Montagna e lavoro
(apparso su In Movimento, ottobre-novembre 2018)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, in pochi anni, l’andar per monti divenne attività praticata da ampie fasce di popolazione. Soprattutto la Lombardia era in piena rivoluzione industriale. Il lavoro in fabbrica era durissimo, ma scandito da orari regolari e giorni dedicati al riposo: per la prima volta nella storia anche le classi popolari (ora operaie) disponevano di tempo libero da dedicare alle proprie nascenti passioni e le montagne attorno a Lecco, Milano, Trento o Torino erano la “destinazione turistica” più a portata di mano. I gitanti arrivavano a ondate dalle città: ferrovie e strade moderne avvicinavano le montagne e i gruppi sorgevano spontanei nelle varie sezioni del CAI. A Lecco, a cavallo tra ‘800 e ‘900, nacquero i club di matrice esclusivamente operaia. Per i lecchesi addetti all’industria la montagna era il passatempo domenicale. Accanto al CAI Lecco, dove la presidenza di Mario Cermenati contribuiva alla diffusione dell’amore per i monti, c’erano altre società: SEL (Società Escursionisti Lecchesi), APE (Associazione Proletari Escursionisti), SAOAS (Società Alpina Operaria Antonio Stoppani) e UOEI (Unione Operaia Escursionisti Italiani). Per tutte, nell’evidente differenza per ceto con il CAI, c’era comunque una finalità sociale, vedi i motti “Sempre più in alto per una nuova umanità” oppure “Per il monte, contro l’alcol”. Anche a Trento dalla SAT nacque la costola della SOSAT (Sezione Operaia Società Alpinisti Tridentini). Perché questo improvviso movimento?
Gita sociale. Foto di Silvio Saglio, Archivio CAI-SEM
Dopo la prima guerra mondiale era in atto una trasformazione epocale della società. Pur nel dilagante trionfalismo per la vittoria, facile terreno per l’ideologia fascista, i lutti e le rovine avevano distrutto non solo i lussi della belle epoque ma anche la fiducia nella religione come strumento di accettazione della sventura umana; la nascente emancipazione femminile costringeva la famiglia tradizionale a rivedersi in profondità (e a volte a crollare); l’indebolimento della figura del padre andava di pari passo con la voglia di un “padre” valido per tutti. In questo galoppare travolgente di nuova vita, scandito dalla regolarità del tempo libero, cresce l’esigenza di nuovi valori, di nuovi modi per apparire in una società per esserci. Una società che stava sostituendosi alla chiesa richiedeva una nuova religione, e la montagna, vissuta in gruppo come dei fedeli, si prestava bene all’uopo.
Ci si illudeva in questo modo di non sottomettersi più alla vincente società d’anteguerra. Ancora una volta le associazioni dispensavano il cittadino dall’avere l’ardimento di guardare a se stesso come a un nobile miscuglio di varie pulsioni, di coraggio e di codardia, altruismo ed egoismo, lealtà e tradimento, le cose cioè che fanno grande l’essere umano.
In queste contraddizioni non ci volle molto perché i vari gruppi, dall’associazionismo illuminato che ne vide la nascita per contrastare l’alcolismo e le misere condizioni di spirito in cui già versavano gli operai di una società industriale appena nata, arrivassero alle divergenti opinioni di chi vedeva un socialismo orientato al benessere della pace e alla lenta crescita spirituale e materiale e di chi si serviva invece dello stesso socialismo come scorciatoia per il raggiungimento di fini trionfalisti, in una società di individui che si annullavano nella bramosia di potere nazionalista. Dopotutto il mondo dell’alpinismo tradizionale, tolte alcune figure (val sempre la pena ricordare l’irriducibile alpinista socialista, già irredentista, Tita Piaz), era già da tempo permeato della retorica patriottica nata e sviluppatasi sulle montagne di confine, e, come visto per gli anni della prima guerra mondiale, era un campo privilegiato per il prolificare di discorsi di carattere nazionalista e reazionario. Il CAI fu costretto a ribattezzarsi “Centro Alpinistico Italiano” e le sezioni dell’UOEI, nel 1926, furono costrette a scegliere tra amore e potere, sapendo che se si sceglieva il primo o si soccombeva o ci si dava alla clandestinità. Anche nel secondo dopoguerra ci sarebbero state altre scelte da fare. CAI e UOEI si guadagnarono rapidamente la stima e la collaborazione non solo delle principali figure politiche del Socialismo Riformista, tra cui Leonida Bissolati, Adolfo Zerboglio e Angiolo Cabrini, ma anche delle istituzioni (Prefetture, Ministeri in particolar modo) e delle élite industriali e culturali.
