Il (probabile) primo articolo di Walter Bonatti fu pubblicato su Giovane Montagna nell’aprile 1950 ed è il racconto della sua ascensione dello Sperone Walker delle Grandes Jorasses. Questo ampio testo, che costituisce una delle prime prove letterarie di Bonatti, non pare sia mai stato riproposto.
Sulla parete nord delle Grandes Jorasses
di Walter Bonatti
(tratto dalla rivista Giovane Montagna, aprile 1950 grazie a itineraalpina.it, 3 novembre 2020)
Walter Bonatti, uno dei migliori componenti delle cordate monzesi che nella scorsa estate hanno compiuto così numerose ed importanti imprese su tutta la cerchia alpina, ci racconta l’ascensione delle parete nord delle Grandes Jorasses per la via Cassin dello spigolo della Punta Walker; come è noto, tale salite fu la 1a ripetizione italiana della vie e la 6a ascensione assoluta (NdR della redazione di Giovane Montagna).
Era da poco iniziata la primavera 1949 ed io avevo ripreso a sfogare domenicalmente la mia passione sulle guglie della familiare Grignetta: così, già in inizio di stagione avevo percorso buona parte dei suoi più interessanti itinerari, avendo a compagno l’amico Andrea Oggioni, già più esperto di me e col quale, visti i buoni risultati, s’eran progettate alcune conquiste dolomitiche. Ed ecco, in maggio, la famosa guida francese Gaston Rébuffat venne a tenere una conferenza a Monza ed a rivoluzionare i nostri vecchi progetti: destò clamore in tutto il pubblico quella magnifica conferenza sulle sue ascensioni, seguendo le orme del nostro Riccardo Cassin, alle pareti nord del Badile e delle Grandes Jorasses. Quando poi egli, proiettando la diapositiva d’una immane parete, pronunciò il nome dello sperone nord della Punta Walker alle Grandes Jorasses, non potei trattenere un gesto di stupore: l’affascinante parete della quale sino ad allora avevo solo sentito pronunciare con grande rispetto il nome, mi apparve per la prima volta nelle sue vere forme ed in tutta la sua imponenza.
Ricordo chiaramente che a quella vista mi percorse da capo a piedi un brivido di freddo misto a vertigine. Fu un attimo, perché subito dopo il sangue cominciò a ribollirmi nelle vene; analizzai una tale reazione: compresi che un istinto incontrollabile e spontaneo m’aveva fatto pensare di osare. Dimentico
così della mia insufficiente esperienza alpinistica, mi lasciai trasportare dalla fantasia, ma ben presto cercai di convincermi della assurdità, almeno per il momento, di poter realizzare così grande sogno.
Fu qualche mese dopo, di ritorno da un’ascensione nel Gruppo di Brenta (Croz dell’Altissimo, parete sud-ovest, via Oppio, 2a asc. assoluta, NdR), che invitato da amici a passare le vacanze estive ai piedi del Monte Bianco, ripensai al meraviglioso progetto.
Ma se era vero che avevo dimostrato una sufficiente preparazione tecnica e fisica alle grandi ascensioni, era altrettanto vero che sino ad allora di granito in montagna non ne avevo mai visto e che le mie arrampicate non avevano mai superato la quota 2500 m; come me, anche Camillo Barzaghi, che sarebbe stato il mio compagno di cordata.
Pensavamo però che come avevamo superato le altre difficoltà, con un buon allenamento e molta volontà avremmo benissimo vinto anche queste nuove. Così decidemmo. Nel poco tempo che ci rimase, salimmo il Badile per la parete nord-ovest (via Bramani-Castiglioni, 3a ascensione assoluta, NdR) e questo primo contatto col granito ci entusiasmò come mai avremmo creduto.
