Un uomo solo sull’Everest
di Fabio Cammelli
(pubblicato su Lo zaino n. 15, autunno 2021, scaricabile da qui)
Le fotografie sono tratte in massima parte da Internet e dal libro di Dennis Roberts Da solo sull’Everest (Nutrimenti, 2013)
I pendii ghiacciati che ricoprono il versante nord del Monte Everest custodiscono da ben 87 anni le spoglie mortali di uno degli uomini più idealisti e stravaganti che si siano mai avvicinati al Chomolungma (“Dea madre dell’universo”, in lingua tibetana), chiamato anche Sagarmatha (“Colei la cui fronte tocca il cielo”, in lingua nepalese). È questa la storia incredibile dell’inglese Maurice Wilson che, da solo e in un’epoca in cui era impensabile avvicinarsi all’Himalaya al di fuori delle grandi spedizioni alpinistiche nazionali, riesce ad arrivare con le proprie forze fin sotto il Colle Nord, larga insellatura ghiacciata posta a 7066 m di altitudine, a quel tempo passaggio obbligato per cercare di raggiungere la vetta dell’Everest. Non più giovanissimo, privo di qualsiasi esperienza alpinistica, mosso unicamente da una fede profonda e incondizionata, lo sconosciuto Wilson dà avvio alla sua avventura non tanto per squallidi motivi di notorietà o di ricchezza, bensì per cercare di stabilire, attraverso la preghiera e il digiuno, un contatto intimo con le forze universali del cosmo, in grado di aiutarlo ad arrivare sulla cima più alta del mondo.
Per comprendere la sua storia occorre viaggiare indietro negli anni: ecco allora che, seguendo un cammino a ritroso attraverso un viaggio temporale lungo quasi un secolo, seguiamo le tappe più importanti della sua vita. Maurice Wilson nasce in Inghilterra, a Bradford (nello Yorkshire), il 21 aprile 1898 da una famiglia benestante, terzo di quattro figli: ha un’infanzia serena e a scuola si dimostra uno studente brillante, con un particolare talento per le lingue. Pur sollecitato a proseguire la tradizione di famiglia nell’industria tessile, arriva la guerra a scompaginare le carte: nel 1916, a diciott’anni appena compiuti, si arruola come soldato semplice nel Quinto Battaglione del Reggimento West Yorkshire, al comando del principe di Galles. Promosso prima caporale e poi sottotenente, viene spedito al fronte nell’autunno del 1917, partecipando nella primavera successiva alla quarta battaglia di Ypres, nelle Fiandre, passata alla storia come l’ultima grande offensiva tedesca della Prima Guerra Mondiale. Nel corso di un aspro combattimento dà prova di notevole coraggio nei confronti del nemico, per cui viene insignito della Military Cross, un’onorificenza di terzo livello per atti di valore in azione. Nell’estate del 1918 è gravemente ferito al torace e al braccio sinistro da una raffica di mitragliatrice, con postumi d’invalidità permanente che lo tormenteranno per tutta la vita. Congedato nel luglio del 1919 con il grado di capitano, ritorna a casa profondamente segnato sia nell’animo che nel fisico, tanto da avere gravi difficoltà a inserirsi di nuovo nella vita civile. Inquieto, disincantato e perennemente insoddisfatto sia negli affetti che nel lavoro, prova a contrastare questo malessere interiore con una serie di viaggi all’estero: si sposta dapprima in America e poi in Nuova Zelanda, dove si ferma per alcuni anni, adattandosi a svolgere svariati lavori (commesso viaggiatore, venditore di elisir, agricoltore, proprietario di un negozio di vestiti per signora). Sempre alla ricerca di una serenità apparentemente introvabile, decide a un certo punto di tornare in patria, lasciandosi alle spalle una vita sentimentale piuttosto burrascosa, con alcuni matrimoni falliti e innumerevoli relazioni bruscamente interrotte. Messo piede sul suolo inglese, nutre la speranza di cominciare una nuova vita, grazie anche a un ragguardevole tesoretto messo da parte in un decennio di vagabondaggi in giro per il mondo. Arriviamo al 1932: nonostante l’aiuto di familiari e di alcuni amici che cercano in tutti i modi di coinvolgerlo in attività sociali, Maurice cade in una sindrome depressiva piuttosto grave. Perde peso in maniera significativa, soffre di ripetuti spasmi di tosse (esiti tubercolotici), s’innamora della moglie del suo miglior amico e soffre d’insonnia cronica, chiudendosi ancor più in se stesso. Deciso a porre rimedio a questa drammatica situazione, dopo essersi affidato invano alla medicina ufficiale, incontra un guaritore che gli è stato consigliato e che, apparentemente, è in grado di guarire malattie ritenute da tutti incurabili.
A questa persona, di cui non ci è dato conoscere le generalità, Maurice si affida anima e corpo, sottoponendosi a un trattamento basato su un lungo periodo di digiuno completo (fatta eccezione per piccole quantità di acqua di riso) e sulla preghiera intensiva. Sta di fatto che Wilson, seguendo alla lettera questa terapia mistica e di privazione, guarisce del tutto dal suo malessere fisico e psicologico, tanto che la sua fede nel potere della preghiera e del digiuno diventa assoluta. Nell’autunno del 1932 Maurice va a trascorrere un periodo di convalescenza nella regione montuosa della Foresta Nera, in Germania. Metodicamente dedica numerose ore al giorno alla preghiera, non dimenticando di praticare periodi di digiuno. Grazie a ciò recupera fiducia e salute: non solo, ma questo rinnovamento fisico e questa rinascita mentale lo portano a maturare dentro di sé la convinzione di essere entrato in possesso di “poteri speciali”, grazie a un intervento divino in grado di farlo diventare un uomo nuovo.
Ma come far capire al mondo intero la straordinaria forza psico-fisica che si può ottenere attraverso il digiuno e la fede? Maurice intuisce che l’unica chance di credibilità è quella di fornire una prova tangibile e schiacciante della validità delle sue convinzioni mistico-religiose. Ma quale prova? Neanche a farlo apposta, mentre sorseggia un caffè in un bar di Friburgo, la sua attenzione è catturata da alcuni ritagli di giornale che riportano le cronache sia dell’imminente Houston Everest Flying Expedition (una missione aerea che ha lo scopo di sorvolare la vetta dell’Everest) sia della sfortunata spedizione britannica all’Everest del 1924, resa tristemente celebre dalla scomparsa di George Mallory e Andrew Irvine nel corso del loro ultimo tentativo di attacco alla cima. Segno del destino? Maurice pensa proprio di sì e vuole mostrare a tutti cosa può fare una fede pura e assoluta. Nello stesso preciso istante comprende quale sia la missione della sua vita: salire sull’Everest da solo e dimostrare che il digiuno e l’affidamento a Dio possono rendere possibile quello che da tutti è ritenuto impossibile. Il ragionamento è tanto banale quanto semplice: “Se riesco in un’impresa ritenuta da tutti irrealizzabile, allora ciò in cui credo sarà vangelo per tutti“.
