I notai coltivano patate
(venti anni senza Ottavio Bastrenta)
Convegno alla Biblioteca di Courmayeur, 16 luglio 2024, ore 21.15
relazione di Alessandro Gogna
“Les soul sont de papë, la terra l’est d’or (i soldi sono di carta, la terra è d’oro) (Ottavio Bastrenta)”.
Sono contento di essere qui e ringrazio gli organizzatori di avermi invitato. Quasi tutti i relatori qui presenti erano grandi amici di Ottavio, io non posso dire la stessa cosa, pur avendo nel mio parco amicizie alcuni suoi amici… Mi riferisco a Franco Ribetti, Dino Rabbi, Piero Villaggio, Andrea Mellano, Euro Montagna e alcuni altri. Rimpiango di non averlo mai potuto conoscere bene, perché già da ragazzino lo stimavo molto, mentre rincorrevo le sue avventure sul Monte Gropporosso, sulle Lastre di Riva Trigoso e sulle Alpi Apuane. Purtroppo da lui non ho mai ricevuto in dono neppure una patata… Come non ho mai avuto modo di approfondire la conoscenza con Guido Rossa.
Però ho seguito con molta attenzione il loro cammino di vita e ora sono lieto di poter esprimere qualche parere e qualche emozione al riguardo di Ottavio.
Inizio con due citazioni dal suo diario alpinistico.
Alpinismo prima maniera, dal suo diario
“8 febbraio 1959. Monte Contrario (Alpi Apuane), parete nord, prima ascensione invernale, con Franco Chiarella, Luigi Dal Ri ed Emanuele Guarnieri.
La scelta meramente razionale di una prima ascensione è la negazione di questa: è prima, ma non ascensione. La via nuova è una creazione determinata da una tensione emotiva che giunta ad un certo grado prende forma nell’azione.
E l’ansia che va innanzi cento passi alla tua volontà, e la tua volontà che trascina la tua esistenza e quella degli altri come sassi lanciati nel vuoto che infine raggiungono il tetto del cielo.
Sul bianco pendio ogni gesto è un’involontaria confessione della propria debolezza”.
Ancora alpinismo prima maniera, dal suo diario
“7-8 febbraio 1960. Monte Contrario, parete sud-ovest, via Ceragioli con variante d’attacco, 1a ascensione invernale, con Euro Montagna.
Da Case Alberghi, raggiunte nelle prime ore del giorno da Forno con Rita e Giulia Anna, raggiungiamo la conca alla base delle pareti del Pizzone e del Contrario. La giornata è bella, sulla parete vaste chiazze di neve e di vetrato, vento.
Obliquando verso destra per canalini di neve, una lunga fenditura e grandi placche di marmo levigato (tracce di vetrato) perveniamo all’attacco comune delle due vie alla parete. Il fondo del colatoio che ci sovrasta è corazzato di ghiaccio; ne vinciamo quindi la sponda destra per una fessura appena accennata e per una malfida parete di roccia e gerbidi approdiamo sulla vena di roccia rossastra (lungo la quale si svolge la via Ceragioli).
La via dei Genovesi, che era nostra intenzione percorrere, non è raggiungibile a causa del vetrato che ricopre le placche. Continuiamo per la via Ceragioli.
Fa freddo e ho le mani intirizzite (si deve arrampicare senza guanti). Euro verso la fine mi dà il cambio. Poi riprendo io. Giunti sotto lo strapiombo finale ci sorprendono le tenebre. Bivacchiamo abbracciati su un aereo terrazzino. Nella notte forte vento, freddo (fino a -15°), nevischio. La mattina dopo riprendiamo a salire. Euro passa in testa. Nel superamento dello strapiombo volano 4 ore. Con le mani insensibili tento quattro volte di passare ma ogni volta pendolo nel vuoto e devo farmi calare alla base. Durante una di queste manovre rimango appeso alla corda con… i denti, con conseguenze alquanto rovinose per questi ultimi. Infine passo.