Io ebbi inoltre la fortunata combinazione di percorrere la classica Cresta des Hirondelles, sulle stesse Grandes Jorasses, ascensione che mi fece conoscere in precedenza sia le candide bellezze della sua vetta, sia, e con grande utilità, la complicata discesa per la via normale: la prova generale era così fatta, il frutto era maturo e non ci restava che coglierlo.
A mezzogiorno del 5 agosto 1949 giungo a Courmayeur, con Barzaghi ed alcuni amici tra i quali la gentile signora Brovedani che con costante passione ci accompagna all’approccio, facendosi in quattro perché non ci manchi mai nulla. Mentre Barzaghi completa le provviste, io mi reco dal caro Toni Gobbi per chiedergli in prestito un sacco da bivacco ed egli mi cede il proprio. Qualche ora dopo salutiamo gli amici che attenderanno il nostro ritorno accampati in Val Veni, ed eccoci sulla funivia in pochi minuti al rif. Torino.
Sono le 16 quando arriviamo al Colle del Gigante: qui, mentre ci leghiamo, abbiamo modo di rimirare la prima serie dei meravigliosi panorami che sino ad allora avevamo conosciuto solo in fotografia. Impazienti di altre novità, scendiamo velocemente tra i crepacci e i seracchi del ghiacciaio del Gigante alla volta del rifugio del Requin, ove pernottiamo.
Il primo sole del 6 agosto ci trova intenti a varcare la grande soglia del bacino di Leschaux in fondo al quale, là, di dove scaturisce la formidabile parete nord delle Jorasses, giace incustodita l’ospitale capanna che prende nome dal ghiacciaio stesso. Sarà questa la nostra ultima tappa prima di iniziare l’impresa.
Ma ahimè, prima ancora di arrivarci incominciano i guai: le Jorasses si sono accorte delle nostre intenzioni e senza perder tempo iniziano la loto salda difesa. Mentre giungiamo ad una svolta, di dove si incominciano a vedere le
loro forme, un potente scivolone mi fa cadere malamente sul ghiaccio: mi rialzo con una profonda scalfittura al dorso della mano destra. Medicata la ferita riprendiamo il cammino, ma un’altra cattiva sorpresa ci attende: dei nuvoloni burrascosi hanno ricoperto in pochi minuti la parte superiore della montagna e si dilatano ora sempre più minacciosi in direzione nostra. Tutto il cielo è coperto e alcune fredde ventate spazzano il ghiacciaio e irrigidiscono la temperatura. Le prime gocce cominciano a cadere ma ormai la capanna è vicina e ci evita un gelido bagno offrendoci in cambio la sua quiete e le sue invitanti cuccette.
Il mattino seguente, contrariamente alle nostre previsioni, un bel sole ritorna a rallegrare i nostri pessimi umori e possiamo così ammirare, nelle sue forme reali, la sospirata parete nord.
Non so come descrivere il fascino dello sperone della Punta Walker, che è il re della vastissima parete: esso nasce nel punto più profondo del ghiacciaio e con una poderosa impennata di 1200 metri si scaglia repulsivo nel cielo, fino a quota 4.208 m. Ed oggi esso e ancor più severo, imbiancato com’è, nella sua parte superiore, dalla recente nevicata. Mai nessuna montagna e apparsa ai miei occhi così maestosamente.
Non posso far a meno di rivolgere un pensiero d’ammirazione e d’elogio al formidabile Riccardo Cassin che per primo svelò il mistero delle sue placche corazzate di ghiaccio, aprendo così la via a chi altro volesse conoscerle. Scattate alcune fotografie, decidiamo di fare una ricognizione; salutiamo la signora Brovedani che ci attenderà in capanna e partiamo portando con noi gli zaini al completo. Dopo un lungo vagabondaggio fra i seracchi, in cerca dell’attacco, l’orma di alcuni gradini ci indica la via giusta. Caliamo allora in una crepa tutto il materiale e torniamo; non siamo però troppo soddisfatti dell’esame, poiché la parete è inzuppata d’acqua per il disciogliersi della neve recente.
