circondava. Parlava poco, Hans Dülfer, e preferiva stare in disparte. «Una volta per tutte», rimproverò Hanne Franz, la sua compagna di corda e di vita, «ricordati che quelli che fanno tante parole non sono mai i migliori». Il supremo dettame della vera eleganza, che consiste nel non farsi notare.

«Non si poteva considerarlo in modo superficiale e credo che a pochi abbia consentito di conoscerlo nell’intimo», disse Franz Nieberl, con cui si legò in cordata per alcune prime ascensioni. Ho cercato di farmelo amico, avvicinandomi in punta di piedi. In senso ideale gli ho come teso la mano e ho imparato a volergli bene. E come per un amico sfortunato, che troppo presto è dovuto partire, ho avuto il piacere di srotolare la sua storia, così come si srotola una preziosa pergamena. Affinché la memoria possa conservare ciò che merita esser conservato.

Ivo Rabanser, guida alpina
11 febbraio 2014

Hans Dülfer e Hanne Franz

Hans Duelfer e Hanne Franz al rifugio Vajolet

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Hans Dülfer: morte sul fronte ultima modifica: 2014-02-17T08:13:49+01:00 da GognaBlog

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4 pensieri su “Hans Dülfer: morte sul fronte”

  1. Bella Stefano, grazie, non lo sapevo! Ma sarà dura a questo punto correggere un gergo entrato ormai nell’uso comune fra noi italiani. E c’è tutta una letteratura… Sarà comunque un’occasione per spiegare e discuterne, impiegheremo anni…. 😉

  2. “A Tita quel che è di Tita”
    27 febbraio 2012 alle ore 17.40
    “Dülfer-Risse Technik!” (Tecnica di fessura alla Dülfer) urlo al mio cliente tedesco, che guarda un po’ sconcertato la bella fessura calcarea che gli si sta parando davanti e che rappresenta l’ostacolo da superare per raggiungermi alla sosta.
    Lui sembra non comprendere e accenna una smorfia interrogativa…
    “Ma è tedesco o cosa?” penso, Hans Dülfer è stato uno dei più forti alpinisti della scuola tedesca e qui da noi quando parli di Dülfer non puoi non pensare alla tecnica di salita in contrapposizione delle fessure…
    Pazientemente spiego al mio compagno di cordata che cosa intendo dire con la mia espressione e lui quasi folgorato da un’ispirazione sovrumana esclama:
    “Ah… Piaz-Risse!” e rincuorato quasi da questa intuizione, riprende la scalata che lo porterà a farmi compagnia alla sosta nel mezzo della parete.

    Ovviamente i discorsi che allieteranno la nostra discesa a piedi per raggiungere di nuovo la base della parete verteranno tutti su Piaz, Dülfer, la tecnica di arrampicata in fessura e sul come mai noi italiani ne accolliamo la paternità a Hans Dülfer mentre nell’universo alpinistico tedesco è nota per essere stata inventata da Tita Piaz.
    La conclusione del mio teutonico cliente, estimatore dell’italiche genti e luoghi, il quale ama dialogare di storia dell’alpinismo ogni volta che ha occasione di legarsi alla mia corda, è che noi italiani spesso non sappiamo apprezzare ciò che siamo capaci di esprimere e, non solo in alpinismo.
    Ci penso un po’ su e non posso dargli torto su moltissime situazioni, basti pensare alla miriade di menti eccezionali che ogni anno “esportiamo” all’estero per dare vita magari poi a qualche scoperta scientifica da premio Nobel al di fuori del “Bel Paese”.

