In occasione dell’uscita di Blocca! (Edizioni Natura Avventura), la nuova guida delle falesie intorno Roma, di Luca Bucciarelli, Alvise Mario (guide alpine) e Alfredo Smargiassi (chiodatore e apritore di numerose vie e interi settori), siamo venuti a conoscenza della pregevole postfazione a firma di Jolly Lamberti.
Il dualismo sport/non-sport nella scalata
di Alessandro Jolly Lamberti
(già pubblicato su Climbook il 4 maggio 2015)
La scalata di falesia, come l’alpinismo, non è uno sport ma è anche uno sport. Per questo non ci sono giudici, non ci sono controllori e neppure sanzioni. Ognuno dovrebbe essere libero di esprimersi come meglio crede. Come in un piccolo mondo perfetto, le regole ci sono, certamente, ma sono regole di buon senso, autogenerate: il mondo della scalata è un microcosmo anarchico che si autoregola.
A chi piacerebbe un codice della strada adattato per la scalata? Divieto di saltare il rinvio. Dare la precedenza a chi sta provando la via per liberarla. Obbligo di usare il casco. Biglietto da pagare per andare in una falesia attrezzata. Giudice di falesia che deve vidimare la prestazione.
Tutto questo appare come un incubo, e la maggior parte di noi smetterebbe di praticare la libera arte della scalata, nella quale ognuno dovrebbe potersi esprimere come vuole.
L’anarchia, nondimeno, presenta vari problemi.
Nel nostro ambito, infatti, la maggior parte dei problemi etici scaturisce dal fatto che la scalata è sia sport che non-sport.
La scalata di falesia è un’arte, e quindi ci si può drogare (quanti, dei migliori artisti dell’ultimo secolo, non si sono drogati?).
E’ uno sport, e quindi può esistere un numero (il grado), che rappresenta il limite da battere.
Non è uno sport e quindi si può compiere una performance senza controllo, senza regole o giudici, con la moglie che fa sicura in una sperduta parete delle Alpi.
E’ uno sport, e dunque questa prestazione può essere riconosciuta e può portare sotto i riflettori dei media o anche solo delle piccole tribù locali.
Non è uno sport, e dunque via alla creatività, alla libertà, alla competizione “solo con noi stessi”.
E’ uno sport, e dunque vorremmo che in questa competizione tutti rispettassero le stesse regole, e non si toccassero quando fanno la parata, non lasciassero il secondo spit già moschettonato, non si facessero tirare un poco nelle sbandierate, non allungassero la catena per poi abbrancarla con la mano, non usassero il vigliaccone (si chiama anche furbo, NdR) per montare vie che non sono alla loro portata. Non usassero eccessive ginocchiere in neoprene.
Quando il fortissimo Alexander Megos fece il primo 9a a vista del mondo, su youtube esistevano vari video che mostravano proprio quella salita. Se la scalata fosse stata uno sport, quella salita non sarebbe stata omologata: l’unica scalata a vista possibile dovrebbe essere (se fosse uno sport) quella con atleti in isolamento e itinerari nuovi spittati per quella occasione.
Jolly Lamberti su La Rose et Le Vampire, Buoux (1988)
Il problema è che per anni abbiamo preteso le cose buone del non-sport (libertà, creatività) e quelle buone dello sport (riconoscimento e gloria per i campioni, grado come numero quantificabile e misurabile, appagante e portatore di status anche per i dilettanti) senza voler pagare nulla del conto salato che paga chi fa il vero sport: giudici, regole, controlli, freddezza della misurazione, modelli statistici-matematici per determinare il grado, invalidamento delle prestazioni fatte in allenamento, invalidamento delle prestazioni su vie auto-tracciate e scavate, e molto altro ancora.
Un eccesso di “sport” avrebbe raffreddato con tonnellate di acqua gelata tutto il romanticismo della nostra nobile arte.
Parliamoci chiaro: per anni abbiamo voluto e vogliamo la botte piena e la moglie ubriaca.
Questo dualismo sport/non-sport ha favorito l’insorgere di fissazioni e nevrosi. Sfruttando l’assenza di controlli del “non-sport”, si sono potute avvicinare a questa disciplina molte personalità che, in un altro contesto e con regole predefinite, sarebbero state rifiutate. Il grado, che è posto al di sopra di tutto, può essere raggiunto in qualunque modo e con qualunque mezzo. Il percorso verso la prestazione può essere completamente autogestito: alimentazione, rituali, tracciatura, orari, modalità, luogo, numero di tentativi, compagno. Tutto può essere architettato e adattato in funzione delle nostre insicurezze e debolezze. E questo favorisce un approccio compulsivo, se non malato, alla disciplina. Pensate solo a quanto può essere portatrice di fissazioni quella piccola ma importantissima libertà che ci prendiamo (considerando che non è uno sport) quando siamo noi a decidere quale sia il momento adatto di partire per una prestazione. Il corridore, avrà anche lui un po’ di rituali, ma deve scattare al momento preciso del “bang”. Noi possiamo friggere nell’ansia, addossarci scuse di ogni tipo, aspettare che non faccia troppo caldo né troppo freddo, oppure chiuderci in una falesia conosciuta e rassicurante e aspettare che la prestazione venga lì, da sola, il giorno in cui tutte le condizioni ottimali coincideranno.
Pensate a quante personalità borderline può catalizzare questa forma ibrida di sport/non-sport. Se la scalata restasse nell’ambito della “filosofia” e romanticismo, come lo yoga o la danza ayurvedica, non credo che sarebbe così nevrotizzante o catalizzatrice di nevrotici. E neppure se fosse soltanto uno sport. Il problema è che noi vogliamo che sia anche uno sport.