Al rifugio troviamo i marsigliesi Robert Gabriel e Georges Livanos, reduci dalla prima ripetizione della via Cassin sulla parete nord-est dell’Aiguille de Leschaux, i quali ci informano di un tentativo fatto da una cordata loro connazionale che ci ha preceduti di qualche giorno all’attacco dello sperone.
L’alba dell’8 agosto ci coglie nuovamente sul ghiacciaio, intenti a rintracciare i nostri sacchi che si son resi irreperibili; finalmente li troviamo e ci affrettiamo per recuperare il tempo perso. Passiamo sotto il canalone centrale che divide lo sperone della Walker da quello della Punta Croz, e raggiungiamo l’attacco ove con disgustosa sorpresa constatiamo che il ciclopico seracco su cui ieri avevamo progredito in cerca d’un passaggio, è interamente crollato lasciando al suo posto una congerie di blocchi verdazzurri.
Sono le 7.30, l’ora è scoccata: anche il tempo pare si sia messo al bello stabile. Mi lego al centro della corda di 60 metri, lasciando i due capi a Barzaghi e mi accingo a superare il breve pendio di ghiaccio che mi porterà allo zoccolo della parete; il pendio richiede molta attenzione poiché è ricoperto di un sottile infido strato di neve molliccia.
Riuniti di nuovo su di uno spuntone, ci togliamo i ramponi ed io riparto subito in linea quasi verticale, seguito da Barzaghi. Raggiunto il nevaio superiore, lo costeggio a sinistra, pervenendo alla base del gran diedro che è il primo vero boccone duro della salita; fin qui infatti le difficoltà non sono rilevanti poiché l’arrampicata si svolge su placche mosse ed abbastanza inclinate, spesso però imbrattate di ghiaccio. Nostra principale preoccupazione è quella di superare nel minor tempo possibile il campo soggetto ai proiettili che, provenienti dalle regioni superiori, rovinano frequenti attorno a noi riempiendo l’aria di sibili paurosi: essere colpito da uno di essi significherebbe una certa fine, là sul ghiacciaio sotto di noi.
Studio preoccupato il diedro strapiombante che s’è trasformato in una doccia gelata e scorgo a pochi metri un chiodo arrugginito che suppongo di Cassin e che spero mi faciliterà il passaggio. Intanto le tracce della cordata francese sono sparite: probabilmente fu questo il punto massimo da essa toccato.
Sono le nove quando raggiungo il chiodo: più su ne pianto un altro, poi un altro ancora, infine non li conto più perché il passaggio è realmente duro e richiede uno sforzo elevato. Giunto al primo posto di fermata, mi accingo a recuperare i sacchi col cordino. Esso è rigido per l’acqua assorbita e fa un grande attrito, perciò fatico moltissimo. Quando Barzaghi mi raggiunge, decidiamo di riprendere ciascuno il proprio sacco.
Ed è col mio sulle spalle che, fradicio d’acqua come un pulcino annegato, riprendo a salire. Ma la faticosa manovra di chiodatura, raddoppiata dal peso delle corde che ormai non scorrono più liberamente nei moschettoni, mi obbliga ad uno sforzo impossibile: sono ben presto costretto a cedere il mio carico al compagno che, con due sacchi in spalla, è sottoposto ad una fatica terribile.
Ho ora innanzi a me la strapiombante fessura che costituisce la chiave del tratto; so che la si vince di striscio, facendo pressione col braccio e la gamba destra sui suoi labbri arrotondati, senza poter piantare un chiodo e con la continua impressione di guizzare nel vuoto. Esito un istante ma al pensiero che al di sopra la parete si inclina, mi decido a partire.
