Metadiario – 178 – I fantasmi delle cime (AG 1994-006)
Avventure nei Bornes
Chi frequenta boschi, valli e vette, in genere vuole entrare in contatto con un mondo immaginario che il quotidiano affannarsi di tutti i giorni soffoca, ma che è uno spazio di cui molti sentono la necessità vitale.
Il Grand Bargy, Bornes, Savoia
Nella solitudine dei monti, fra le ombre dei valloni, dominati dalla quasi irreale immobilità della pietra e del ghiaccio, nella pace di pascoli e foreste capita spesso di avvertire attorno impalpabili presenze. E lontani dalle tendenze razionali della nostra civiltà ci sorprendiamo spesso ad essere trascinati “fuori” dalle nostre lucide gabbie. Ma osato il primo “strappo”, la fuga procede libera, mentre attorno tutto si anima e come per incanto ecco il respiro della Terra. Elfi, folletti, spettri orribili, le nostre paure, la nostra ombra, riprendono vigore.
Purtroppo i luoghi che tanto ci suggestionano con questi fantasmi di campagna sono sempre più invasi e minacciati da miserabili fantasmi provenienti da quel mondo che abbiamo abbandonato. Ci seguono, gli spettri di città, non si fanno vedere, sono leggeri e perfidi, li potrei paragonare a dei ladri dalla mano sapiente e, per essere incorporei, con uno strano interesse alle cose di valore. Certi luoghi ne sono ormai infestati: badate dunque a non lasciare valori incustoditi o in auto. Non c’è più spiacevole risveglio dai nostri “viaggi” che il ritrovarsi derubati: lo diciamo per esperienza!
“Arrivai a Samyé nella serata. L’aspetto del paesaggio era pressapoco sempre lo stesso, straziante e misterioso, come quello di un essere in agonia… ma attorno a Samyé, vaghe influenze occulte sembrava si mischiassero alla semplice azione delle forze naturali; la tristezza spirata dal paesaggio melanconico sfumava in una sorda inquietudine, quasi di terrore“. Così Alexandra David- Neel (Mystiques et magiciens du Thibet, Plon, Parigi, 1941) descrive uno sperduto monastero tibetano, esprimendo sensazioni forti e indistinte sul malessere e sul futuro di quella località.
Una volta c’erano dei momenti nella quotidianità di un pastore che riunivano senza alcuna distinzione il noto e l’ignoto. La solitudine, il silenzio erano complici di questa trasformazione, del sentire ciò che era attorno come qualcosa che non era di loro proprietà, neppure gli oggetti più consueti. L’universo prossimo si popolava quindi degli esseri più fantastici, presenze di solito spettrali che intimorivano o terrificavano a seconda di quanti e di quali peccati il soggetto si sentiva colpevole.
I fantasmi erano quasi puri spiriti, quindi erano al di fuori delle leggi dello spazio. Infatti i racconti di avvistamento erano precisi nel riferire i particolari ma vaghi nella localizzazione. Le narrazioni che se ne facevano correvano di bocca in bocca, perdendo i connotati relativi al tempo, senza poter risalire ad un’origine, tentare una storia e un’evoluzione. Quelle figure devono rimanere dove sono, se le vedremo svolazzare su un lago o correre di nascosto nei boschi scuri dovremo spaventarci e scappare via. Solo così potremo giocare con le grandi forze, quelle della nostra mente, senza sentircene esclusi.
Ogni luogo è diverso. Le persone più sensibili distinguono con precisione quel che emanano i diversi posti. Questa acuta percezione, sconosciuta a molti, più spesso volutamente ignorata, è la causa prima delle credenze del passato in chi, invisibile e potente, abita un luogo. Tutto ciò che di anormale contadini e pastori osservavano era attribuito agli abitanti del luogo, ai veri proprietari, cioè ai fantasmi. Nessun umano a quei tempi avrebbe mai osato pensare di essere il padrone vero. E siccome le cose tristi, macabre e terrificanti in questa valle di lacrime s’impongono più delle gioie, le presenze maligne superano ancor oggi di gran lunga lo sparuto gruppo delle benigne. Così fantasmi e spettri, anime dei morti più o meno dannate, diavoli e diavoletti hanno la meglio numericamente su folletti, gnomi e coboldi, operosi e benevolenti. Questi hanno insegnato ai pastori molte cose: il Lac Bénit è la loro dimora, per questo è “benedetto”. Un tempo una cappelletta in riva al lago era meta di processioni religiose, ma le acque la inghiottirono. Giusto sotto alla cima del Petit Bargy, in alto sull’enorme parete di calcare che si riflette nel Lac Bénit, si può leggere nei buchi della roccia una “testa di morto”. Due grandi cavità raffigurano gli occhi, mentre naso, bocca e mento son ben delineate da altri rilievi.
