Ecco la cronaca dell’avventura vissuta l’inverno 2018-2019 in Patagonia da Luca Schiera e Paolo Marazzi. Una bellissima esperienza dal sapore esplorativo, che li ha visti raggiungere una vetta ancora mai salita, nel cuore del Campo de Hielo Patagonico Norte, da loro battezzata col nome di Cerro Mangiafuoco.
Il Cerro Mangiafuoco
di Luca Schiera
(pubblicato su ragnilecco.com il 25 gennaio 2019)
Siamo partiti il 24 dicembre 2018 dall’Italia, il programma era di arrivare il 28 a Puerto Bertrand e farci accompagnare da un gaucho a cavallo per buona parte della valle. Come sempre le cose non sono andate secondo i piani…
Arrivati a Coyhaique dopo qualche giorno il gaucho ci ha detto che non ci sarebbe stato almeno fino al 2 gennaio. Abbiamo aspettato qualche giorno poi siamo andati all’ultimo abitato di Bertrand. Lì abbiamo scoperto che il ritardo si sarebbe prolungato ulteriormente. Unico problema: una delle rare finestre di bel tempo stava per arrivare entro pochi giorni. Troviamo però una barca per attraversare il lago e decidiamo di partire a piedi, ovviamente carichi come bestie.
Camminiamo dieci ore il primo giorno, il bel tempo ormai è già arrivato, raggiungiamo il primo ghiacciaio nel pomeriggio del secondo e perdiamo ore nel cercare di attraversarlo mentre i crepacci ci portano nella direzione opposta a quella che vorremmo seguire; alla sera riusciamo ad uscirne ma è troppo tardi per raggiungere lo Hielo Norte come pensavamo inizialmente.
L’indomani all’alba siamo di nuovo attivi, abbiamo ancora la speranza di scalare qualcosa, ma dopo un paio di ore ci dobbiamo fermare perché il vento si è già alzato troppo. Ripartiamo scarichi dal materiale da arrampicata e nel pomeriggio riusciamo a salire fino al campo de Hielo Norte. Siamo a 1600 m di quota, la giornata è bella, il posto è bellissimo ma il vento è infernale, decisamente un posto poco ospitale.
Breve filmato
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Camminiamo verso le pareti ma c’è troppo vento anche solo per usare il binocolo, comunque facciamo qualche foto e ci facciamo un’idea sulla tattica da utilizzare: scendiamo e bivacchiamo come la sera prima. Il giorno successivo torniamo nel bosco fino al materiale depositato dal gaucho il giorno precedente, montiamo la tenda e lì rimaniamo bloccati cinque giorni sotto la pioggia.
Abbiamo già fatto quasi un centinaio di km a piedi, siamo disidratati e abbiamo preso vento e sole forti. Come conseguenza abbiamo le labbra talmente gonfie che non riusciamo bene a chiudere la bocca e la pelle di tutta la faccia si secca e staccare la pelle morta diventa un bel passatempo per i giorni di pioggia…
Dopo il riposo forzato qualcosa cambia nelle previsioni che riceviamo sul satellitare e ci dà buone speranze: sta arrivando una finestra di un giorno e mezzo senza vento per il 14 gennaio. Ripartiamo abbastanza leggeri con l’obiettivo di salire lo spigolo est della montagna senza nome che vogliamo salire, l’unica linea che abbiamo intravisto nel poco tempo passato sul ghiacciaio.
Dormiamo sul posto da bivacco sul ghiacciaio Nef, all’alba però il vento è ancora forte, dobbiamo aspettare, anzi cade qualche fiocco di neve e siamo costretti a ripararci con dei sacchi di plastica. Ripartiamo in tarda mattinata e, dopo un’altra pausa causa del vento, saliamo verso il campo de Hielo. Arriviamo dopo il tramonto con le ultime luci, appena in tempo per vedere la linea e le condizioni della parete. Scaviamo una truna alla base e dormiamo lì dentro.