Ancora qualche tiro di corda e siamo in vetta (ore 16). Con vento fortissimo scendiamo la cresta est fino al grande spuntone; quindi per un canale sud-est raggiungiamo il sottostante vallone. Sotto a Case Carpano ci sorprende la notte. Incontriamo un gruppetto di nostri “soccorritori” (capeggiati dalla guida Abramo Milea). Un sorso di cognac e caliamo al paese. C’erano gli amici chiavaresi (Franco Chiarella, Armando Sanguineti, Emanuele Guarnieri) e genovesi (Giancarlo Bussetti, Gianni Pastine, Enrico Cavalieri, Renato Ansaldi); Rita Corsi e Giulia Anna Oliva ci riabbracciano come dei redivivi”.
Ma non sono qui ad elencare la bellissima attività alpinistica di Ottavio, mi limiterò a dire che questa ebbe la sua punta massima quando salì con Dino Rabbi la Cresta di Pra Sec alle Grandes Jorasses in prima ascensione integrale.
Altra citazione che mi riguarda più da vicino:
Rolwaling Valley
“14 ottobre-12 novembre 1972 – Trekking in Nepal (Rolwaling Valley) con Alpinismus International (Beppe Tenti) con una comitiva di italiani e svizzeri diretta da Alessandro Gogna e Cosimo Zappelli e accompagnata da 4 sherpas. In dieci giorni di marcia, in ambiente spesso superbo, arriviamo ad una giornata di marcia dal Thashi Lapsa, il colle attraverso il quale avremmo dovuto scendere nella valle del Khumbu e risalire fino al campo base dell’Everest. Il tempo, fin qui splendido, si guasta: nevica forte e noi dobbiamo ripiegare per 25 ore quasi continuamente sotto le valanghe. Un portatore muore assiderato. Ritorno senza storia lungo l’itinerario di marcia. Ci spingiamo fino al confine del Tibet”.
Qualche anno dopo ci fu a Torino l’edizione del Primo Convegno Nazionale sull’Alpinismo Moderno, un grande incontro con la presenza dei più forti alpinisti italiani. Io ero tra i relatori, perciò ricordo molto bene il suo intervento.
Torino, 27 novembre 1976
Ecco ciò che disse Ottavio Bastrenta:
“Non voglio assolutamente fare il punto, sono un provocatore diciamo professionale e continuo il mio ruolo. Ho buttato giù due appunti estremamente schematici. Ogni attività umana va inserita in un più ampio quadro di riferimento. Esaminare un particolare senza tenere conto della più ampia realtà nel quale è inserito, impedisce di comprenderne il reale significato. Per capire l’alpinismo, e quindi per sceglierlo come attività o per scegliere un certo tipo di alpinismo piuttosto di un altro, occorre avere una visione generale della società e della storia.
In un momento così grave per l’umanità e per ciascun popolo, è legittimo chiedersi se ha senso un’attività tanto rischiosa, se ha senso essere disposti di perdere anche la vita per uno scopo individualistico e non essere disposti a dare nulla per scopi sociali?
Se l’individualismo e la competizione esasperata, che dominano molta parte dell’alpinismo del mondo occidentale, non siano espressione di una concezione e di una prassi borghese capitalista antagonista ai valori tradizionali della concezione e della prassi dei montanari e dei lavoratori in genere.
Se la crisi, se la crisi c’è, di questo tipo di alpinismo è il riflesso della crisi più ampia del mondo capitalista. Sono sempre domande.
Se il capitale non abbia la percezione della potenziale pericolosità di certi alpinisti abnormi quali sono gli alpinisti e non abbia interesse di allontanarli da obiettivi sociali quali quelli che si propongono i movimenti dei lavoratori dei paesi del mondo occidentale”.
(Dalla sala: «Questa è politica, non c’entra con l’alpinismo»… Andrea Mellano impone «Per favore, lasciatelo finire»)
“Tutto è politica”.
(Animazione in sala. Sempre Mellano: «Ha chiesto di parlare, adesso lui parla, dopo qualcuno potrà benissimo controbattere le sue affermazioni, le sue provocazioni, d’altronde ce l’ha detto prima, voleva provocare»).