Fingiamo che sia per noi stessi, ma vogliamo che gli altri sappiano della nostra piccola, insignificante prestazione. Rifiutiamo altezzosi il “bang” di partenza, i controlli antidoping e anti-anoressia, un giudice che ci stressa in falesia, ma pretendiamo anche un qualche tipo di medaglia all’arrivo.
Se la scalata fosse solo uno sport, la maggior parte delle prestazioni su roccia dovrebbe essere invalidata, anche solo per il fatto che sono state, tutte, salite in allenamento e senza controlli né giudici, in condizioni che noi stessi, e non la gara o il giudice, abbiamo scelto.
Se la scalata fosse stata solo uno sport, non sarebbe stata il mio sport.
Jolly Lamberti in bivacco sul Capitan, Yosemite Valley (2010)
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Analisi puntuale ed impietosa ma terribilmente reale delle varie problematiche che percorrono trasversalmente le discipline arrampicatorie e non solo: partendo dall’anoressia e arrivando al doping attraverso le varie manie ben descritte da un lucidissimo Jolly …
E’ evidente, e dico anche per fortuna, che la pratica e la teoria dell’arrampicata sono molto più creative e variegate dell’applicazione su scala meramente sportiva, con gare e giudici, dico questo senza disdegnare assolutamente il mondo delle competizioni che hanno certamente un grosso valore educativo chiaro a tutti e sul quale non mi dilungo in questa sede.
Credo che l’avvento delle gare sia stata per molti un’occasione perduta di smantellare definitamente questo dualismo e di veicolare comportamenti maniacali in luoghi dove le sport di prestazione non dovrebbe comparire più di tanto e che sono dettati unicamente da una deteriore idolatria del grado, verso il mondo delle competizioni dove tanti giovani cercano e trovano, nel luogo giusto e con un altissimo livello, un riconoscimento pubblico e personale.
Per tutti gli altri, finalmente a dualismo risolto, ma come ho detto sarebbe stato possibile già dal 1985 in poi, c’è la possibilità di vivere l’arrampicata in modo più ludico, che non vuol dire senza impegno e senza cercare un’auto realizzazione, ma senza inseguire all’esterno una presunta performance che dovrebbe essere vissuta in modo meno teso e più rilassato(le gare sono comunque altrove…); arrampicare magari anche alla ricerca di modi più disparati di muoversi (barefoot, free solo, ricerca di nuovi itinerari, storica o esistenziale o godendosi semplicemente le endorfine prodotte facendo ciò che amiamo) senza necessariamente attingere sempre al fardello delle regole dello sport climbing ma in un modo e in un mondo dove dovrebbero esistere solo “problems” che aspettano di essere risolti e tanti sistemi individuali per risolverli.
Basta poi trovarsi qualche volta a fare blocchi all’aperto con le giovani generazioni di garisti per capire come sono certo impegnati e attenti a fare bene ma anche rilassati e poco competitivi con gli altri all’esterno avendo di fatto ormai risolto l’annoso dualismo e vedere invece come si trasformano in gara per capire che è solo nei palazzetti che si manifesta, e ormai credo non ci siano dubbi, lo “sport “ arrampicata.
LESLIE STEPHEN, PIONIERE INGLESE ASSIDUO FREQUENTATORE DELLE NOSTRE DOLOMITI, SOCIO EMERITO DELL’ALPINE CLUB, GIA’ NEL 1875 AVEVA ESPRESSO QUESTA OPINIONE: DATO CHE SI E’ PASSATI DALLA CONQUISTA DELLE CIME ALLA COMPETIZIONE SULLE LORO PARETI PIU’ DIFFICILI, L’ALPINISMO E’ CHIARAMENTE DIVENTATO UNA COMPETIZIONE CON FORTE COMPONENTE SPORTIVA. RIBADISCO 1875. LA LIMPIDA E PRAGMATICA VISIONE INGLESE DELLE COSE ANCORA OGGI NON CI APPARTIENE E QUESTO CI RALLENTA NELL’EVOLUZIONE. NOI 140 ANNI DOPO NELL’ERA DEGLI SPONSOR, ANCORA RIFLETTIAMO SUL CONCETTO GENERALISTA DELL’ALPINISMO: SPORT O NON SPORT. PER ME CHE NON SONO UN ATLETA, CHE LAVORO 5 GIORNI SU 7 E VADO IN MONTAGNA NEL TEMPO LIBERO NEI GIORNI PRESTABILITI NEL PIANO FERIE, L’ALPINISMO PUO’ ANCORA ESSERE ROMANTICO, E LO E’. PER LE GUIDE E PER CHI HA GIACCHE CHE ORMAI NON BASTANO PIU’ A CONTENERE I SIMBOLI DEGLI SPONSOR E CORRONO PERFETTAMENTE PREPARATI SU E GIU’ DALLE CIME, COME MINIMO E’ UNO SPORT, E LO SPORT PER IL PROFESSIONISTA E’ ADDIRITTURA UN LAVORO. NEL LORO TEMPO LIBERO SI RIPOSANO. QUINDI OGNUNO GUARDI IL SUO ALPINISMO, NON L’ALPINISMO, E VALUTI QUANTO PER SE SIA SPORT, NON SPORT O LAVORO. RINGRAZIO E SALUTO.
Condivido! Grande Jolly 🙂
Mi identifico e condivido il pensiero… Ciao
Condivido ,in tutto e per tutto
Bellissimo e molto lucido.