Invito Camillo a darmi corda e lascio l’ultimo chiodo di assicurazione; m’innalzo con difficoltà estrema per circa sei metri, sino ad un punto più liscio degli altri, e qui succede ciò che prevedevo e che mi rendeva indeciso: il forte attrito delle corde mi strappa maledettamente dalla presa resa precaria dai vestiti inzuppati d’acqua e che scivolano sui già slittanti labbri della fessura; ne consegue ch’essi non aiutano la pressione ch’io faccio con tutto il corpo, cosicché sento che andrò a finire inesorabilmente nel vuoto. Passo alcuni istanti in quella snervante situazione e quando i primi sintomi di esaurimento mi invadono, cerco di tornare indietro per riposarmi ma ormai troppi metri mi separano dalla salvezza. In quelle condizioni una caduta sarebbe stata inevitabile e con tutta probabilità la corda non avrebbe resistito allo strappo di dodici metri. A simili riflessioni mi sento perduto: con uno sguardo misuro il sottostante baratro che si spalanca orridamente alla sicura preda: allibisco. Sento che la presa lentamente mi sfugge, non ne posso più. Chiudo allora gli occhi aspettando la fine, ma l’idea di dover abbandonare questa pellaccia, che in fondo mi è cara, mi fa reagire. Scatto e mi dibatto contorcendomi nell’infernale fessura, tutto per un sol fine: vivere.
Il volto incollato sulla roccia si oppone alla pressione della mano destra le cui dita mordono il granito come volessero penetrarvi ed in quello sforzo supremo di spirito e corpo vinco palmo a palmo il grave passo che poteva essermi fatale.
Ho guadagnato un miracoloso chiodo di Cassin e ora, con una traversata di 4 metri a destra, raggiungo il posto di fermata. Assicurata la corda, mi abbandono ad essa scoppiando in un pianto dirotto. Sono in preda ad una forte crisi di emozione resa ancor più profonda dal prolungato sforzo sovrumano. In verità esso è stato il più grande ch’io abbia dovuto fare sino ad ora; non tanto per la pura difficoltà tecnica della fessura quanto per le condizioni in cui l’ho dovuta superare.
Non appena mi sono un po’ rimesso, invito il compagno a salire : egli s’innalza per alcuni metri, ma un improvviso strappo alla corda mi avverte ch’egli, ormai esausto, è stato trascinato nel vuoto dal peso dei sacchi. Faccio del mio meglio per reggerlo, mentre lui con un pendolo, riesce a riafferrare la fessura e ad incastrarvisi nuovamente. Lo calo alla base perché si riposi e mi spedisca su i sacchi; ma lui, ammirevolmente testardo, non cede e ritenta allo stesso modo. Ben presto però è costretto ad un nuovo volo ed è allora che mi confessa umilmente la sua stanchezza, proponendomi di abbandonare l’impresa.
Esorto il compagno a ritentare, lo consiglio, gli faccio promesse; invano, non è più in grado di proseguire.
Esamino la situazione con maggior calma e penso che se anche il buon Barzaghi mi avesse seguito per tutto il giorno, la già troppa stanchezza e le condizioni non certo buone della montagna ci avrebbero certamente costretti, l’indomani, ad una ritirata nella quale i guai sarebbero stati centuplicati. Mi dò per vinto e calato nuovamente Barzaghi, gli grido di slegarsi.
Sono le 15.30: un ultimo sguardo alle placche sovrastanti che non riuscirò forse mai a toccare e mi calo a corda doppia lungo la maledetta fessura, rivivendo le emozioni di un’ora fa.
Povero Camillo! Chi altro non avrebbe rinunciato in simili condizioni? Una smorfia di pianto gli incide le labbra secche. Oltre alla forte perdita di energie, gli spallini dei due zaini, resi rigidi dall’acqua, gli hanno segnato due larghe piaghe sulle spalle. Il suo sguardo semispento pare chiedermi perdono della colpa che non ha: ha fatto più del possibile.