“Concludo: ciascun alpinista e soprattutto i più dotati dalla natura, non si chiedono se non sarebbe più degno di un uomo impegnare le proprie energie e rischiare qualcosa per cercare di costruire una società più giusta e umana?
Non si deve praticare l’alpinismo come fuga dalla realtà, come una droga, ma come un momento di anticipazione di una società migliore, con maggior senso di responsabilità e di solidarietà”.
Ottavio nel suoi Diari riferisce, dopo aver terminato: “Scendo dal palco tra i fischi dei più (ma qualche giovane grida che bisogna discutere di queste cose). Solo Guido (Rossa, NdR) mi abbraccia esclamando: «Meno male che c’è almeno qualcuno che dice cose serie»”.
Il dado era tratto, Ottavio aveva iniziato la sua lotta in ambito alpinistico per cercare di imprimere all’alpinismo una correzione di rotta “umanista”. Molti furono i suoi interventi, in pubblico oppure scritti, come fece nell’articolo pubblicato sulla Rivista Mensile del CAI di marzo-aprile 1982, Alpinismo e scelte… di vita? Ecco il testo.
Alpinismo e scelte… di vita?
“Terminato lo scritto di Livio Siro, mi sono detto: qualcun altro ha finalmente il coraggio di rompere questo velo di omertà, questo silenzio colpevole del mondo alpinistico di fronte all’accentuarsi di un fenomeno allarmante non meno di quello della droga… Mi riferisco, lo dico subito a scanso di ogni equivoco, non all’alpinismo in genere, ma a certe sue forme esasperate che in questi ultimi anni hanno mietuto tante giovani vite. E parlo di una serie di fenomeni che vanno dal semplice arrampicare soli e senza assicurazione in palestra alla «grande» solitaria; da talune attività alpinistiche collettive a certe spedizioni extraeuropee con mete e modalità irragionevoli.
Ma qui voglio replicare soprattutto allo scritto di Silvia Metzeltin, perché contiene affermazioni che sembrano giustificare qualsiasi forma, e quindi anche la più esasperata, di alpinismo.
Una prima considerazione: nell’articolo di Silvia Metzeltin manca qualsiasi riferimento a quegli «altri» ai quali ciascuno di noi è legato, non da una corda, ma dagli affetti, cioè al nostro compagno di vita, ai figli, ai nostri vecchi…
Neppure un accenno al dolore che la nostra scomparsa può arrecare loro e soprattutto alle altre conseguenze pratiche per la loro vita.
Quando ero istruttore della Scuola d’alpinismo Gervasutti di Torino, spesso prima della salita discutevamo — istruttori e allievi — di ciò che era per noi importante oltre all’alpinismo, a cominciare dai nostri cari che avevamo lasciato in città e ci interrogavamo sul nostro diritto di farli soffrire.
La consapevolezza da parte dell’alpinista «estremo» della sua scelta e dei tremendi rischi che comporta, di cui parla Livio Siro, deve essere allargata innanzi tutto alle conseguenze per questi «altri». Deve, se si sa amare e se si ha il senso del dovere. Altrimenti, naturalmente, si è liberi anche di morire.
Ma noi possiamo assistere indifferenti ad una simile conclusione?
Silvia Metzeltin ci propone una visione della società nella quale viviamo estremamente semplificata: da una parte la massa amorfa dei «normali», dei conformisti, di «quelli che prendono il metrò delle otto», stanchi e rassegnati; dall’altra l’élite degli alpinisti, «diversi fra loro, nelle inclinazioni e nelle capacità, spesso assetati di spazi liberi e d’autonomia», che trovano nell’alpinismo il meglio che la vita poteva offrire, in quanto tra le «tante strade possibili è quella più adatta alle loro attitudini e al loro carattere».