Ciò permise loro di crescere, ma allo stesso tempo gli fece perdere progressivamente le loro vocazioni, quella conservatrice e quella operaia. I mesi che avevano preceduto l’entrata dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale a fianco di Francia e Inghilterra furono testimoni di una radicale trasformazione della percezione che i soci dell’Unione avevano delle Alpi. Queste, da luogo di pace e di fratellanza, diventarono rapidamente un lembo di Italia da difendere.
L’UOEI crebbe rapidamente su tutto il territorio nazionale, specialmente nelle regioni del Nord-ovest e nelle periferie delle principali città industriali tra cui Milano, Genova, Pavia, Alessandria, Lecco, Como, Faenza, Torino, Firenze e Livorno. Il suo sviluppo fu reso possibile dalla “voglia” di sport che attraversava tutta la classe operaia e dalla totale assenza in Italia di associazioni escursionistiche operaie.
A Monza, il 30 aprile 1946 nasceva in seno alla UOE il gruppo Pell e Oss
Nel secondo dopoguerra rinacque lo spirito iniziale dell’associazione operaia: i disastri della guerra civile, il profilarsi di un lungo conflitto con il “nemico” interno comunista, portarono ancora una volta tanti giovani a trovare sostegno e speranza nella montagna. Il trionfo nazionale al K2 non fece che attizzare vieppiù quest’esigenza.
Ma dopo il boom economico e dopo gli spensierati anni Ottanta, a femminismo pienamente o quasi realizzato e a figura del padre di sempre più basso profilo, altri cambiamenti si sono affacciati. Il lavoro è mutato radicalmente in questo passaggio di secolo, le macchine tendono a scalzare gli umani. Non è vero che i giovani preferiscano un mondo virtuale, perché di questo hanno già assaggiato le fascinose possibilità ma anche ne hanno già percepito l’insita noia, quella dell’orgia informatica e del fanatismo della comunicazione dei propri profili.
I giovani non sono oggi in pericolo per alcolismo, pornografia, droga e informatica, che parzialmente hanno già metabolizzato. La vera minaccia per loro è la devastazione portata prima da un consumismo materiale di oggetti ottenuti senza fatica, poi dal consumismo spirituale di una società senza intimi desideri, neppure quelli egoistici. Come se, nell’indifferenziazione dei ruoli paterni e materni, nell’appiattimento generale della programmazione TV, nell’insegnamento svilito e svuotato, e naturalmente nei divertimenti di massa compreso il turismo, si fosse perseguita una morbosa volontà di spersonalizzazione dell’individuo, tale da fargli perdere la capacità di condividere gioie e dolori di coloro che stanno vicino a noi come del resto del mondo, fino a inibirgli, in una sorta di stato pre-depressivo, anche la cognizione di come si possa vivere intensamente una gioia e un dolore individuali. La montagna può essere una buona medicina, ma non quella mediatizzata, bensì quella intima. CAI e UOEI godono buona salute quanto a numero di soci, però i giovani sono per lo più alla finestra, pronti ad abbracciare nuovi lavori, compresi quelli neo-rurali, e pronti a integrarsi in associazioni e organizzazioni che abbiano saputo rinnovarsi, in mancanza delle quali dovranno crearne loro stessi di nuove. Per poter avere un futuro.
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