Mi sforzo di soccorrerlo e di aiutarlo, ma l’estrema umidità e la mancanza di spazio non mi permetteranno di liberarlo dal pesante fardello sino alla base del diedro, che raggiungiamo con miracolose discese a corda doppia, sempre col timore di rimanere senza corda perché la sua rigidezza ne ostacolava seriamente il ricupero. A questo punto ci riposiamo un po’ e, ricordandoci di avere uno stomaco, cerchiamo di usarlo.
E finalmente raggiungiamo il ghiacciaio. Un boato ci scuote facendoci volgere alla parete illuminata dall’ultimo sole: una cannonata di grosso calibro sta rovinando rombante nel canalone centrale. E’ l’urlo vittorioso del gigante che ha avuto partita vinta.
Ad un tratto Barzaghi cade malamente; quando si rialza un forte dolore alla caviglia destra gli fa comprendere d’aver preso una solenne slogatura. Lo soccorro come posso e raggiungiamo con gran fatica la capanna ove ci attendono, con la signora Brovedani, due altri amici venuti a prelevarla per il ritorno a Courmayeur.
I viveri sono quasi esauriti e due giorni dopo, non appena il piede di Barzaghi, pur dolorante, può essere usato, decidiamo il rientro.
Dò un ultimo e sconsolato addio alla mia parete cui sicuramente, almeno per quest’anno, dovrò rinunciare poiché son rimasto senza compagno.
Ma m’ero sbagliato! Bastava le avessi detto “a presto rivederci”.
La sera del 10 agosto raggiungiamo l’ospitale tenda degli amici, in Val Veny. Essi m’informano della presenza di Oggioni e di Emilio Villa, venuti anch’essi in questo meraviglioso gruppo del Monte Bianco per cimentarsi sulla via Ratti-Vitali della parete ovest dell’Aiguille Noire de Peutérey.

Il mattino seguente ho anche modo di incontrarli; mi raccontano che da due giorni cercavano inutilmente l’approccio alla grande parete e che pareva che finalmente fossero riusciti a scovarlo, pur prevedendolo molto pericoloso. Ora si sarebbero riforniti di viveri e quella sera stessa avrebbero raggiunto nuovamente il piccolo rifugio Gamba.
Venuti a conoscenza delle mie sventure, cercano di consolarmi e mi invitano ad unirmi a loro nell’ardua impresa; accetto con molto piacere ed entusiasmo, tanto più che essi mi promettono che, al ritorno, sostituirebbero Barzaghi partecipando alla mia rivincita con lo sperone della Walker.
Di questo sono profondamente contento e li ringrazio tanto, ma pur avendo il più gran desiderio di tornare lassù, non so decidermi a parlarne con Barzaghi col quale sarebbe mio dovere ritentare. Questi, poveretto, è però immobilizzato dalla slogatura al piede e, prima ancora che mi decida ad entrare in argomento, indovina i miei sentimenti e con fraterna bontà e comprensione è lui stesso ad incitarmi a ritentare, augurandomi la più completa vittoria. Gliene fui e gliene sono profondamente grato.
Intanto la partenza per la Noire deve essere rimandata poiché il tempo si è messo al brutto, cosicché è solo nel pomeriggio del 12 agosto che saliamo al rifugio Gamba e di qui, il mattino seguente, all’attacco della parete ovest.
La sera del 15 riposiamo nuovamente sotto la solita tenda ospitale dopo aver superato brillantemente la grande prova (Aiguille Noire de Peutérey, parete ovest, via Ratti-Vitali, 3a ascensione assoluta, NdR).
Questa volta è in nostra compagnia anche l’amico Bianchi che, avvisato telegraficamente tre giorni fa, è giunto ieri sera per unirsi a noi nel nuovo assalto alla parete nord delle Jorasses. Formeremo infatti due cordate: io con Oggioni, Villa con Bianchi.