Il primo passo, una volta ritornato a Londra, è documentarsi sulla cartografia e sulla bibliografia riguardanti l’Everest, per poi passare a leggere tutte le relazioni delle precedenti spedizioni alla montagna più alta del mondo. A nulla vale l’evidenza oggettiva dei ripetuti quanto inutili tentativi di conquistare la vetta da parte dei migliori alpinisti dell’epoca: anzi i loro fallimenti vengono considerati da Maurice come un ulteriore stimolo a dimostrare la validità e il potere di questa miscellanea di fede e digiuno in cui crede. Neppure le difficoltà alpinistiche lo preoccupano, né tantomeno le condizioni climatiche e meteorologiche estreme della catena himalayana, e neanche le gravi problematiche respiratorie relative all’alta quota.
Si può parlare d’incoscienza? Di tragico errore di valutazione? D’incompetenza alpinistica? Di suicidio annunciato? Di sogno di gloria? Di magnifica ossessione? È senz’altro lecito pensare a tutto ciò, così com’è altrettanto lecito provare un senso di ammirazione per il suo coraggio e per la sua determinazione. D’altra parte nelle pagine del suo diario troviamo scritto: “Niente e nessuno può distogliermi dal salire in vetta all’Everest. Ovviamente penso di riuscire in questa impresa, altrimenti non ci proverei“.
Con un certo pragmatismo, tipicamente inglese, inizia a pianificare un programma ben preciso: lui, che non è mai salito in vita sua su un aereo, progetta un viaggio solitario dall’Inghilterra al Tibet, seguendo rotte che neanche i migliori aviatori dell’epoca avevano osato immaginare; lui, che non è mai stato su una cima degna di nota, decide di salire da solo non su una montagna qualsiasi, ma addirittura sulla cima inviolata dell’Everest. Gli amici gli fanno notare che, per rendere effettivamente realizzabile un piano così audace, bisogna ovviare a due piccoli particolari non del tutto trascurabili: Maurice non sa pilotare un aereo e non sa assolutamente nulla di montagna. Disarmante la risposta del nostro protagonista: “Imparerò”.
Per quanto riguarda la sua preparazione in campo alpinistico, sceglie di non comprare alcuna attrezzatura specifica né di apprendere nozioni base di tecnica su roccia e su ghiaccio, come l’uso della corda, della piccozza e dei ramponi: si limita invece a trascorrere cinque settimane tra le modeste montagne di Snowdonia (nel nord del Galles) e del Lake District (nel nord-ovest dell’Inghilterra), arrivando a raggiungere un’altitudine massima di poco superiore ai 1000 metri sul livello del mare. C’è da dire che questa sua gravissima ingenuità nel sottovalutare in modo drammatico le difficoltà alpinistiche che avrebbe poi incontrato sui pendii ghiacciati dell’Everest è in parte da attribuire alle relazioni delle prime spedizioni britanniche in Himalaya, in cui si dà stranamente poco risalto sia agli effetti debilitanti dell’alta quota sia ai pericoli oggettivi di un’ascensione di questo genere.
Per quanto riguarda invece la sua inesperienza in campo aeronautico, la sua spavalderia nell’affrontare il problema, pur rasentando l’incoscienza, ha qualcosa di romantico. Compra un piccolo aereo di seconda mano, un De Havilland Gipsy Moth: si tratta di un biplano monomotore a quattro cilindri da turismo. Dipinge sulla sua carlinga un motto che è un chiaro riferimento all’Everest: Ever Wrest, traducibile con “lotta sempre; indomabile; sforzati sempre”.
A chi gli chiede spiegazione di questo gioco di parole, risponde: “Ho in progetto di volare sino in India, per poi atterrare sulle pendici inferiori dell’Everest e salire da solo in cima“. Inizia così a prendere lezioni di volo presso l’Aero Club di Londra, dimostrandosi un allievo tenace e molto determinato, anche se non particolarmente dotato, impiegando il doppio del tempo medio per ottenere la licenza di pilota. Il suo istruttore di volo cerca in tutti i modi possibili di dissuadere Maurice da quella che appare un’impresa a dir poco folle: secondo il suo parere, un viaggio lungo più di 8.000 km su un aereo a cabina aperta e su rotte poco conosciute, per un pilota inesperto con meno di duecento ore di volo all’attivo, non può che concludersi con un inevitabile insuccesso. Anche in questo caso la risposta lapidaria non si fa attendere: “Volerò in India da solo, ce la farò o morirò provandoci“. Una volta presa la licenza, Wilson intensifica le ore in volo solitario e migliora il suo allenamento fisico con lunghe passeggiate; s’impegna a testare vari tipi di alimenti e pianifica speciali tecniche di digiuno; studia accuratamente le rotte aeree da seguire e le possibili opportunità per rifornirsi di carburante lungo il tragitto; aumenta la capienza del serbatoio del suo Ever Wrest e rinforza il carrello di atterraggio; adotta esercizi particolari di respirazione diaframmatica e si procura un’attrezzatura adatta a ciò che intende fare una volta atterrato ai piedi della montagna: una tenda di ultima generazione e un sacco a pelo innovativo (creati entrambi per le precedenti spedizioni alpinistiche in Himalaya), indumenti caldi confezionati su misura (tra cui un certo numero di cardigan di lana e una particolare giacca leggera in tessuto termico, progettata per resistere al vento, al sole e all’acqua), scarponi d’alta quota (con un’imbottitura di sughero), un altimetro, una macchina fotografica, un apparecchio ultraleggero per l’ossigeno, una piccozza da ghiaccio e uno spezzone di corda. Di questa attrezzatura balza subito all’occhio la mancanza di un attrezzo che sui pendii ghiacciati dell’Everest risulterebbe di fondamentale importanza: i ramponi.
Ormai pronto alla grande avventura, Maurice decide di alzarsi in volo a fine aprile del 1933 ma, alla vigilia della partenza, il suo biplano si schianta a terra in un campo vicino a Bradford, dove era diretto per salutare i familiari. Uscito miracolosamente illeso da questo incidente, rimanda la partenza di quattro settimane, tempo minimo per riparare i danni all’aereo. Ma ecco che subito si materializza un secondo contrattempo, apparentemente insormontabile: il Ministero dell’Aeronautica Inglese, messo al corrente del suo progetto di volare in India per poi proseguire nello spazio aereo nepalese sino alle pendici dell’Everest, gli nega tutte le autorizzazioni di volo, intimandogli senza mezzi termini di non partire. Ignorando completamente questo divieto, il 21 maggio 1933 Maurice Wilson decolla dall’aeroporto inglese di Stag Lane alla volta dell’India, salutato dagli amici più intimi e da un buon numero di giornalisti e di fotografi, chiamati a documentare l’inizio di quella che sembra essere una folle avventura.
