Il centro dell’imbuto

Metadiario – 183 – Il centro dell’imbuto (AG 1994-011)
(scritto nel 1994)

La colonna d’acqua scrosciante precipita, oltre le rocce scure e fradice, verso il bosco e il vago chiarore del segmento di cielo. Popi ed io, protetti da una nicchia umida, osserviamo l’Eau de Bérard che si riversa assordante nel vuoto, quasi alla fine della sua corsa verso la conca di Vallorcine. Una balaustra in legno ci sostiene a giusta misura dagli spruzzi vaporosi ed è impossibile scambiare anche solo una parola.

La muraglia liquida e le rocce scavate ad anfratti oscurano la luce. Ed è da qui, da questo buco, che riprendiamo la marcia ver­so spazi a poco a poco e con fatica sempre più ampi e luminosi.

Che cosa rimarrà a fine giornata di questo particolare gioiello, nel riassunto delle nostre sensazioni? Ciò che Leonardo da Vinci ha così mirabilmente disegnato è stato forse il primo panorama delle Alpi, una veduta d’insieme di gran­de effetto che a tal pun­to trascende milioni di particolari da assumere una sua realtà propria, come se le montagne della catena alpina si fondessero in un’unica visione collettiva e l’uomo del Rinascimento ne prendes­se coscienza non più come ostacolo o dimora degli dei.

Vista sul Mont Buet, il miglior punto di osservazione dell’intero gruppo del Monte Bianco (da Voyage pittoresque dans la vallée de Chamouni et autour du Mont-Blanc di M. Raoul-Rochette)

Da Le Buet 1335 m siamo saliti per buona mulattiera a questa Cascade de Bérard. È il 17 giugno 1994, il sentiero è molto frequen­tato, l’ora è calda e tarda. Seguiamo il sentiero accanto all’Eau de Bérard e con qual­che tornante in mezzo agli ultimi boschi giungiamo all’inizio di un lungo vallone pianeggiante. Oppressi da zaini pesanti, Popi ed io camminiamo lentamente sul fondo del vallone, assai stretto e senza grandi stimoli per la fantasia.

Al rumore del torrente si associano qualche uccello, milioni di insetti e i molti saluti che scambiamo con chi scende. Almeno duecento persone incrociamo, a piccoli gruppi, a due a due, soli. In pantaloni corti o con ad­dosso la giacca a vento. Ma son quasi tutte donne! In tanti anni non ci era mai successo di riscontrare una così netta maggioranza femminile. Forse è una giornata d’eccezione, forse è normale… ma la cosa finisce per colpirci davvero. Sappiamo che il Buet fu soprannominato nel secolo scorso il “Mont Blanc des Dames”: e questa è davvero la riprova! Se ne vedono di ogni tipo. Alcune sono certamente state in vetta al Buet, perché hanno il volto ra­dioso, non importa a che prezzo di fatica, altre sono andate a prendere il sole al refuge de la Pierre-à-Bérard, altre ancora si sono spinte appena oltre la cascata. Una ragazza si trascina penosamente, sostenuta dalla sua amica: forse, per come cammina, sono solo vesci­che ai piedi, ma ugualmente chiediamo loro se han­no bisogno di qualcosa; al loro gentile rifiuto proseguiamo, per incontrare subito dopo una decina di baldanzose fanciulle, tutte bionde, tutte carine… concludiamo che la Francia, ma lo sapeva­mo già, è proprio un gran bel paese!

Oltre il bosco e i pochi tornanti, il vallone accenna ad aprirsi appena, a destra il versante si alza roccioso e continua a na­scondere i piani superiori, mentre a sinistra l'”envers” delle Aiguilles Rouges de Chamonix non matura ancora tutta la sua po­tenza selvaggia. Il refuge de la Pierre-à-Bérard 1928 m è alla testata del vallone, piccolo, discreto e privato. Ci sono volute due ore per arrivare fin qui.

La salita al refuge de la Pierre-à-Bérard. Foto: Giuseppe Miotti

Il mattino dopo mi alzo alle cinque, spazzolo rapido la colazione che mi hanno preparato la sera prima con un thermos di tè, pane e marmellata, poi parto ve­loce. Popi rimane ad aspettarmi, ha la gola in fortissimo disordine. Parecchia neve ingombra i pendii che si seguono l’uno sopra l’altro, una traccia appena accennata, perché sformata dal calore pomeridiano, mi conduce sempre più in alto.

Di forme massicce e non eleganti, il Buet af­fonda però i suoi versanti in valloni profondi e selvaggi: l’itinerario sarà lungo e monotono ma, considerando l’eccezionalità della vista cui vado incontro, ogni fatica sarà degnamente ricompensata.

La salita a Le Buet 3099 m per il Vallon de Bérard è il percorso più esem­plare per il più grandioso panorama, sulla più grande montagna che le sorelle circondano a perdita d’occhio. È un albero che nasce da un piccolo seme, seppellito al fondo della Cascade de Bérard: seguendone le radici, lungo la via delle acque, lentamen­te si sale lungo il tronco fino alla vetta estrema. Un percorso che voglio compiere, un cammino parallelo a quello di Leonardo: dal particolare al tutto.