Molte cose si potrebbero replicare a questa visione di Silvia Metzeltin. Mi limiterò qui solo a qualche accenno: molti dei «grandi» alpinisti sono tra quelli che prendono il metrò alle 8 (e ad altre ore meno comode); questa massa anonima di «normali» guardata così dall’alto è pur sempre quella che produce per tutti noi e quindi anche per lei quello che occorre per vivere (e per andare in montagna); questa società è ben poco protettiva e sa cavar soldi da ogni diversità; chi detiene il potere è ben lieto che individui potenzialmente «pericolosi» per l’assetto sociale esistente rivolgano le proprie energie verso mete innocue quali il sesso, la droga, il misticismo, l’alpinismo, ecc… Quanto alle «altre strade possibili» a cui accenna Silvia, lasciamo parlare uno che ha dimostrato di «saper guardare in faccia alla morte» non solo in montagna, ma soprattutto nella vita.
«L’indifferenza, il qualunquismo e l’ambizione che dominano nell’ambiente alpinistico (…) sono tra le squallide cose che mi lasciano scendere senza rimpianto la famosa «lizza» della mia stagione alpina. Da ormai parecchi anni mi ritrovo sempre più spesso a predicare agli amici che mi sono vicini l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza; un interesse che si contrapponga a quello quasi inutile (e non nascondiamocelo, forse anche a noi stessi) dell’andar sui sassi. Che ci liberi dal vizio di quella droga che da troppi anni ci fa sognare e credere semidei o superuomini chiusi nel nostro solidale egoismo, unici abitanti di un pianeta senza problemi sociali, fatto di lisce e sterili pareti, sulle quali possiamo misurare il nostro orgoglio virile, il nostro coraggio, per poi raggiungere (meritato premio) un paradiso di vette pulite, perfette e scintillanti di netta concezione tolemaica, dove per un attimo o per sempre possiamo dimenticare di essere gli abitanti di un mondo colmo di soprusi e di ingiustizie, di un mondo dove un abitante su tre vive in uno stato di fame cronica, due su tre sono sottoalimentati e dove su sessanta milioni di morti all’anno quaranta milioni muoiono di fame!…».
Inizia così la ormai «storica» lettera di Guido Rossa (indirizzata a Ottavio, NdR) pubblicata dai giornali dopo la sua morte.
Un uomo eccezionale? Molti alpinisti hanno qualità simili alle sue. Lui aveva però certe convinzioni ed è stato «solo» un po’ più coerente di altri nell’applicarle alla prassi. Ma anche Guido aveva le sue contraddizioni. Scriveva queste belle frasi e poi ritornava ogni anno a salire quelle «lisce e sterili pareti» lungo vie di grande difficoltà. Ma alla fine ha pagato con la vita il prezzo delle sue convinzioni più profonde, lasciando un «segno» nel cuore ed una «traccia» nella coscienza di molti uomini. Tornando allo scritto di Silvia Metzeltin, quello che più colpisce è l’assenza di ogni condanna delle forme esasperate dell’alpinismo. Sembra che l’Autrice ritenga che la scelta di qualsiasi forma di alpinismo, purché sia consapevole, sia lecita. Ella accenna al suo modo prudente di andare in montagna, non come al modo o ad uno dei modi ragionevoli (con implicita condanna di modi diversi), ma solo come ad uno dei tanti modi possibili di praticare l’alpinismo. Silvia non prende posizione sul problema del rispetto della vita. Eppure ha la capacità, l’autorità e soprattutto il dovere di dire chiaramente ai giovani quali sono i limiti morali dell’alpinismo. Perché ogni attività umana sensata (cioè «a favore dell’uomo») è soggetta innanzi tutto a delle regole: la prima è quella del rispetto della vita. E un alpinismo «senza limiti» non può derivare da una scelta consapevole, ma da cause interne che nulla hanno a che fare con la ragione. Che dipendono da una disperazione esistenziale che deve far riflettere. Il problema centrale del dibattito non è quindi quello della scelta, ma dei limiti di questa scelta. Limiti sensati, ragionevoli. Limiti non certo imposti, ma proposti alla coscienza degli alpinisti.
Chi nel mondo della montagna sentirà il dovere di promuovere incontri-dibattiti, soprattutto tra i giovani, su questi temi? E i giovani avranno il coraggio di parlare?”.