E Maurice, boicottato in tutti i modi dalle autorità britanniche, riesce in un’impresa aerea che, da sola, rientra a buon diritto tra le pagine d’oro della storia dell’aviazione: in completa solitudine, con un aereo leggero e a cabina aperta, con un’autonomia limitata di carburante, in assenza di radio, senza nessun supporto meteorologico e con aree di rifornimento limitate, compie una trasvolata che ha qualcosa di epico e di straordinariamente coraggioso. Facendo scalo ogni 600-800 km per rifornimento, con piani di volo della durata media di 5-6 ore, il suo Ever Wrest sorvola Germania, Austria, Svizzera, Francia, Italia e Tunisia: qui Wilson viene arrestato ma subito rilasciato, con l’obbligo però di ripartire immediatamente. Dopo aver attraversato la Libia, passa in Egitto e atterra al Cairo, dove scopre che il suo permesso di sorvolare la Persia, precedentemente notificato, non è più disponibile. Senza lasciarsi scoraggiare, elabora subito una rotta alternativa: attraversa l’Iraq e fa scalo, dopo otto ore di volo ininterrotto, nell’arcipelago del Bahrein dove, per ordine del consolato britannico, gli viene negato il rifornimento. Maurice gioca allora la carta dell’astuzia: si fa riempire il serbatoio e promette di ritornare in patria. Ma, appena decollato, anziché dirigersi verso nord, punta il muso del suo Ever Wrest a est, verso il Belucistan, atterrando con le ultime gocce di carburante all’aeroporto di Gwadar, la più occidentale delle piste di atterraggio in territorio indiano, dopo una decina di ore di volo e circa 1.240 km di trasvolata. In poco meno di due settimane Maurice è riuscito a volare per oltre 8.000 km, dall’Inghilterra all’India: un’impresa a dir poco spettacolare e temeraria, soprattutto per un pilota con un’esperienza di volo talmente ridotta da poter essere considerata imbarazzante.
Entrato nello spazio aereo indiano, supera con qualche escamotage ulteriori inghippi burocratici che hanno, come unico scopo, quello di rendere impossibile il suo viaggio. Niente tuttavia riesce a fermarlo ed è così che, volo dopo volo, si avvicina al confine nepalese: nel suo progetto iniziale è previsto, una volta arrivato in India, un ultimo viaggio aereo in Nepal, per poi effettuare un atterraggio di fortuna ai piedi dell’Everest, intorno a 4300 m di quota, e continuare da solo sino in cima. Giunto però nel distretto di Purnia, al confine tra India e Nepal, le pastoie burocratiche diventano davvero insuperabili e l’intrepido viaggio in aereo di Maurice s’interrompe: le autorità nepalesi, probabilmente sobillate da quelle inglesi, gli negano nel modo più assoluto l’autorizzazione necessaria per volare all’interno del Nepal. Il suo biplano Ever Wrest viene confiscato e a nulla valgono tutti i tentativi presso i governi competenti per avere il permesso di volo verso l’Everest. Oltretutto è in arrivo il monsone, con tutte le difficoltà che il brutto tempo può comportare per un qualsiasi viaggio in aereo. Maurice ancora una volta non demorde: d’altra parte deve pur dimostrare al mondo intero la validità e la potenza della sua teoria filosofico-spirituale… ne deriva che più ostacoli incontra sul suo cammino più aumenta la sua determinazione. Seppur controvoglia abbandona l’idea di volare direttamente sull’Everest e comincia a prendere in considerazione un avvicinamento alla montagna via terra, non appena le condizioni meteorologiche glielo possano consentire. Questa permanenza forzata sul suolo indiano lo costringe a un riposo che si protrae per mesi, causandogli dei problemi finanziari non trascurabili e costringendolo a vendere il suo amato Ever Wrest per 500 sterline. Rassegnato a completare il viaggio a piedi, decide di trasferirsi in treno a Darjeeling (nello stato del Bengala), sulle colline indiane ai piedi dell’Himalaya. Pur distante ancora circa 480 km dalla base dell’Everest, Darjeeling è una cittadina montana molto accogliente, punto di partenza di ogni spedizione alpinistica sul Chomolungma. L’intento è quello di raggiungere la meta attraversando il Sikkim e il Tibet: la sua richiesta di entrare in questi due paesi viene ripetutamente respinta per cui, sistematosi per l’inverno in un piccolo hotel, incomincia a pianificare in segreto il viaggio a piedi verso l’Everest per la primavera seguente. Alla fine di ottobre partecipa a un’escursione di dieci giorni nella zona collinare del Sikkim, ed è qui che per la prima volta nella sua vita vede, sia pur da lontano, la dimora della “Dea madre dell’universo”. Tornato a Darjeeling, Maurice elabora il suo piano dopo aver scoperto che, incredibilmente, i monaci buddisti possono muoversi in assoluta libertà da un territorio all’altro senza alcun permesso ufficiale. Prima di mettere in pratica il progetto trova il tempo d’impratichirsi nelle lingue locali e riprende i suoi lunghi allenamenti; studia attentamente le poche mappe disponibili dell’Everest e si sottopone a una dieta ferrea con un solo pasto al giorno a base di porridge, orzo bollito e verdure; inizia anche un lungo periodo di digiuno, alternato a molte ore di preghiera. Nel frattempo prende accordi con tre sherpa (Tewang, Tsering e Rinzing), che avevano preso parte come portatori d’alta quota nella spedizione britannica sull’Everest dell’anno prima, guidata da Hugh Ruttledge. Si tratta di un incontro molto importante per Maurice: pur avendo pianificato un viaggio da solitario, si rende conto dell’importanza di un supporto da parte di pochi ma affidabili portatori, in grado di aiutarlo nel lungo trasferimento via terra sino al Monastero di Rongbuk, ai piedi della montagna. Messi al corrente del suo piano di entrare illegalmente nel Sikkim e nel Tibet, i tre sherpa si dichiarano disponibili a seguirlo e aiutarlo.