Il giorno dopo salutiamo definitivamente gli ospitali amici (ed io in particolare lascio con rimpianto la buona signora Brovedani e il caro e sfortunato Barzaghi) e raggiungiamo in serata la capanna Leschaux. Dopo esserci ben rifocillati e riposati ripartiamo all’alba seguente, 17 agosto, verso l’attacco del desiderato sperone della Walker, seguiti dai calorosi auguri dei soli tre alpinisti francesi coi quali abbiamo pernottato.
Il tempo da varie ore è minaccioso e la parete, oltre la sua metà, è inghiottita da una nuvolaglia nera poco rassicurante. Ciò è tutt’altro che confortante per noi, poiché i viveri non ci permetterebbero di attendere un altro giorno e tanto meno il portafoglio di tornare una terza volta.
D’altro canto troviamo la roccia in buone condizioni e, affidandoci un po’ anche alla buona fortuna, alle 8.30 circa attacchiamo decisamente il già noto scivolo iniziale che, a differenza dell’altra volta, è lucido di ghiaccio vivo.
Per semplificare le cose, avanzeremo col seguente sistema: io pianterò i chiodi dai quali Oggioni staccherà solo i moschettoni; all’ultimo della seconda cordata spetterà il compito di recuperare i chiodi che mi verranno nuovamente recapitati dai compagni. Ognuno di noi ha inoltre il suo sacco più o meno pesante, a seconda delle funzioni che svolge nella cordata.
Con questo spiccio sistema, poche ore dopo siamo alla base della famosa fessura del tratto finale del gran diedro, di dove tornai la volta scorsa. Questa volta, nonostante l’impiccio dello zaino, la supero felicemente.
Il cielo è sempre coperto e poco promettenti nuvolacce nere giostrano sui nostri capi. Succeda quel che vuole, ma stavolta sono deciso a combattere sino all’ultimo!
Riprendo così a salire diritto per diversi metri su placche leggermente inclinate ma molto levigate, indi obliquo a sinistra e supero con difficoltà il largo semicerchio che è al centro dello spigolo. Appena Oggioni mi raggiunge piego a destra e contorno su rocce mosse un ripido pendio di ghiaccio vivo.
Ora saliamo diritti per un’altra lunghezza di corda, indi superiamo, sulla destra e per mezzo di sassi affioranti, un secondo pendio ghiacciato.
Qui la roccia si fa più compatta e dopo altre due tirate di corda ancora lievemente sulla destra, aggiriamo uno spigolo pervenendo alla base del secondo gran diedro, nel punto ove bivaccò Cassin per la prima volta.
Qui ci fermiamo per un breve spuntino. Mi rallegro coi compagni delle ottime condizioni in cui abbiamo trovato questo ultimo tratto; per Cassin invece esso dovette essere tutt’altro che comodo, dato l’abbondante ghiaccio che vi trovò. Calcoliamo che dalla fine del primo diedro all’inizio di quest’ultimo, abbiamo percorso sette lunghezze di corda, la prima oltremodo difficile, le altre sei su roccia infida, ma con difficoltà normali.

Verso le 14 riparto nuovamente e seguito dai compagni supero senza una storia particolare il quasi estremo, lunghissimo diedro. Anche alla fine di
esso ho un altro grande vantaggio su Cassin, perché le condizioni della roccia sono ottime. E penso alla sua fatica di gradinare costantemente per due intere tirate di corda e a quella sua ferita all’occhio destro provocata da un falso movimento del suo martello da ghiaccio.
Usciamo dal diedro verso la sinistra e per facili ma infide rocce contorniamo qualche chiazza di ghiaccio vivo raggiungendo verso destra un ripido colatoio ghiacciato. Lo risalgo per dieci metri, come dalla relazione dei primi salitori, quindi, non trovando la fessura sulla parete di destra, la fessura che dovrebbe indicarmi il giusto passaggio, tiro avanti ancora diritto per altri dieci metri: di fessure, però, neppure l’ombra! Venti metri sopra di me un enorme tetto preclude ogni possibilità d’avanzata; alla sinistra si potrebbe invece passare, ma si capisce che un centinaio di metri sopra andremo a finire nella zona degli strapiombi.