Lo scambio di vedute con Silvia Metzeltin continuò. L’8 maggio 1982 Ottavio le scrisse una lettera con l’intendimento di precisare ulteriormente quella che era la sua visione.
Lettera a Silvia Metzeltin
“Credo che la spinta essenziale dell’essere umano sia quella volta al suo sviluppo (miglioramento) e ho fiducia nelle sue capacità in tal senso.
Nella sua storia poche volte l’uomo ha raggiunto collettivamente un livello di sviluppo soddisfacente (forse nelle Città-Stato della Grecia antica, nelle capitali del Rinascimento italiano…)
Credo che l’uomo storico concreto sia il risultato della sua interazione con la società nella quale vive e che la nostra società occidentale “produce” un essere a lei funzionale: produttore e consumatore di beni materiali, al fine di perpetuare lo sfruttamento dei più e il potere di pochi.
Ogni uomo di questa società (ma anche nelle altre società le cose non sono migliori) è un essere incompletamente sviluppato.
Se poniamo come massimo valore dell’uomo il pieno sviluppo delle sue potenzialità positive (per Marx: lavoro, coscienza, socialità, universalità, libertà) ne consegue che il compito di ogni uomo “sensato” è quello di contribuire alla realizzazione di una società che abbia come fine ultimo questo valore. Utopia realizzabile (come lo è l’VIII e il IX grado di difficoltà alpinistica).
Ma c’è tempo per questo “lusso”? Se allarghiamo la nostra consapevolezza fino ad abbracciare tutta la scena mondiale, scopriamo oltre alla minaccia della guerra atomica altri e più importati motivi d’angoscia. In primo luogo la sofferenza del terzo mondo, la sottoalimentazione del 70% dei bimbi della terra, i danni irreversibili che ne derivano. […] possiamo rimanere indifferenti a questo immenso grido di dolore? Che senso ha chiuderci nel nostro egoismo e pensare solo al nostro sviluppo individuale e collettivo? Il mio atteggiamento verso l’alpinismo vuole essere una articolazione di queste premesse”.
A conclusione di questa grande virata dell’alpinista Bastrenta, seconda solo a quella di Guido Rossa, vorrei riportare un’osservazione di Dino Rabbi, per il quale al riguardo di Guido non si poteva parlare di “abbandono” dell’alpinismo, visto che ancora negli anni Settanta questi aveva salito vie come la Vinatzer e la Soldà alla Marmolada, il diedro Livanos alla Cima Su Alto e perfino la Nord-est del Pizzo Badile. Commento di Guido: “Ma sì, così, a livello di droga…”.
Anche se l’allontanamento dalle grandi salite fu più brusco per Ottavio, tra i due amici c’era una visione del mondo molto simile, che li univa in modo speciale. In più, secondo Rabbi, li univa fortemente la tragica esperienza di aver entrambi perso un figlio.
I grandi problemi della società
L’interessamento di Ottavio per l’uomo vuole essere concreto. Si immerge nella problematica del nostro tempo partendo dal depauperamento culturale del montanaro valdostano ma arrivando ai problemi nazionali. Come dice Paolo Momigliano Levi, “Fra i problemi più preoccupanti, Ottavio indica la crisi dell’agricoltura e del Mezzogiorno, l’occupazione giovanile, la carenza di infrastrutture, di scuole, di ospedali, di case popolari, l’inefficienza della burocrazia, il riassetto territoriale, la ricerca di nuove fonti energetiche, il sostegno alla ricerca scientifica. I mali profondi che travagliano l’Italia sono la diffusa ignoranza, l’individualismo, il qualunquismo, la mancanza di valori, il fatalismo. Alla loro base sta la povertà diffusa, la carenza di scuole e d’informazione, la mancata democratizzazione del paese, l’arroganza del capitalismo, che è in crisi, un cattolicesimo proposto in chiave consolatoria, lo stress esistenziale, la sovrappopolazione ed il caos urbano”.