Alle prime luci del 21 marzo 1934, travestito da monaco buddista tibetano e fingendosi malato e sordomuto, l’inglese si allontana furtivamente da Darjeeling e comincia il suo lungo viaggio verso la “Dea madre dell’universo”. Il trucco del travestimento sembra funzionare alla perfezione: Maurice, i tre sherpa e un pony carico di bagagli s’incamminano lungo un tracciato attentamente studiato sulle mappe e danno inizio a una traversata incredibilmente avventurosa, dapprima nel lussureggiante paesaggio prealpino del Sikkim e poi lungo il desolato altopiano del Tibet. Senza mai dar segni di scoraggiamento, di disagio o di stanchezza, la piccola e pittoresca comitiva impiega 25 giorni per arrivare alla base dell’Everest, camminando per lo più di notte (con tappe forzate di 7-9 ore) e mantenendo una media di 20-30 km al giorno (con picchi anche di 45-48 km). Durante il viaggio Maurice alterna la preghiera a periodi di digiuno, seguiti da una dieta vegetariana. Procedono su un terreno a tratti molto accidentato e talora a malapena tracciato, procurandosi il cibo “in itinere” e lottando contro le tormente improvvise, contro il freddo (che di notte arriva a 25-30 gradi sottozero) e contro la furia di un vento che alza neve e sabbia. La squadra è costretta a guadare gelidi torrenti di montagna e a dormire per lo più in tenda e a quote più che ragguardevoli.
Valicato il confine tra Sikkim e Tibet in corrispondenza del Kongka Pass 5171 m e messo piede in territorio tibetano, smettono di viaggiare di notte e Maurice elimina il suo bizzarro travestimento: fatta eccezione per sporadici mal di testa e talora insonnia, nessun altro disturbo affligge il nostro indomito eroe, a testimonianza di una forma psicofisica decisamente invidiabile. Non a caso, nell’ultima settimana di avvicinamento, i quattro componenti della mini-spedizione riescono a percorrere una media di una trentina di chilometri al giorno, a oltre i 4500 metri di quota, scavalcando una dorsale alta quasi 5500 m sul livello del mare.
Sabato 14 aprile 1934 Maurice Wilson, accompagnato dai suoi tre fedeli sherpa e da uno stanco pony, giunge alle porte dell’antichissimo Monastero di Rongbuk, a circa 5100 m di altezza, località sacra per il buddhismo tibetano e porta d’ingresso per accedere alle pendici dell’Everest. È un momento d’immensa felicità personale e di grande soddisfazione per essere riuscito là dove nessuno avrebbe scommesso un penny sul fatto che potesse arrivare così lontano. Il panorama è mozzafiato: l’Everest, il suo Everest, si lascia cogliere in tutta la sua superba maestosità. Accampato in tenda all’ingresso del monastero, a un passo dal cielo, Maurice si guarda attorno e ciò che vede non solo ripaga tutta la fatica e le peripezie del suo lunghissimo viaggio ma invade e riempie il suo cuore e la sua fede, con uno sguardo che si allarga all’infinito come cerchi nell’acqua. Il suo arrivo a Rongbuk diventa di dominio pubblico e, al di là della Manica, la sua epopea arriva sulle prime pagine dei principali quotidiani, destando da una parte stupore e ammirazione, e dall’altra critiche velenose, invidia gratuita e pesanti commenti (non pochi lord e ufficiali inglesi “mal digeriscono” il fatto che abbia impiegato, da Darjeeling a Rongbuk, solo 24 giorni di cammino, rispetto ai 35 giorni occorsi alla spedizione di Ruttledge dell’anno precedente).
Al monastero il nostro Maurice trascorre solamente due giornate, in parte in preghiera e in parte digiunando. I monaci non solo lo accolgono con grande benevolenza ma acconsentono alla sua formale richiesta di poter rovistare tra le scorte lasciate in deposito dalla spedizione inglese dell’anno prima: da queste preleva, senza alcun imbarazzo, una tenda d’alta quota, un fornello da campo e una lanterna. Ottiene anche la sacra benedizione direttamente dalle mani del Lama di più alto grado che, toccando con il dorje le teste dei quattro uomini, pronuncia il noto mantra: “Om Mani Padme Hum”.
Il resoconto delle giornate successive riprende gli scarni appunti scritti da Wilson nel suo diario di viaggio, trovato l’anno successivo nello zaino accanto al suo corpo congelato.
Lunedì 16 aprile: all’alba, dopo essersi accomiatato dai tre fedeli sherpa, Maurice s’incammina verso le pendici dell’Everest, pensando in cuor suo che la missione della propria vita sta finalmente per compiersi. Con passo deciso e determinato, seguendo un’esile traccia di sentiero, s’inoltra nella Valle di Rongbuk, supera il luogo dove l’anno prima i suoi connazionali avevano posto il Campo Base e s’inerpica lungo le soprastanti cordonature moreniche, montando la sua tenda intorno a quota 5360 m, dopo aver percorso circa 13 km e superato un dislivello di circa 260 metri.
Martedì 17 aprile: partito intorno alle ore 8, oltrepassa il Campo I della spedizione precedente e s’inoltra lungo l’accidentato e caotico ramo orientale del Ghiacciaio di Rongbuk, dove si perde in più occasioni e dove, per la prima volta, accusa gli effetti dell’aria “sottile”. Riesce comunque a superare un dislivello di altri 400 metri e ad accamparsi intorno a quota 5760 m. La sera stessa scrive sul suo diario: “Ho trascorso una giornataccia sul Ghiacciaio Est del Rongbuk e ho fatto una fatica improba. Ho alleggerito il peso del mio zaino ma sono riuscito a compiere solo la metà della distanza che mi ero prefissato. Spero domani di arrivare al Campo III della spedizione di Ruthledge, da dove ha inizio la vera scalata“.
Mercoledì 18 aprile: dopo una frugale colazione a base di tè tiepido e fiocchi di avena, s’incammina lungo il soprastante ghiacciaio, ma presto una fitta nevicata e un brusco abbassamento della temperatura ostacolano in modo imprevisto la sua progressione. Alle ore 16 arriva, stremato, all’altezza del Campo II di Ruthledge, intorno a quota 6035 m, al centro del ramo orientale del Ghiacciaio di Rongbuk. Qui pianta la tenda sotto una fitta nevicata, cena con un pugno di datteri e due fette di pane, s’infila nel sacco a pelo e trascorre la notte.
Giovedì 19 aprile: inizia la giornata cercando tra i resti del campo della spedizione precedente qualche oggetto che possa servirgli. Trova un paio di ramponi, ma non ne capisce o non ne intuisce l’utilità, dimostrando una disarmante inesperienza e compromettendo in maniera drammatica la riuscita della sua impresa. Dopo una frugale colazione riprende la salita sul ghiacciaio che, da qui in avanti, presenta difficoltà a carattere decisamente più alpinistico: blocchi di ghiaccio instabili da superare, cornicioni e seracchi da evitare, alte formazioni pinnacolari e vele di ghiaccio da aggirare ma, soprattutto, un itinerario da cercare in mezzo a un intricato labirinto di crepacci. Anziché guadagnare dislivello sulla sponda rocciosa del ghiacciaio, Maurice s’intestardisce ad affrontarlo direttamente. Senza ramponi e senza alcuna tecnica sull’uso della piccozza, il nostro Wilson si ritrova a vagabondare in un mare ghiacciato senza fine dal quale non riesce a trovare una via di uscita. In questo ambiente severo e senza riferimenti, reso ancora più infernale da una bufera di neve, cammina per oltre 6 ore ma riesce a guadagnare ben poco dislivello, piantando la sua tenda intorno a quota 6110 m. Poche parole nelle pagine del suo diario: “Altra giornata infernale sotto una fitta nevicata. Ho sofferto una sete terribile e ho mangiato parecchia neve e ghiaccio“.