Nella notte il vento cala e alle 6 partiamo, la giornata si preannuncia perfetta, calda e senza vento. In breve raggiungiamo il colle dove parte lo spigolo. Scaliamo alternati su roccia e neve e in poche ore superiamo la prima parte della via. La parte in mezzo, che sembrava facile, è invece delicata per la difficoltà di trovare la via fra le torri e le creste di neve. I risalti di roccia più ripidi con scarponi e zaino diventano molto impegnativi, ma raggiungiamo il muro finale nel primo pomeriggio. Ci sono due fessure larghe in cui corre acqua e una terza meno larga e in parte asciutta, partiamo in scarpette dalla cengia e con un bel runout iniziale arriviamo sotto l’ultimo tiro. Alle due del pomeriggio siamo in cima.
Vediamo un orizzonte sconfinato di pareti, neve e ghiaccio. La giornata è perfetta, iniziamo le doppie e con una buona dose di fortuna tutto va bene e nessuna corda si incastra. Alle 18 siamo di nuovo alla truna, prendiamo la roba da bivacco e scendiamo verso il ghiacciaio. Arriviamo prima di mezzanotte e dormiamo finalmente tranquilli senza vento.
Breve filmato
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Alla mattina ripartiamo verso la valle Soler e il campo nel bosco, il tempo è ancora bello ma stanno già arrivando le prime raffiche si vento. Alla sera è già completamente nuvoloso e il vento è forte, di notte piove e il vento diventa davvero forte anche nel bosco ma siamo già nella casetta di legno all’inizio della valle. Alle 5 facciamo colazione un po’ preoccupati per il forte vento e le precipitazioni, dobbiamo scendere in canotto dal torrente, aspettare altro tempo potrebbe peggiorare la situazione.
Carichiamo velocemente sotto la pioggia i gommoni e partiamo, c’è un po’ di acqua bianca ma è comunque abbastanza facile: il problema è il vento che ci sposta. In mezzo a delle rapide prendo una raffica completamente al traverso e mi ribalto fra i sassi, riesco a girarmi abbastanza in fretta ma vedo la sacca stagna più importante galleggiare nel torrente. Paolino che è davanti incredibilmente riesce a prenderla al volo e ad aspettarmi a bordo fiume.
Ripartiamo e arriviamo al momento psicologicamente più duro di queste due settimane. Siamo fradici, c’è vento forte e piove, sbagliamo una diramazione del torrente e ci troviamo nell’acqua troppo bassa, dobbiamo camminare nel torrente e trascinare i canotti, passiamo una bella ora tremando prima di potere pagaiare di nuovo.
Da lì in poi tutto migliora, più a valle esce il sole, ci scaldiamo e c’è una buona corrente che in poche ore ci porta al lago Bertrand dove aspettiamo un passaggio in barca.
Visto che siamo usciti dalla valle prima del previsto, siamo scesi a Chaltén che dista 800 km a sud e ora siamo qui insieme con gli altri.
La montagna, secondo le nostre misure, dovrebbe essere alta poco meno di 2000 metri, l’abbiamo chiamata Cerro Mangiafuoco per restare in tema con le altre vicine, la via si chiama L’appel du vide, 6c, M4, 400 m dal colle alla cima.
Grazia, scusa ma mi viene da domandarti: davvero vorresti essere a scalare il Cerro Mangiafuoco?
Grazie per questo racconto che sa trasportarci, ancora una volta, là dove vorremmo essere.
Complimenti per la capacità dei protagonisti di creare avventura e per il nome “Mangiafuoco” dato alla montagna, che le restituisce la sua dimensione di divinità.
Questo è ciò che io chiamo alpinismo : abilità , fantasia, desiderio di esplorare, una percentuale di rischio accettabile, luoghi lontani di cui si hanno poche informazioni… l’avventura al suo meglio