    Ovviamente quale estimatore di Tita Piaz, non solo come alpinista ma anche come figura umana, mi sono sentito un po’ in imbarazzo e puerilmente in colpa nei confronti del Diavolo delle Dolomiti per questa mia carenza storica e ho fatto un po’ di “conti”…

    Nel 1900 Tita Piaz sale slegato la famosa fessura alla Punta Emma in Catinaccio e di punti dove usare la tecnica “incriminata” ce n’è più d’uno, all’epoca Dülfer aveva soltanto 8 anni…
    Paul Preuss, il “Cavaliere dell’alpinismo” noto soprattutto per la sua etica rigida sull’uso dei chiodi ma anche per l’eleganza della sua arrampicata, dirà più volte di Piaz che arrampicasse meglio di lui e se queste affermazioni non provano nulla, disegnano comunque una figura di arrampicatore tercnicamente e stilisticamente avanti rispetto sicuramente ai suoi contemporanei.
    All’epoca ricercare le fessure, punti deboli delle pareti, era quasi un’obbligo per la scarsità dei mezzi di protezione.
    Oltretutto se nei Paesi di lingua tedesca è da sempre nota come Tecnica Piaz evidentemente ai contemporanei italiani dev’essere sfuggito qualcosa… oppure… qualche callo pestato di troppo dal ribelle Diavolo ha probabilmente sortito l’effetto di voler cancellare, direi puerilmente, la sua figura, che invece ancor’oggi rimane un simbolo dell’alpinismo dolomitico.
    Prova potrebbe essere che anche la famosa tecnica di calata in corda doppia la quale porta ovviamente il nome del suo inventore Tita Piaz, colla quale compì nel 1906 la traversata del Campanile di Val Montanaia e la più lunga calata nel vuoto allora mai sperimentata (37 metri!), in alcune pubblicazioni si voglia attribuire anche stavolta a Hans Dülfer, il quale solo quattordicenne all’epoca non poteva certo aver insegnato a Piaz…
    E’ vero peraltro che Dülfer sperimentò invece una variante alla tecnica originaria che rendeva più frenante la calata.

    Irredentista, garibaldino e socialista vissuto in un’epoca che oggi andrebbe rivisitata storicamente e socialmente per coglierne le reali sfumature, Piaz fu una figura spesso poco gradita ai suoi contemporanei che lo vedevano come un dissacratore, trasgressivo e ribelle.
    Una figura di Diavolo, insomma, che non lo connotava soltanto per le sue imprese sulle crode.

    A leggere i suoi libri “Mezzo secolo d’alpinismo” e “A tu pe tu con le Crode” non si può non immaginare l’immenso scompiglio che un uomo poco convenzionale come Piaz avesse portato negli ambienti istituzionali e bigotti dei vari Alpenverein e Club alpini dell’epoca, così come tra le baite della Val di Fassa.

    Aldilà della polemica, e aldilà di una rivisitazione storica del periodo che andrebbe fatta approfonditamente in altra sede, mi piace pensare che il portare alla luce piccole verità che spesso da noi sono sconosciute, possa dare a Cesare quel che è di Cesare o meglio, in questo caso, a Tita quel che gli altri già da tempo gli tributano.

    Dal canto mio ho già iniziato a definire quel tipo di tecnica col nome giusto.

    Stefano Michelazzi

  3. Belli, entrambi i testi. Stimalono riflessioni, approfondimenti, e alimentano la confidenza, se ancora oggi definiamo il superamento in un determinato modo di un tratto o di un passaggio “alla Dulfer”.
    Hans Dulfer ci è ancora vicino, la sua precoce fine in guerra è un dispiacere umano più sconcertante che se fosse avvenuta in parete.
    Nel mio piccolo arrivai negli anni ’90 sulla Terza Punta di Va Popena Alta, nel gruppo del Cristallo, senza incontrare alcun segno di ripetizione. Sulla vetta, non proprio spaziosa, era eretto un ometto di scaglie tra i più antichi che avevo mai veduto. Quasi interamente ricoperto di licheni. Era verosilmente quello eretto da lui il 22 agosto 1913. Pioveva di brutto, ma passammo una buona mezz’ora a smontarlo con delicatezza e rispetto, nella ricerca di un suo biglietto. Inutilmente. Ricostruimmo l’ometto e scendemmo ugualmente emozionati.