Confronto di nuovo la relazione, sperando di aver sbagliato a leggere: ma non ci si scappa, c’è proprio scritto “fessura” e, per di più, di “15 metri”.
Torno a scendere lungo il colatoio invano, tutto è liscio; c’è solo una stretta cornice spezzettata e sporca di ghiaccio; forse potrebbe costituire un passaggio, ma estremo e, a parer mio, senza alcun riferimento logico. D’altro canto potrei ben esplorarlo, ma io, testardo, ho letto “fessura” e voglio passare per una fessura. Ritorno così ad alzarmi al punto di prima ed invito i compagni a raggiungermi sperando anche che il loro esame della parete abbia a portare maggiori lumi.
Siamo ora tutti e quattro sopra il colatoio, appiccicati come lucertole su pochi e sparsi appigli, e tutti con le stesse impressioni. Mentre discutiamo sul da farsi, il tempo passa inesorabilmente e noi non riusciamo a venir a capo di quella complicata matassa: dobbiamo ad ogni costo trovare una via d’uscita se non vogliamo pernottare su queste ben poco invitanti placche.

Mi viene un’idea e col consiglio dei compagni vengo ad una determinazione: cercherò di aggirare il tetto sulla sinistra, sperando poi di riuscire a ricongiungermi colla via giusta per mezzo di una certamente difficilissima traversata verso destra al di sopra del tetto; di lì l’itinerario originale non dovrebbe essere molto lontano.
Avrei così il vantaggio, almeno lo spero, di evitare la zona critica dell’itinerario che segue l’introvabile fessura: e una zona che comprende una noiosa serie di salite, calate, traversi e pendoli, quasi tutti al limite del possibile.
Con una delicatissima traversata a sinistra raggiungo un ben marcato colatoio e, fatto venire Oggioni, lo percorro con crescenti difficoltà sino all’altezza del tetto: qui il colatoio si apre in un susseguirsi verticale di placche grigiastre così levigate e compatte che sarei certo tornato subito indietro se non avessi scorto, un po’ di metri a destra, appena sopra il grande salto, due provvidenziali gradini. Pensai subito che avrebbero potuto servirci per il bivacco e mi impegnai nuovamente, raggiungendoli. Sono, veramente, un po’ piccoli e non so come faremo a starci in quattro; vuol dire che resteremo in piedi. Ciononostante saranno per noi come un’oasi nel deserto.
Le nostre menti sono piene di gravi preoccupazioni. Il tempo minaccioso, che per tutto il giorno ha accumulato una triste nuvolaglia nel cielo sopra di noi, non accenna a migliorare e il timore della sua insidia è continuamente latente nei nostri pensieri. E domani? E’ una girandola continua di domande senza risposta: riusciremo a superare le placche che ci circondano? Al di là, ritroveremo la via giusta? e se dovesse nevicare?
Alla fine però scacciamo ogni preoccupazione coll’esclamare : “Adesso è notte e domani si vedrà”, e, tanto per ingannare le nove interminabili ore che ci separano dalla luce, intoniamo la “Valsugana”.
Poi devo aver cominciato a sonnecchiare perché ad un certo momento uno schianto mi fa sobbalzare; anche Villa e Bianchi dovevano aver gli occhi più chiusi che aperti perché, interrogati sulle cause del mio brusco risveglio, non sanno darmi una risposta convincente: ne presumiamo l’origine in una imponente scarica che deve essersi abbattuta proprio a pochi metri da noi.
Ma intanto una piacevole sorpresa ci rallegra e ci fa dimenticare il pericolo corso: le nubi sono state interamente spazzate dal gelido vento del Nord, che s’è messo a soffiare prendendo sempre maggior vitalità.
Prorompiamo in grida di clamorosa contentezza che riescono finalmente a risvegliare Oggioni che finora aveva continuato imperterrito a dormire come un ghiro, inconsapevole di tutto. Egli si unisce alla nostra gioia.