Cammino a testa bassa, voglio arrivare in cima presto, al­cune nuvole in alta quota mi fanno temere una cattiva visibilità. Esco a sinistra da un valloncello erboso, poi riobliquo a destra lungamente fino alla larga conca tra l’Aiguille de Sa­lenton e il Buet. Al colle il panorama è già ampio, ma non mi fermo. Il percorso continua su neve, così giungo al segnale metallico della vetta occidentale del Buet, pochi metri sotto alla vera vetta, distante trecento metri in linea d’aria.

Alle 7.30 sono in cima, ma subito ritorno alla cima occidentale, poco più bassa ma più adatta al genere di foto che voglio fare. Tira un vento freddissimo e forte, devo la­vorare con i guanti e lo spettacolo è proprio degno della sua fama.

Il panorama del Buet è giustamente celebrato ed è dovuto alla po­sizione arretrata ma non troppo che questa montagna tozza e impo­nente ha nei confronti della catena del Monte Bianco. Secondo John Ball, dopo il Rocciamelone e il Titlis, il Buet è la terza montagna perennemente innevata delle Alpi ad essere stata conquistata dall’uomo (i fratelli Deluc, di Ginevra, amici di Jean Jacques Rousseau, nel 1770).

Invece, la prima ascensione alla vetta lungo il Vallon de Bérarde spetta a Marc-Théodore Bourrit. Egli salì nel 1775 con l’intento di individuare una possibile via di salita al Monte Bianco. Riva­le di De Saussure nella gara per la grande conquista, il Bourrit è passato alla storia come alpinista mediocre e menzognero oltre che giornalista invidioso e polemico. Ma bisogna tuttavia ricono­scergli dei meriti: fu uno dei primi ad inte­ressarsi alla scalata al Monte Bianco e uno dei più appassionati pubblicizzatori del Faucigny e dei suoi ghiacciai che illustrò con scritti e disegni. Poco dopo arrivarono sul Buet i fratelli Deluc di Ginevra, che con un barometro compi­rono una prima accurata misurazione del Monte Bianco. I due erano amici di Rousseau, il cui recente “La Nuova Eloisa” stimolava schiere di turisti alla scoperta della montagna e del suo fascino. Fu poi la volta di De Saussure che, durante la salita, studiò la progressione in quota e le reazioni fisiologiche annesse. La scalata del Monte Bianco era per lui quasi un’ossessione; pur­troppo il primato gli fu tolto da Paccard e Balmat e a lui non restò che la gioia della terza salita, nel 1787. A sua parziale consolazione lo stesso Paccard ammise che le esperienze fatte da De Saussure su “fatica e rilassamento” gli furono utilissime durante la prima ascensione al Monte Bianco.

Dalla vetta del Buet, vista sulla valle di Chamonix e sull’intero gruppo del Monte Bianco

Dopo più di duecento anni, nella nostra odierna fatica di realizzare I grandi spazi delle Alpi tentiamo di esprimere la nostra filosofia dei panorami. Crediamo che il bello sia tale indipendentemente dalla sua grandiosità. La selezione che noi abbiamo operato non basa i suoi motivi sul nu­mero di vette che si possono osservare da un determinato punto raggiunto. Crediamo che la nozione di “grande spazio delle Alpi” abbia bisogno del suo comune significato di grandiosità ma nello stesso tempo debba recuperare il senso del rispetto che le grandi cime debbono poterci comunicare. È difficile quindi “sentire” la grandiosità quando essa è ai no­stri piedi, come succede quando ci siamo spinti davvero in alto. Le fotografie aeree sono asettica­mente prive di sudore e difficilmente riproponibili a chi si vuol far coinvolgere: è difficile rimanerne entusiasti dopo averne vi­ste parecchie. Gli orizzonti a 360 gradi, pur raggiunti con fati­ca, sono invece una forma di bel­lezza che, oltre ad essere stata decantata a sufficienza, non riesce a toccarci davvero nel pro­fondo. Infatti noi riteniamo che le montagne debbano ancora esse­re più alte di noi. A ognuno la sua via verso l’infinito: nella nostra, la fatica è una condizione necessaria ma non sufficiente e gli spazi non sono mai pro­fondi se non c’è stata almeno una ri­nuncia. L’uomo non può porsi sullo stesso piano o al di sopra.

Questo è il motivo per il quale nella nostra collana non si troveranno foto aeree e nep­pure la panoramica circolare a 360 gradi dalla vetta del Monte Bianco o da al­tre cime maggiori.

Naturalmente ogni norma ha i suoi emendamenti: ed ecco il Buet, che rappresenta il degno compromesso tra le due filosofie. È sufficientemente alto per avere un panorama circolare, ma nello stesso tempo è abbastanza basso per sembrare il centro di un im­menso imbuto dove tutto converge a spirale verso di lui. E per lui abbiamo fatto uno strappo alla regola.

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Il centro dell’imbuto ultima modifica: 2018-12-07T05:28:12+01:00 da GognaBlog

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