Psicologia concreta
Nelle sue letture e nei suoi interessi culturali, mentre chiede aiuto a degli psicologi per cercare di risolvere il proprio problema di periodi di depressione che si alternano agli entusiasmi, ci sono alcune figure che catturano particolarmente la sua attenzione, quella di Carl Gustav Jung, che lo aiutano a comprendere il significato di inconscio, ma anche quella di Alfred Adler, sicuramente a lui più congeniale. L’adleriana volontà di potenza ben si associa con le capacità da grande lottatore di Ottavio: Adler gli dava anche una grande spiegazione alle sue temporanee debolezze perché, affrontando il tema del “senso della vita”, sosteneva che se la vita è movimento in direzione di una meta, tutto ciò che si frappone a questo fine genera nell’uomo complessi di inferiorità e sensi di insicurezza. Ottavio amava parlare di “psicologia concreta”: così facendo, quanto più ragionevolmente approfondiva le tematiche esteriori della psiche dell’individuo e del suo adattamento sociale, tanto più si allontanava dall’accettazione dei contenuti inconsci.
La “psicologia concreta”, alla ricerca dell’uomo nuovo, lo porta a scrivere:
“Io so che siamo esseri infinitesimali, immersi nell’infinito; che la nostra vicenda è cosa da nulla nel tempo e nello spazio; che le grandi civiltà tornano polvere; che i grandi geni, i grandi uomini non possono capire, non possono cambiare quasi nulla; so del dolore degli uomini, della loro fatica di vivere, delle loro lotte, delle loro paure; so di chi pensa solo a sé e di chi pensa agli altri, so di chi accetta le cose come sono e di chi crede di poterle cambiare; […] so che uno dei più grandi problemi dell’uomo è quello di diventare adulto. Adulto significa cosciente dei suoi problemi vitali, reali e disposto a agire per risolverli assieme agli altri uomini […] L’egoismo dei singoli uomini o dei singoli popoli non può salvarli dai grandi pericoli che incombono sull’umanità. L’organizzazione di una società giusta è uno dei compiti più grandi cui sono chiamati gli uomini “adulti”. Rinunciare a questo compito significa non credere che l’uomo possa salvarsi dai pericoli, costretto a seguire un insieme di comportamenti “dovuti” sempre “eguali”, ciò che determina “una specie di coazione al ripetere sociale” e “disagi e disturbi esistenziali anche importanti”.
Ambiente
Una nota a parte meritano le sue idee sull’ambiente. Bastrenta parte dalla difesa del territorio in quanto bene culturale e materiale dei montanari che lo abitano, non bene fine a se stesso o riguardante l’umanità intera, come oggi abbiamo imparato con l’ecologia del profondo di Arne Naess.
Lo dimostra per tutta la vita professionale di notaio, non limitandosi mai alla pura formalità, bensì usando il suo potere di controllo in funzione sempre positiva specialmente con i più “deboli” ed esposti a ingiustizie sia pur legali. Si attivò già dal 1976 con l’ARCA (Associazione Rinnovamento Società Alpestre), poi nella lotta contro Alpila, che prevedeva 5.000 posti letto a Pila e ben 47 km di piste da sci, con relativi espropri e acquisti a poco prezzo ai danni dei montanari. Per finire con lo IAR (Istituto Agricolo Regionale) che diresse per ben 12 anni dal 1990 al 2002. Più volte rifiutò di occuparsi di atti notarili che non riteneva equi.
La sua è una lotta senza quartiere contro il capitalismo responsabile della corruzione e della rapina del territorio.
Bastrenta non arrivò a vedere l’ultimo volto del capitalismo, quello dedicato a succhiare le ultime risorse del pianeta, l’estrattivismo senza più il minimo scrupolo perché ormai ultima spiaggia, del quale non sono più responsabili soltanto i “padroni” ma anche tutti i cittadini del pianeta che si sono lasciati coinvolgere dalle mire consumistiche così ben propagandate, ultimamente facendo uso massiccio del travestimento “greenwashing” in piena crisi da riscaldamento globale.