  4. I sogni di Hans Dülfer
    da Dolomiti e Calcari di nord-est di Alessandro Gogna (CDAVivalda Editore, 2007)

    Si è spesso detto che la guida Hans Fiechtl fu l”’inventore” dei chiodi come Otto Herzog lo fu dei moschettoni. Questo non è vero, come la storia fin qui raccontata ben dimostra, per ciò che riguarda i chiodi; e per i moschettoni giustamente Hermann Reisach fa osservare che anche questa è una bufala, lo dimostrano molte fotografie scattate ben prima del 1910. Fiechtl e Herzog “migliorarono” le tecniche, questo sì, come Hans Dülfer, di Dortmund ma originario di Barmen (bacino della Ruhr), perfezionò le manovre con la corda: pendoli e traversate a corda, unitamente ad una squisita abilità arrampicatoria, stravolsero completamente i limiti dell’epoca.
    Se Piaz nel 1908 aveva dominato la scena nel Kaisergebirge, pochi anni dopo Dülfer riportò in casa il primato: la parete E della Fleischbank e soprattutto la via diretta alla W del Totenkirchl sono tra le massime espressioni alpinistiche di tutti i tempi. Con Dülfer si raggiungono i limiti dell’anteguerra: prova ne sia anche la sua salita solitaria al Dülferriss tra la Fleischbank e la Christaturrn, 3 settembre 1913, un’impresa che non ebbe bisogno di tecniche di corda, ma solo di grandi dosi di coraggio ed abilità (in seguito valutata di V+ e A0).
    Dülfer arrampicava ugualmente bene, ma al contrario di Preuss non rifiutò l’uso dei mezzi artificiali. Gli furono così possibili alcune salite che innalzarono il livello tecnico delle difficoltà. Il 16 ottobre 1911 con Ludwig Hanstein salì sul Totenkirchl quello che in seguito fu chiamato Dülferkamin, un V+ strapiombante che dette filo da torcere a molti in seguito, anche allo stesso Dülfer che un giorno tentò di ripeterlo.
    Mitica è la sua salita di quattro ore (con Werner Schaarschmidt, 15 giugno 1912) ai 360 m della parete E della Fleischbank 2187 m, dove Dülfer utilizzò una famosa traversata a corda per collegare due fessure. La “traversata a corda” era già stata ampiamente sperimentata da Georg Sixt, che tra l’altro, per colmo di sfortuna, era stato anche il secondo a tentare con Hans Fiechtl la stessa parete, il 25 ottobre 1911, tentativo che si concluse con una memorabile ritirata notturna e un bivacco penoso a 30 metri dalle ghiaie! E, sempre per stare a nomi grossi, i primi erano stati nientemeno che Adolf Deye e Otto Herzog! Schaarschmidt affermò di aver visto ansimare Dülfer solo in quell’occasione. Ancora nel 1912, 12 ottobre, in compagnia di Hans Fiechtl e Walter e Willi von Bernuth, salì la parete E del Lärcheck 2124 m, 650 m fino al V, che lo stesso Dülfer ebbe a definire «una delle più difficili e magnifiche vie del Kaiser».
    In Dolomiti si recò quattro anni di seguito, ma le più belle imprese le realizzò nel 1913 e 1914. Ebbe una particolare predilezione per un gruppo fino ad allora abbastanza trascurato, i Dirupi di Larsec. 1913: il 15 luglio salì lo spigolo S dello Spiz dello Scarpello, con Hanne Franz, e il 19 luglio lo spigolo N del Campanile Sotcront, sempre da solo, entrambi V-.
    Il 26 luglio, con Hanne Franz e Franz Guttsmann, il Piccolo Cront per la spalla E, 600 metri, IV e V, itinerario oggi parzialmente franato. Dopo di ciò Dülfer, con il compagno Willi von Bernuth, si dedicò ad un sistematico assalto a quelle guglie che fino ad allora erano state salite solo con il lancio di corda. E così il 15 agosto fu salita la Torre del Diavolo, V grado, e il 23 la Guglia De Amicis, IV e V; non contenti ancora di guglie, i due salirono l’inaccesso Campanile Dülfer, 2706 m, V grado, 270 metri. Da notare che nello stesso periodo un’altra guglia mai salita in arrampicata venne superata da Berto Fanton, Franz Schroffenegger e Otto Bleier, il 30 settembre 1913: si tratta del Campanile Paola, negli Spalti di Toro, V grado.