Venerdì 20 aprile: prova a superare i pendii ghiacciati soprastanti, ma la sua salita è ostacolata non solo da una nuova tormenta di neve ma anche dalla comparsa di una debilitante spossatezza, dovuta alle sacche di aria stagnante che aleggiano nei solchi profondi della parte superiore del Ghiacciaio di Rongbuk. L’inglese si accampa a quota 6250 m circa, guadagnando solo 140 metri di dislivello rispetto al giorno precedente. Il tempo fuori peggiora in fretta, la temperatura crolla abbondantemente sotto lo zero termico e un vento infernale scuote la proverbiale serenità di Maurice, intaccando in maniera impercettibile la sua fiducia nella riuscita dell’impresa.
Sabato 21 aprile (giorno del suo 36° compleanno), domenica 22 aprile, lunedì 23 aprile: sono tre lunghissimi giorni di bufera e di allucinante solitudine in mezzo al nulla. Le sue scorte di cibo, rappresentate soprattutto da fichi, datteri e avena, si stanno riducendo in modo preoccupante. Così scrive nel diario: “Il buonsenso è parte integrante dell’eroismo, per cui ho deciso che l’andare avanti, in queste condizioni assurde di tempo, non ha alcun senso. Ho male agli occhi e alla gola. Cercherò di scendere non appena possibile, per poi riprovare non appena il tempo si sarà ristabilito“.
Martedì 24 aprile, mercoledì 25 aprile: martedì Maurice, malconcio e dolorante, scoraggiato e impaurito, scende con la forza della disperazione lungo il ghiacciaio e abbandona lungo la strada gli incubi della solitudine e del gelo. Il mondo scompare nel frastuono di un vento da uragano. In questa angosciante ritirata verso la salvezza, trova la forza di bivaccare al Campo II, per poi riprendere la fuga il giorno successivo. Alle ore 22 di mercoledì, dopo una discesa di poco meno di 1.000 metri di dislivello, fa ritorno finalmente al Monastero di Rongbuk, dove lo accolgono i tre fedeli sherpa. È un uomo allo stremo delle forze, zoppicante e quasi cieco, malnutrito e con occhi spiritati: finisce così, miseramente e senza appello, il suo primo assalto all’Everest.
Ci vogliono ben 16 giorni, da giovedì 26 aprile a venerdì 11 maggio, perché Wilson recuperi completamente forze, spirito e nuovi stimoli. Pur continuando a pensare che Dio l’avrebbe sostenuto in questa sua impresa, Maurice pianifica il secondo assalto con maggior cura, sia per quanto riguarda l’alimentazione sia per l’attrezzatura da portare con sé (corde, piccozze, occhiali da sole, creme protettive, abbigliamento più pesante) sia per la tattica alpinistica d’adottare. A tal proposito decide di farsi accompagnare dai due sherpa più affidabili e più in gamba (Tewang e Rinzing), almeno fino ai piedi della parete ghiacciata di accesso al Colle Nord. Con nuova e rinnovata determinazione fisica e morale, alla prima finestra di bel tempo parte il secondo assalto al Monte Everest.
Sabato 12 maggio: con le prime luci del giorno Maurice e i due sherpa abbandonano il monastero, s’inoltrano nella Valle di Rongbuk e guadagnano dislivello senza incontrare particolari problemi, piantando le tende all’altezza del Campo I della spedizione di Ruthledge, intorno a quota 5425 m. Nella notte la temperatura precipita di alcune decine di gradi sotto lo zero termico.
Domenica 13 maggio: grazie alla conoscenza acquisita dai due sherpa nel corso del tentativo infruttuoso dell’anno prima con la spedizione inglese, i tre uomini progrediscono rapidamente lungo il ramo orientale del Ghiacciaio di Rongbuk, tant’è che alle ore 15 sono già attendati al Campo II di Ruthledge, intorno a quota 6035 m.
Lunedì 14 maggio: in una giornata limpida e serena i tre alpinisti si fanno strada nell’intricato labirinto di enormi pinnacoli e crepacci che formano la parte superiore del ghiacciaio. Pur con qualche fatica, legata soprattutto alle precarie condizioni fisiche di Tewang, arrivano nel pomeriggio a piantare le tende in corrispondenza del Campo III della precedente spedizione, intorno a quota 6400 m. Si tratta di un luogo desolato e spazzato dal vento, posto però in una posizione strategica e relativamente sicura dal rischio di valanghe: da qui risulta ben visibile non solo la cima dell’Everest (che appare, da questa prospettiva, ingannevolmente molto vicina) ma anche l’itinerario da seguire per accedere al soprastante Colle Nord. Ed è proprio la via di salita a questa larga insellatura ghiacciata che rappresenta la prima grande e vera difficoltà alpinistica: occorre infatti superare una parete ghiacciata alta quasi 300-400 metri, con un’inclinazione che può variare dai 50 ai 70 gradi. Non solo, ma questa parete si presenta in condizioni estremamente diverse di anno in anno: a volte trasformata in un muro di ghiaccio vivo (assai difficile da gradinare anche con piccozza e ramponi), a volte invece carica di neve instabile pronta a precipitare (cosa che successe alla spedizione inglese del 1922, quando proprio su questa parete morirono sette sherpa, travolti da una valanga). Dopo una breve ricognizione solitaria sui pendii soprastanti, Maurice torna al campo e, su suggerimento dei suoi sherpa (che sanno dell’esistenza di un deposito alimentare), inizia a cercare le scorte di cibo lasciate da Ruthledge e compagni l’anno prima. In breve trovano il ben di Dio, così tante prelibatezze che inducono il morigerato inglese a spezzare il digiuno e a trovare un compromesso tra i richiami della fede e le esigenze dello stomaco. In breve le loro tende si riempiono di lattine di zuppa e carne, biscotti alla crema e barrette di cioccolato, burro e miele, formaggio e pasta di acciughe, sciroppo d’acero e dado vegetale, torte e persino mezzo chilogrammo di cioccolatini “King George”.
