Il celebre romanzo di Goethe è il vero padre del ’68.
I dolori del giovane Werther
di Eraldo Affinati
(pubblicato su ilriformista.it del 28 novembre 2021)
Quando e dove nasce il sentimento moderno? L’idea cioè, pazza e disperata, che per essere felici bisogna superare un limite affettivo? Si tratta, è chiaro, di una domanda retorica, che lasciamo volentieri agli esperti del ramo: storici, filosofi, antropologi, scienziati, teologi. Se a rispondere ci provasse il letterato, sarebbe difficile per lui non tener conto dei Dolori del giovane Werther, ristampato nella magnifica traduzione di Enrico Ganni, prematuramente scomparso, secondo il quale questo famoso romanzo breve, cardine della cultura occidentale, ha rappresentato un luogo dell’anima (Einaudi, postfazione appassionata e coinvolgente di Luigi Forte, pp. 124, euro 17).
Johann Wolfgang Goethe lo compose di getto nel 1774, in poche settimane da febbraio a marzo, a ventiquattro anni, senza immaginare ciò che la sua invenzione tematica, ricavata da un fatto di cronaca, avrebbe scatenato in molte zone d’Europa: non solo e non tanto la drammatica serie di suicidi da parte di giovani lettori che si immedesimarono nella tragica vicenda dello sfortunato protagonista, quanto l’esplosione d’energia paradossalmente vitale di un’intera generazione, quella che poi si sarebbe detta dello Sturm und Drang, schiere di scrittori e poeti che, all’alba del romanticismo, avrebbero trasformato questo libro di un centinaio di pagine nel manifesto dei ribelli, contro le cosiddette convenzioni borghesi. Tuttavia limitarsi a leggere così, nel solco del manuale, lo straordinario esordio epistolare goethiano, primo esempio di best seller internazionale, che proiettò nell’empireo il suo autore e fece la fortuna dell’editore Christian Friedrich di Lipsia, significa ridurlo a un fenomeno sociologico. Mentre invece la storia del giovane innamorato di Lotte, promessa sposa ad Albert, che mette fine ai suoi giorni dopo aver verificato l’impossibilità di proseguire la relazione, è un sasso lanciato nel lago stagnante della letteratura coeva e soprattutto in quella che verrà dopo: al punto tale che certe conseguenze potremmo persino ritrovarle, ma lo dovrebbe spiegare meglio qualche talento critico specializzato, nelle stramberie dei personaggi kafkiani, se non addirittura negli “atti gratuiti” che affollarono molta narrativa novecentesca.
«Sono così solo e così contento di vivere in queste contrade che sembrano fatte apposta per anime come la mia»: ecco subito, nella missiva del 10 maggio diretta a Wilhelm, amico e confidente privilegiato, la condizione esistenziale del protagonista: pittore, lettore di Omero, in greco, teso verso una serenità impossibile, sempre imperfetta, perché regolatrice dell’emozione profonda, capace di intrattenere rapporti autentici soltanto coi bambini, i quali percepiscono in lui un terreno favorevole dove il gioco esce dai binari del tempo libero e diventa occasione propizia di sviluppo e crescita. L’incontro con la figlia maggiore del vicario, vedovo, impegnata a fare da mamma ai suoi otto fratelli, produce una deflagrazione del desiderio. Non solo amoroso. È come se questa ragazza rappresentasse il bagliore della vita piena: la scena iniziale della danza campestre colloca i due giovani in un mondo ultraterreno con l’evocazione lirica del poeta preferito da entrambi, Klopstock, sullo sfondo del tuono che annunciava la pioggia, così che il diarista si trova a sperimentare un’emozione tagliente che egli stesso non riesce a definire: «Io non so quando è giorno e non so più quando è notte, e l’universo intero svanisce intorno a me».
Ai suoi occhi Lotte assume le sembianze di un angelo che suona al clavicordo. Albert invece rappresenta la medietà aborrita: «Non sembra incline a sbalzi di umore e tu sai bene che questo è il difetto che più detesto negli esseri umani». In tale prospettiva Werther è un treno destinato a sfracellarsi contro la parete invalicabile dei sistemi sociali: incapace di trasformare la propria passione assoluta nell’amicizia fraterna che la fede pietistica del suo tempo gli chiederebbe, sente tutta l’atrofia della trappola in cui si è gettato. E la natura arcadica sulla quale pure si è formato sempre più gli appare nella sua ipocrita dimensione teatrale: «La più innocua passeggiata costa la vita a mille e ancora mille piccoli insetti, un passo del tuo piede distrugge i travagliati edifici della formica e sospinge un piccolo mondo in un’indegna tomba». A niente varrà il tentativo di evasione nell’impiego urbano, presso la Legazione, che per poco lo terrà distante dalla donna amata. La fatica quotidiana del lavoro anzi accresce l’ansia e l’insoddisfazione: «E poi la brillante miseria, il tedio fra questi individui abbietti, che si scrutano, schierati gomito a gomito».
Lo stesso Napoleone, lettore ammirato dell’opera, non comprese a fondo l’entità della posta in gioco, se è vero che, nel celebre incontro di Erfurt con Goethe, poté credere che l’errore di Werther fosse legato soltanto a un’ambizione sbagliata. Quando il giovane, dopo aver dato le dimissioni, torna da Lotte, si sente come un fantasma nel castello incendiato. Vaga per la campagna quasi in trance, avendo di fatto già scelto di morire: nel momento in cui incrocia un giovane svanito che sta raccogliendo fiori da regalare a qualche regina, è come se, trasognato, vedesse se stesso: «Heinrich! Gridò una vecchia che si avvicinava verso il sentiero. Heinrich, dove ti sei cacciato. Ti abbiamo cercato dappertutto. Vieni a mangiare. È il vostro figliolo? chiesi avvicinandomi a lei. Sì, è il mio povero figliolo, rispose. Il Signore mi ha imposto una pesante croce».
Qui Goethe sembra prefigurare i folli del ventesimo secolo: scrivani e frombolieri, fantastici esecutori di mitici Stati generali perduti nel tempo. Così l’ultima lettura del canto di Ossian, tradotto e recitato da Werther per Lotte, prologo del gesto estremo, nello scenario sepolcrale che annuncia il suicidio, assomiglia a un epitaffio: «Sovente quando cala la luna vedo dei figli gli spiriti, appena visibili erano uniti in desolata concordia».
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