    Ma la salita di Dülfer più bella di quell’anno in Dolomiti fu, sempre con von Bernuth, la W della Cima Grande di Lavaredo, 18 agosto 1913. Una fessura-diedro sale verticale a incidere la parete, allargandosi più in alto a camino, con logica e dirittura esemplare. È di V grado: e fu salita con tre chiodi.
    Nel Kaisergebirge il 26 settembre 1913, con Wilhelm von Redwitz, sale in otto ore la via diretta alla W del Totenkirchl, 600 m, in seguito valutata V+ e A1. «L’attrezzatura consisteva in due corde da 40 m, 26 chiodi da roccia e un trapano, che però non venne usato». Georg Leuchs la definì nel 1917 “la perla di tutte le scalate di Dülfer”.
    Il 24 giugno 1914, con il fido Schaarschmidt, affronta e vince la tetra parete NW della Kleine Halt 2119 m (Kaisergebirge), un precipizio di 750 m che sovrasta Hinterbärenbad. La via è grandiosa (valutata in seguito di IV con passi di V e A0) e si svolge tra immani concavità il cui collegamento è difficile da concepire: Franz Nieberl la ripeté nel 1919 e ne confermò il valore.
    Sull’isolato e massiccio Catinaccio d’Antermoia spicca a S uno splendido diedro di roccia gialla: fu questa la scalata eccezionale di Hans Dülfer nelle Dolomiti, da lui compiuta, solo, il 18 luglio 1914. Il diedro sale per otto lunghezze, e le prime quattro hanno una forte continuità, con difficoltà fino al V+. La compagna Hanne Franz lo assicurò sulle prime due lunghezze: la seconda è infatti la più dura di tutte, V+ con un passaggio di VI-, uno strapiombo fessurato a diedro. Dülfer, usando qualche chiodo, impiegò tre ore e mezza: poi fece salire Hanne, ma lo strapiombo era troppo duro per lei e la malcapitata dovette aspettare sulla cengia del primo tiro che Hans salisse in vetta e scendesse a corde doppie fino a lei! È strano osservare come Dülfer, al pari di Cesaletti, Winkler e Piaz, continui la stupefacente tradizione di innalzare il livello delle difficoltà tramite una salita solitaria.
    Pochi giorni dopo, il 1° agosto, con Hanne Franz, Franz Barth e Alfred Wolff, salì l’elegante fessura sulla parete S della Odla di Cisles, V grado.
    Poi venne la volta del grande tentativo su quello che allora era “il” problema delle Dolomiti: la parete N della Furchetta, 800 metri di parete prima grigia poi gialla, il simbolo della Val di Funes. Dülfer e Luis Trenker (proprio lui, il cineasta della montagna) arrivarono (26 luglio 1914) a due terzi (Pulpito Dülfer). Poco sopra Dülfer piantò un chiodo che rimase lì parecchio tempo a testimoniare il limite massimo e la sfida (o l’invito?) a proseguire oltre.
    Con ciò Dülfer, con le sue 50 prime, segnò veramente il suo tempo, alla vigilia della Grande Guerra che tutto avrebbe sospeso e che tante cose avrebbe fatto dimenticare.