Da martedì 15 maggio a lunedì 21 maggio: continue e prolungate tormente di neve, associate a un vento impetuoso, infuriano sul versante nord dell’Everest. La nostra squadra è costretta a una forzata quanto debilitante inattività al Campo III: neppure il cibo abbondante e le golosità con cui si nutrono sono sufficienti, dopo una settimana bloccati in tenda, a mantenere alto il morale che, piano piano, incomincia a incrinarsi e a dar voce a domande sul senso della missione. Durante questa prolungata sosta, Wilson decide il piano di attacco successivo, pensando ingenuamente di ritrovare sulla parete di ghiaccio (sotto il Colle Nord) le corde e i gradini scavati dai suoi connazionali l’anno precedente. Sta di fatto che Maurice, romantico e inguaribile sognatore, pensa ancora di riuscire nell’impresa e di dimostrare che la fede può, se non smuovere le montagne, almeno espugnarle. In una delle sue ultime lettere inviata in patria scrive: “L’uomo propone e Dio dispone, anche se nel mio caso credo che abbia fatto Lui entrambe le cose. Ho la netta sensazione che tornerò ma, se così non fosse, almeno avrò concluso qualcosa in questa vita. Se dovessi rivivere una seconda volta, farei esattamente quello che ho fatto“.
Martedì 22 maggio: a distanza di un anno esatto dalla sua partenza dall’Inghilterra, Wilson decide ancora una volta di forzare la sorte e di salire verso la parete di ghiaccio che dà accesso al Colle Nord. Lo sherpa Rinzing lo accompagna per un tratto e gli mostra il percorso migliore per superare pendii ghiacciati via via sempre più ripidi, circondati da incombenti pinnacoli instabili e seracchi pronti a precipitare su di loro. Poco dopo mezzogiorno Rinzing, come da accordi presi in precedenza, torna sui propri passi e scende al Campo III: Maurice invece prosegue ancora e si accampa intorno a quota 6700 m, poco distante da un corto ma ripido canale ghiacciato in grado di portarlo, il giorno successivo, direttamente a un grande crepaccio situato sotto la verticale del Colle Nord, circa a metà altezza della parete di ghiaccio.
Mercoledì 23 maggio, giovedì 24 maggio: mercoledì Maurice risale il canale ghiacciato e oltrepassa su un precario ponte il grande crepaccio di cui sopra. Riesce quindi a superare in un qualche modo alcuni ripidissimi pendii innevati e cerca, ostinatamente ma invano, di risalire l’impressionante parete ghiacciata che permette l’accesso al Colle Nord. Esposto a un vento gelido, demoralizzato per non aver trovato né le corde fisse né i gradini intagliati dalla spedizione dell’anno prima, in assenza di ramponi in grado di aiutarlo, indebolito da un’alimentazione inappropriata, sofferente per la rarefazione dell’ossigeno che gli rende ancora più pesante il carico dello zaino sulle spalle, allucinato da temperature notturne che sono arrivate a 30-40 gradi sottozero, parzialmente cieco dal riverbero della neve e del ghiaccio, Wilson si rifiuta di arrendersi all’evidenza e continua a cercare e a cercare ancora una possibile via di salita, portandosi fin sotto un’ultima corta parete di ghiaccio e roccia a tratti strapiombante, incisa da una specie di camino. Si accampa, esausto e disperato, alla base dello stesso, un centinaio di metri sotto il Colle Nord, intorno a quota 6900 m.
Il giorno successivo, giovedì, si ostina per ore ed ore a risalire il camino, cimentandosi con una caparbietà dannata, salvo poi arrendersi di fronte a un ostacolo per lui insormontabile. Ritornato a bivaccare nello stesso posto della sera precedente, trascorre una notte infernale: in questa attesa solitaria, con il corpo scosso dai brividi e con la mente attraversata dai fantasmi, Maurice si rende conto tragicamente dell’inattuabilità del suo progetto. Ma ancora una volta, contro ogni aspettativa e in un ultimo sussulto di fede, si affida a quel Dio in cui crede profondamente, e così scrive nel suo diario: “La mia fede non è una fede che vacilla quando le preghiere rimangono inascoltate“.
Venerdì 25 maggio: dopo un ultimo infruttuoso tentativo di risalire il muro di ghiaccio di accesso al Colle Nord, Maurice decide di voltare le spalle alla cima e di spendere le ultime energie per tentare una via di fuga che lo riporti al Campo III. Ripercorre in discesa il tracciato che già in salita l’ha impegnato allo stremo delle forze: cade, scivola, si fa male alle costole, supera ponti sospesi ed esce incolume dai numerosi crepacci in cui affonda. Al tramonto, più morto che vivo, si abbandona ancora una volta tra le braccia dei due sherpa. A loro, che provano a farlo desistere da ulteriori tentativi verso la vetta, così risponde: “Non sono sceso perché ho abbandonato la mia idea di salire sulla cima dell’Everest. Sono tornato perché voglio che mi accompagniate sino al Campo IV sul Colle Nord“.
Sabato 26 maggio, domenica 27 maggio, lunedì 28 maggio: sfiancato nel corpo ma non nello spirito, Maurice rimane all’interno della sua fredda e umida tenda, ben avvolto nel sacco a pelo, in gran parte assopito in un sonno più o meno profondo, ma cosciente quel tanto da cercare di elaborare una nuova strategia di attacco. La gelida e disumana desolazione dell’attendamento in cui si trovano, spazzato da un vento continuo e furioso, in assenza di un qualsiasi oggetto e soggetto in grado di offrire conforto, calore e speranza, annienta e prosciuga non soltanto l’anima di Wilson ma anche lo spirito dei due sherpa, che rimangono fermi nel loro proposito di non fare un passo in più verso la vetta. Non solo, ma Tewang e Rinzing lo supplicano in tutti i modi di tornare con loro al Monastero di Rongbuk, facendogli una lista circostanziata, crudele ma reale, dei numerosi motivi che rendono assurda e improponibile questa sua insistenza nel perseverare in un progetto che non soltanto non ha alcuna speranza di successo, ma è anche votato a un epilogo tragico. È un elenco che prende in considerazione svariati aspetti: l’arrivo prossimo del monsone, le precarie condizioni di salute in cui si trovano, un equipaggiamento assolutamente non idoneo (con particolare riferimento alla mancanza di corde e di ramponi), la carenza di un’organizzazione alle spalle tale da permettere una progressione che abbia una pur minima possibilità di avanzamento lungo le pendici superiori e, non ultimo, l’assenza di un’esperienza alpinistica tale da pensare, anche lontanamente, di poter salire in vetta all’Everest. Wilson non cede e non si dà per vinto… è ancora dell’idea di dover e poter dimostrare al mondo intero che, con la fede, con la sola fede può raggiungere la dimora della “Dea madre dell’universo”.