Dai pressi del Col du Cenise, la parete del Grand Bargy, Bornes, Savoia
Non ci sono più i folletti a giocare scherzi birboni. Sono scappati per la troppa confusione di oggi, oppure si sono nascosti ancor meglio? Di sicuro non ci sono più i campi d’orzo, di avena e di grano che salivano fino a Les Frachets. E i mulini che ruotavano lungo il Bronze, dove sono finiti? Quando le campane di Mont-Saxonnex risuonano sulle muraglie del Bargy per richiamare i fedeli, non c’è più nessuno che si scopra il capo, reciti una preghiera o sgrani il rosario.
Da quando abbiamo rinunciato a sentire le presenze, a soffrirne è stata la curiosità, cioè la nostra più genuina voglia di sapere.
Al Bargy abbiamo dovuto andare tre volte prima di essere soddisfatti del nostro lavoro fotografico. Alla conclusione della prima avevamo il morale a terra: ci avevano derubato di due macchine fotografiche, uno scherzo dei fantasmi moderni. Marco Milani era a casa con la caviglia ingessata. Ma quello era il tempo di provocazioni ai folletti, il tempo in cui il cupo dovere programmato con ansia vinceva la curiosità e rifiutava disponibilità all’ignoto.
È buio pesto quando Marco e io arriviamo alla splendida e vitale Chartreuse du Reposoir. La grande facciata è sormontata da belle torri. L’insieme si riflette in un lago, inquadrato da cime e da boschi illuminati di luna. Oltre la facciata, la Chartreuse è una grande cittadella, con cortili, torri ed edifici disegnati con le regole ferree e misteriose dell’architettura medioevale.
In riva al laghetto e a lato del viale d’accesso sistemiamo il treppiede e la macchina fotografica. Decise l’apertura del diaframma e la lunghezza di posa, un’ora, ci dirigiamo verso la Chartreuse per dare i classici “colpi di flash”. Furtivamente ci avviciniamo, poi Marco, sdraiato per terra, illumina per frazioni di secondo la facciata. Ma questa è talmente grande che i lampi diventano veramente parecchi. Qualche finestra comincia a illuminarsi, ma nessuna monaca si affaccia a vedere cosa succede. Al sessantesimo o settantesimo colpo, le finestre s’illuminano e si spengono freneticamente, da lontano sembra di vedere un flipper. Verso mezzanotte, siamo alla scadenza dell’ora, così scendo alla macchina fotografica per tapparla nel caso arrivasse un’automobile. Infatti, poco dopo, ecco un rumore, poi i fari: mi precipito a tappare l’obiettivo, arriva anche Marco trafelato. L’auto si ferma con stridio di freni accanto a noi, ne scende un uomo sulla quarantina dall’aria veramente arrabbiata.
– Cosa fate qui voi? – era il sindaco di Le Reposoir, chiamato telefonicamente dall’abbazia!
Balbettiamo qualcosa circa le fotografie (in un francese miserabile).
– Dovevate chiedere il permesso alle religiose!
Se ne va solo quando ci vede partire. Anche questa sera non siamo stati curiosi. Se bussavamo al grande portone, qualcuno ci avrebbe aperto e ascoltato. Invece abbiamo preferito carpire l’immagine e sfidare ancora una volta i fantasmi dei Bornes.
Lac Bénit sotto al Petit Bargy, Bornes, Savoia
postato il 29 novembre 2014
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Bellissimo racconto. Molto interessante. L’ho letto tutto d’un fiato , misembrava di essere insiene a voi.