    Fin qui la storia conosciuta, gli scritti e le testimonianze del tempo. Ma nel 2005, in seguito alla ripetizione (probabilmente la prima) di Antonio Bernard e Almo Giambisi della parete S della Croda del Lago 2816 m (ancora nel Larsec!) si venne a sapere che lì Dülfer aveva compiuto con Hans Kämmerer uno dei suoi grandi capolavori e proprio nel primo dei suoi purtroppo pochi anni di carriera. Era il 30 luglio 1911. La guida Sassolungo-Catinaccio-Làtemar di Arturo Tanesini aveva classificato quell’itinerario di V-, quella di Heinz Mariacher aveva ripreso quella valutazione: ma entrambe erano senza verifica. Kämmerer definì la parete di 15 metri del passaggio chiave Eremamente difficile, addirittura propose di battezzarla parete Dülfer: ma questo succedeva soltanto con la pubblicazione di un suo tardivo articolo sullo Jahresbericht der Akademischen Sektion München 1956/57, pochi mesi prima della sua morte. Sui 250 m di parete Bernard e Giambisi avevano a disposizione solo l’ottima relazione originale, che seguirono fedelmente, senza possibilità d’errore, e scoprirono che la lunghezza chiave era di buon VI grado, senza neanche l’attenuante dell’”inferiore”, in parete aperta e massimamente esposta. «Possiamo tranquillamente affermare che in alcuni tiri le difficoltà raggiungono il sesto grado, che dunque da Dülfer fu toccato già nel 1911» ha scritto Giambisi (Bollettino SAT, n. 1 – 2006).
    Assieme a Karl Planck, Dülfer fu il primo a interessarsi del problema della classificazione delle difficoltà. Il primo propose 7 gradi (senza dare esempi del VI e del VII), con la scala chiusa. Dülfer invece propose una scala più complicata: per lui la difficoltà (soggettiva) è il rapporto tra la difficoltà oggettiva della parete e le capacità tecniche del tempo; entrambi questi valori sono in aumento, perciò la difficoltà soggettiva non aumenta, ma anzi diminuisce; la scala quindi avrebbe dovuto essere periodicamente “compressa” e in ogni caso essere chiusa verso l’alto. In seguito Willo Welzenbach riprese il problema e negò interesse alla difficoltà soggettiva, esprimendo così in sei gradi (scala chiusa) le difficoltà oggettive (che però erano invece ancora soggettive, perché non c’era sufficiente chiarezza sull’uso dei mezzi artificiali). Da allora (1925) la scala Welzenbach è servita a mettere un po’ d’ordine nella confusione delle valutazioni. Fino a che nel 1978 fu ufficializzata l’apertura verso l’alto della Scala UIAA delle difficoltà.
    Una domanda sorge spontanea: perché i massimi esponenti dell’alpinismo di allora non pensarono ad una scala aperta? Possiamo rispondere che ciò successe perché l’introduzione graduale del mezzo artificiale aveva fatto avvertire d’essere vicini al limite. Ove per limite s’intende un massimo che comprenda sia le difficoltà vere e proprie, sia l’ardimento necessario a superarle. Si comprendeva che più mezzi artificiali ci si fosse messi a usare, più il progresso sarebbe stato minimo.
    La valutazione sportiva di oggi fa un’ulteriore distinzione sui mezzi: si possono (anzi si devono) usare per assicurazione, non per progressione. In quest’operazione appare evidente che dal concetto primitivo di limite si è eliminato “l’ardimento necessario”. Nel superamento degli odierni noni gradi il coraggio è superfluo, mentre è ancora essenziale su certi settimi di chiodatura antica. Ecco perché oggi il limite può essere aperto verso l’alto, anzi non esiste più un limite: perché se prima la difficoltà era un rapporto, oggi è una quantità per se stessa.
    Ma Dülfer non potè approfondire meglio le sue teorie sulla difficoltà soggettiva: se avesse potuto farlo forse oggi non ci sarebbe la confusione che c’è. Egli morì in trincea ad Arras nei primi mesi di guerra (15 giugno 1915): non aveva ancora 24 anni, al terzo anniversario della sua salita alla E della Fleischbank.

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