Sviluppo dell’uomo nuovo
Ottavio, a questo proposito e sempre ricercando le tecniche per ridurre o eliminare i “disturbi” inconsci, scrive:
“Strumenti di questo processo sono la ragione, autocritica e critica, e la propria esperienza di vita. Le fasi del processo sono la presa di coscienza e l’elaborazione dei propri condizionamenti interni ed esterni, che preparano la modificazione del proprio comportamento.
Condizione di questo processo è ‘un io (inteso come parte consapevole e razionale della personalità) sufficientemente sviluppato, un’intelligenza normale e l’assenza di disturbi gravi’. La prima fase del processo è ‘la presa in carico della propria problematica esistenziale’, accettando l’esistenza come ‘esperienza e processo del quale si vuole essere protagonisti e non soggetti passivi’. La crescita di consapevolezza del proprio ‘io’ farà prima percepire e mettere a fuoco i propri conflitti inferiori e gli altri condizionamenti interni, poi aiuterà a cogliere le proprie contraddizioni e i condizionamenti esterni, che emergono da un esame critico della società e del suo funzionamento. Subentra quindi ‘la messa in discussione della propria prassi sociale e dei propri presupposti ideologici, palesi e latenti’.
In questa fase cadranno, almeno in parte, le difese dell’io ed emergeranno i bisogni più profondi e i valori di base della personalità. L’allargamento della consapevolezza ‘migliorerà la situazione psicologica, attenuerà l’angoscia ed il disagio esistenziale e aprirà la porta a passibili soluzioni dei conflitti e delle contraddizioni’. La riduzione dell’area ‘disturbata della personalità è condizione indispensabile per il suo sviluppo. Il processo di sviluppo e di strutturazione della propria personalità è effettivo se porta a modificazioni significative del comportamento, a un maggiore controllo delle proprie reazioni emotive e a scelte sempre più consapevoli.
Nell’esperienza del progetto Io e gli altri il gruppo e il suo coordinatore avranno il compito di stimolare e incoraggiare questo processo di crescita, senza sostituirsi all’interessato, non intervenendo in modo troppo direttivo e respingendo ogni velleità terapeutica.
Il gruppo ed il suo coordinatore dovrà, sempre, essere un punto di riferimento per la verifica periodica che le persone coinvolte in questa esperienza faranno dei propri progressi, e un appoggio nei momenti difficili della propria ricerca interiore”.
E altrove precisa: “Non riesco a concepire un approccio al problema individuale migliore di quello che prende inizio dalla società, cioè dall’esistenza collettiva. In altre parole pensare all’uomo in sé, isolato dalla società, è per me se non impossibile, sterile. La mia attività di ricerca e di sperimentazione ha per oggetto l’uomo e la società. Sono convinto che i due termini sono inscindibili e che non si possa comprendere il primo prescindendo dalla seconda”.
Con questo pensiero Ottavio esclude che crescita individuale e salvezza possano verificarsi con l’accettazione dell’inconscio individuale e soprattutto di quello collettivo. Per lui sarebbe sufficiente, quando “non disturbato”, il binomio io-società, dunque le due sfere del conscio.
Petrina
Nella primavera del 1993, Petrina scrive da Genova al padre una lunga lettera per dirgli cosa l’ha indotta a scegliere la Facoltà di medicina. Le motivazioni che adduce per spiegare la sua scelta fanno capire quanto ha preso dal padre: sono l’impegno sociale e umano legato a questa professione e il piacere di lavorare con un gruppo di colleghi con cui è ben affiatata. Ottavio le risponde che la sua scelta è ben motivata, soprattutto perché l’obbiettivo dell’esistenza deve comportare il massimo vantaggio per la persona e per la società. “Obbiettivo – aggiunge Ottavio – che tiene conto delle nostre esigenze più profonde (che via via scopriremo), dei nostri “condizionamenti interni” (che dovremo progressivamente superare) e delle istanze super-egoiche che ci saldano alla società della quale siamo parte e nella quale — svolgendo un ruolo attivo liberamente scelto – raggiungeremo la pienezza del nostro essere”.