A questo punto è lecito chiedersi se sia possibile che il nostro uomo creda veramente di riuscire nel suo intento. Oppure, rassegnato al suo destino, preferisca andare incontro alla morte piuttosto che subire l’umiliazione di un ritorno in patria senza la prova di essere stato in cima all’Everest.
Maurice calcola che per raggiungere la cima dovrebbero essere sufficienti quattro o cinque giorni, più altri due o tre per la discesa. Decide perciò di partire leggero, con la tenda e il sacco a pelo, un abbigliamento pesante e l’apparecchiatura per l’ossigeno, tre pagnotte di pane e due lattine di porridge, un fornello da campo, una piccola bandiera del Regno Unito (Union Jack) e la macchina fotografica.
Alle ultime resistenze e suppliche da parte degli sherpa, risponde: “Aspettatemi qui al campo per dieci giorni; se non mi vedete tornare, siete liberi di scendere senza di me“.
Martedì 29 maggio: Maurice, ancora sofferente e debilitato, ma più che mai deciso a seguire fino in fondo il suo sogno, parte alle prime luci dell’alba, in una giornata estremamente fredda e sferzata da un vento violento, tale d’abbassare la temperatura percepita a 25-35 gradi sotto lo zero termico nell’arco dell’intera giornata. Lentamente, molto lentamente, lottando contro tutte le avversità del tempo e del terreno, sale ancora una volta al grande crepaccio situato sotto la verticale del Colle Nord… e ancora una volta capisce che l’accesso al soprastante colle gli è inesorabilmente precluso… e ancora una volta trova la forza di tornare indietro. Striscia tra i crepacci come un naufrago, si rialza dopo ogni caduta, abbandona lungo la strada ogni traccia di umanità e cerca di sopravvivere quel minimo indispensabile per tornare dai suoi sherpa e chiudere definitivamente la partita. Stremato, accecato e congelato, non riesce ad arrivare al Campo III, ma si ferma poco più in alto: ultimo tentativo orgoglioso di nascondere il proprio insuccesso.
Mercoledì 30 maggio: le forze lo stanno abbandonando e lo spirito si sta rassegnando. Troppo debole per uscire dal sacco a pelo, scrive un’unica riga nel suo diario quotidiano: “Giornata di riposo“.
Giovedì 31 maggio, venerdì 1 giugno: Maurice, quel giovedì mattina, si sforza ancora una volta di alzarsi. Nel labirinto di pensieri e sentimenti che attraversano la sua mente, forse intuisce che mancano ancora pochissimi granelli di sabbia all’interno della clessidra della sua vita. Ha due possibilità, solo due: riunire le poche forze rimaste per scendere al vicino Campo III, oppure salire ancora una volta per andare incontro alla morte. La risposta la troviamo nelle ultime parole leggibili del suo diario: “Tempo splendido, di nuovo in pista“. E allora, mettendo alla fantasia le ali della libertà, è bello pensare a Maurice Wilson che, finalmente sereno e in pace con se stesso, s’incammina ancora una volta verso il Colle Nord. Lotta tutto il giorno, prega, e poi prega ancora, e continua a cercare una possibile via di salita. Giunta la sera di giovedì, riesce a piantare la sua tenda a una quota imprecisata, verosimilmente tra i 6700 – 6900 m sul livello del mare. Capisce che il suo tempo è ormai scaduto. Il respiro diventa calmo e regolare. Nel silenzio di un cuore frastornato può ancora udire, confuse nel vento, lo sciacquio dei ruscelli presso le cui rive si è tante volte abbeverato negli ultimi mesi. Con le dita ormai congelate apre la tenda e guarda con cuore innamorato la cima dell’Everest. E poi, tranquillamente, chiude gli occhi per sempre… e raggiunge la dimora della “Dea madre dell’universo”.
Lassù, comodamente seduti su un cumulo di neve ghiacciata, i suoi connazionali George Mallory e Andrew Irvine lo accolgono con un sorriso sulle labbra e con una tazza fumante di buon tè inglese.
Il resto della storia, pur nella nuda cronaca degli eventi, recupera la memoria dell’emozione e dà voce e giustizia al più visionario dei cavalieri romantici dell’alpinismo himalayano.
I due fedeli sherpa attendono diverse settimane al Campo III: quando arriva il monsone, persa ormai qualsiasi speranza, fanno tristemente ritorno al Monastero di Rongbuk e danno al mondo intero la notizia che Maurice Wilson, l’inglese volante, è morto sul versante nord dell’Everest.
Il suo corpo, congelato e pressoché intatto, viene trovato l’anno dopo, il 9 luglio 1935, dalla spedizione guidata da Eric Shipton, ai piedi della parete di ghiaccio sotto il Colle Nord. Della sua tenda sono rimasti soltanto i tiranti: il suo corpo giace a terra poco distante, vestito come se fosse pronto per ripartire da un momento all’altro; lo zaino è accanto a lui e al suo interno viene trovato il prezioso diario di viaggio (ora conservato negli archivi dell’Alpine Club). Con intensa commozione e grande rispetto la salma di Maurice, dopo un breve servizio funebre, viene sepolta in un profondo crepaccio.
Nel corso degli anni, come un fantasma errante, il cadavere di Wilson viene ritrovato a quote più basse, trasportato dalla lenta ma inesorabile progressione del ghiacciaio: i primi a ritrovare i resti sono i componenti di una spedizione cinese nel 1960, poi è la volta di una spedizione catalana nel 1985, con ulteriori avvistamenti a cadenza quasi periodica… come se lo spirito immortale di Maurice Wilson stesse ancora una volta cercando la strada giusta per raggiungere la cima dell’Everest.
11
Storia degna di un film, se ci fosse un regista serio (possibilmente non italiano) e con un budget adeguato, perchè si tratta di raccontare un volo in biplano (!) dall’Inghilterra in India, attraverso mille peripezie, e poi un tentativo (anzi tre tentativi) di scalata all’Everest. Da anni raccolgo materiale su questa storia, e ho ritrovato anche foto inedite e mai viste di Maurice Wilson, i cui diari originali (ci tengo a dirlo) furono ritrovati nel suo zaino l’anno dopo, di fianco al corpo, e poi donati all’Alpine Club a Londra.
Leggo:”…Si presume che Wilson sia morto nella sua tenda di esaurimento o di fame. La data esatta della sua morte è sconosciuta….” anticipa “Nelle terre estreme o Into the Wild “di Krakauer.Comunque dopo le esperienze patite nella grande guerra, ha scelto la sua nuova visione di vita.Basti confrontare con la reclame dell’impresa italiana sul K2 , accuratamente preparata e mai a stomaco vuoto…con riserve di energia e grasso . Eppure Puchoz mori’ di edema polmonare.