A dispetto dell’uso che Ottavio spesso fa della parola “inconscio” (esemplare la sua ricerca sull’inconscio valdostano), in realtà non mi sembra che abbia mai trattato l’enorme materia inconscia in modo da lasciarsene invadere. Mi sembra che Ottavio abbia sempre visto i miti che sono dentro di noi come un qualcosa da “superare” e non da “accettare”: con ciò opponendosi a forze enormi, che lo costringevano a un uso di energia che a periodi lo sfiniva. Il suo stesso insistere sull’io collettivo (super-io), se da una parte sottolinea la grande importanza del non doversi mai considerare soli, dall’altra tradisce una continua ricerca di un alleato che lo aiuti a continuare ad opporsi allo strapotere dei nostri contenuti inconsci, anche quelli collettivi, che sono ancora più potenti. Una guerra che, purtroppo, si può considerare già persa in partenza.
Eppure, quando si trattò di voler commemorare l’amico Guido, fu lui a riassumere in maniera perfetta quello che in realtà era il loro cammino: da alpinista a uomo.
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Scrive la guida alpina Eraldo Meraldi nel 2021:
“La via Bastrenta al Procinto sulle Alpi Apuane è una via un po’ dimenticata che, però, riserva una bella e atletica arrampicata; pensando agli anni ’60, quando Ottavio Bastrenta ed Emanuele Guarnieri salirono zigzagando sullo spigolo nord-ovest con gli scarponi, viene bene da dire: bravissimi”.
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Grazie per questo vissuto così intenso, che dà coraggio a perseguire gli impegni sociali e di tutela di territori e culture.
Invece NON ringrazio il CAI: con decisione scellerata, ha cessato la pubblicazione della Guida dei Monti d’Italia, un capolavoro che ci era invidiato da tutti.
Ora i somari hanno campo libero.
E i ragli echeggiano tra i monti.
“Voglio ringraziare di cuore Alessandro per quanto sta facendo da piú di dieci anni: bagliori nel buio.”
Ringrazio anche tutti gli articolisti.
Ringrazio perfino Krovellik!
Sa scrivere storie deliziose e intriganti, specialmente di scialpinismo, e ve lo dice uno che non è scialpinista. Il problema è che poi si imbizzarrisce nei commenti…
😀 😀 😀
Ottavio Bastrenta, Andrea Filippi e innumerevoli altri dovrebbero appartenere alla memoria di ogni alpinista che voglia scalare con un minimo di consapevolezza storica (o vogliamo chiamarla cultura alpinistica?). Invece non è cosí, soprattutto nel tempo sportivo che l’alpinismo sta vivendo.
Tra l’altro, è piú bello salire sapendo chi ci ha preceduti. Senza cognizione della storia, perfino l’Acropoli di Atene e le rovine di Troia sarebbero solo un mucchio di pietre o poco piú.
Voglio ringraziare di cuore Alessandro per quanto sta facendo da piú di dieci anni: bagliori nel buio.
la via Bastrenta-Guarnieri sulla parete sud-ovest del Monte Contrario, è una delle grandi classiche delle Apuane. Ormai da tanti anni si sale solo la metà superiore accedendovi scendendo (e traversando) dal passo delle Pecore. Mentre viene evitata la metà inferiore che impone l’accesso dal suggestivo vallone degli Alberghi. Così facendo però si dimezza di circa la metà lo sviluppo della via e si riduce molto l’impegno complessivo, evitando un avvicinamento e un ritorno assai più lunghi e complessi.
Grazie per questo pezzo di storia dell’alpinismo poco conosciuto (credo) forse anche perchè piuttosto scomodo.
Ottavio Bastrenta un’appassionato di Apuane, vie di roccia e vie di misto sono li a testimoniare la sua passione per queste montagne. Come già ebbi ebbi a dire per Gianni Calcagno, anche Ottavio Bastrenta è stato un punto di riferimento con le sue vie ambite da generazioni di arrampicatori apuani.
Pensieri tormentati e intelligenze sopraffune, che derivano dal dolore.
Grazie per pubblicarli, però.