@Simone
Senza volere togliere nulla al concetto dell’eroismo, questo non è altro che una forma di incoscienza. Per essere eroismo le azioni devono essere rivolte al bene comune. Quindi, in questo caso è un po’ forzato. Ma era per fare capire il concetto.
Si…d’accordo..però eroistiche é veramente un pugno nello stomaco!!
Storia indubbiamente affascinante, ma anche triste. Un uomo che è stato accecato dalle sue convinzioni, dalla sua “fede” (io in questo caso direi più “fanatismo” anche se per una volta ha fatto male solo a sé stesso), che gli ha impedito di usare il buonsenso per gran parte della sua avventura.
A volte l’incoscienza ti porta a fare cose che possono essere eroistiche, ma per lo più spesso lo diventano per pura fortuna.
Giorgio, non intendevo certo parlare di “buoni credenti praticanti”, che in fondo sono semplici uomini che trovano la consolazione alla loro finitezza in un’illusione.
Io mi riferivo a quelli convinti che dio parli loro (un qualunque dio, non necessariamente il padre nostro che sta nei cieli) e quindi di avere una missione nella vita a cui è doveroso sacrificare tutto.
Una particolare declinazione di questa, che per me è una vera perversione, una patologia della psiche umana, è quella di Wilson.
Ma credo che un’altra declinazione della medesima patologia sia quella degli invasati e dei fanatici che pretendono di avere la Verità e hanno la Fede nel dovere di cambiare il mondo con qualsiasi mezzo.
Queste personalità sono affascinanti e magnetiche e capita che riescano ad acquistare un seguito di persone che normalmente non avrebbero mai pensato alle terre irredente, al Lebensraum oppure di convertire gli infedeli; il problema sono le conseguenze di un preteso Assoluto.
Al mio intervento precedente aggiungo che ciò che mi ha affascinato maggiormente in questo inglese purosangue è il piacere di eludere normative e formalismi frutto di cervelli atrofizzati già allora ben presenti nei governanti, anche se il fenomeno non aveva ancora raggiunto la preoccupante massa critica attuale. Disadattato si ma a vivere in un mondo sbagliato. Come tanti grandi artisti. La sua fede credo vada vista in senso metafisico, non in quello propinato dai tanti pericolosi mediocri che si arrogano il compito politico di divulgatori di una fede. Uno che ha avuto una vita sessuale così attiva come questo Wilson non mi sembra proprio l’esempio del buon credente praticante.
Provo una fortissima ambiguità ambiguità di fronte a storie come queste.
Da una parte il fascino di come la mente possa dominare il corpo e l’agire dell’uomo superando limiti e barriere che tutti credono assoluti (chi ha idea di cosa sia un Tiger Moth rimane semplicemente sbalordito dal volo in India).
Dall’altra parte resto terrorizzato al pensiero da quello che può riuscire a chi vive la condizione patologica della “Fede in Dio” e quanto questa condizione sia ammaliante per gli uomini “normali” come i tre sherpa.
Perché se arrivare a 7000 m senza alcuna esperienza può affascinare come romantica avventura, quando un “Vero Credente” si mette in testa che dio gli ha affidato la missione di liberare il santo sepolcro, di conquistare per **** il posto che merita nella storia (aggiungere paese, razza, religione, organizzazione preferita) oppure di convertire gli infedeli le cose prendono un pessima piega!
Però, a ben guardare, che scambio di sguardi e stretta di mano con l’ aviatrice Jean Batten.(..altra vita avventurosa…)minimo c’era complicità, affinità.
Avevo sentito di lui leggendo il libro che narra il ritrovamento del corpo di Mallory. Ma ne ignoravo l’affascinante storia. Un pazzo? Un audace? Un mistico? Credo un Uomo, figlio dei suoi tempi e di una nazione. Sognatrice e temeraria, come lo furono Mallory e poco prima Schekelton
In che senso viene scritto: “Nella notte la temperatura precipita di alcune decine di gradi sotto lo zero termico.“? Lo zero termico vuol dire un’altra cosa
“…..gravemente ferito al torace e al braccio sinistro da una raffica di mitragliatrice, con postumi d’invalidità permanente che lo tormenteranno per tutta la vita.”
Ha reagito anche bene allo stress della guerra ! Anche altri famosi alpinisti uscirono da periodi bui di guerra scoprendo nell’alpinismo una via di vita ( Bonatti..Maestri ..) e ai primordi erano dilettanti .
Eppure a me pare la storia di un disadattato,affascinante e appassionante fin che si vuole ma che disadattato rimane.Se do credito alla stesura del testo il signor Wilson cercò il suicidio con ostinazione e caparbietà dimostrando alla fine e scusate il cinismo che l alpinismo in quota è per un neofita cosa più seria e letale dell’ aviazione. Spero che alla fine abbia trovato la pace che gli è mancata in vita.
Esempio di come la forza della fede possa riuscire, assieme ad una incredibile determinazione a fare raggiungere gli obiettivi sognati. Mi ha fatto venire in mente il grande A. de St. Exupery aviatore ed eroe francese suo contemporaneo, 1900-1944
Questa mattina dovevo fare altro, limitarmi a scorrere i messaggi. Ed invece…Impossibile non leggere fino in fondo questa storia affascinante che anch’io ignoravo totalmente. 35 anni di vita che valgono secoli quelli di Maurice Wilson…
E pensare che ci sono sceneggiatori e autori pagati per fare film nella sostanza molto più modesti…chissà dove arrivava Wilson con una dovuta preparazione , corda e ramponi…commovente storia che ignoravo totalmente.
Storia straordinariamente bella e affascinante! Viene da chiedersi cos’hanno in testa quelli che vanno sul ghiacciaio a punta Helbronner con le infradito….magari alcuni sono dei sognatori a la Wilson. Chissà.
Sull’aspetto dell’aviazione mi ha ricordato uno dei miei idoli, Mattihas Rust, che con un aeroplanino volò da Berlino a Mosca eludendo ogni sistema radar e atterrando sulla piazza Rossa tra i turisti negli anni ’90 se non mi sbaglio.
Dunque, chi fu Maurice Wilson? un esaltato? un folle? un sognatore sfortunato? un mistico? E chi fu Mallory?
Bastano poche righe per conoscere una persona? Basta una storia per svelare il mistero di una persona? Che cosa c’è nella sua anima?
… … …
Che cosa c’è nel profondo dell’anima di ogni essere umano? Tu sei capace di scoprirlo, Alessandro? Io ne sono capace?
«Tu lo sapresti, Quinto? Io lo saprei?»
Appassionante e ommovente racconto, molto bel scritto.
Non poteva che essere un inglese l’ uomo che con tanta determinazione ha voluto vivere fino all’ ultima goccia questa vita, sostenuto da una fede immensa seppur irragionevole. Si è spento tra le braccia della Grande Madre, in pace.