Sono già le quattro: tra un’ora e mezza spunterà il sole, che però non potremo godere perché siamo interamente a nord; con l’avvicinarsi dell’aurora anche il freddo ha acquistato maggior intensità, e lunghi brividi percorrono il nostro corpo.
Alle sei e mezza affronto la problematica traversata a destra, ma alla seconda tirata di corda essa diventa estremamente difficile e senza speranza di buon fine: decidiamo così la ritirata. Scenderemo nuovamente nel famoso canalino ghiacciato. Con due calate a corda doppia, dal grande tetto, raggiungo l’inizio della cornice che il giorno prima non ho stupidamente voluto esplorare.
Non posso trattenere un’imprecazione quando, a una decina di metri dal suo inizio, mi imbatto in un chiodo: sono finalmente sulla via giusta e lo grido ai compagni. Ora infilo nel suo anello il cordino da 8 mm, mi calo per esso a perpendicolo per dieci metri e coi piedi puntati alla roccia mi spingo altri tre metri a destra arrivando su di una cengia abbastanza comoda. Dico ad Oggioni di venire ed appena egli mi raggiunge attraverso nuovamente per qualche metro verso destra e pervengo sotto ad uno strano colatoio strapiombante tutto a scaglie: è alto circa dieci metri e quando lo supero in spaccata lo trovo molto difficoltoso. Poi la salita si svolge su di una larga cengia inclinata che seguiamo facilmente per una trentina di metri. E qui comincia la danza del vento. Ora siamo allo scoperto ed esso ci investe con le sue raffiche che raggiungono una potenza esasperante ed in certi momenti minacciano persino di strapparci dalla parete.
Incappucciati sino al naso e con tanto di guanti, riprendiamo a salire obliquando ora verso sinistra, con abbondante uso di chiodi e superando difficoltà estreme. Dopo una ventina di metri dobbiamo effettuare una strana manovra per raggiungere uno stretto colatoio verticale, un po’ in alto, verso la nostra sinistra: l’arrivarvi è infatti ostacolato da una vasta placca molto inclinata e levigata. Studio un po’ il da farsi e poi mi decido a ripetere la manovra già usata precedentemente; mi calo qualche metro e, con un delicato pendolo a sinistra, raggiungo un’incrinatura che mi permette di superare l’ostacolo con l’aiuto di diversi chiodi.
La serie di difficoltà che ho da poco iniziata e che continuerà per altri cinquanta metri sempre all’estremo, costituisce uno dei tratti più difficili ed esposti di tutta l’ascensione poiché si svolge in aperta parete, su compattissime placche verticali e strapiombi e con un vuoto continuo sotto i piedi di oltre seicento metri.

I miei guanti sono andati quasi completamente consumati dalla roccia; di conseguenza la pelle dei polpastrelli, ormai in continuo contatto col gelo e già assottigliata dalla rugosità del granito, se ne va lasciando scoperta la carne viva; per fortuna il freddo me li rende quasi insensibili al dolore.
Vinco il passaggio, ma dopo qualche metro sono costretto a fermarmi sui chiodi poiché non ne ho più a disposizione per continuare. Il vento ostacola totalmente la ricezione della voce, allora gesticolando invito il compagno a raggiungermi.
Continuiamo per altre tre lunghezze di corda lievemente oblique a destra e raggiungiamo il ripiano, sotto un grande strapiombo giallo, che servì a Cassin per il suo secondo bivacco. Per un’altra lunghezza di corda seguiamo barcollando una facile cengia obliqua e, riunitici finalmente ancora tutti e quattro, decidiamo una breve sosta.
Sono già le 15: un secondo bivacco sarà inevitabile poiché ben 500 metri di parete ci separano ancora dalla vetta. Ci affrettiamo a raggiungere, con due difficili tirate di corda, la cresta “a dorso di mulo”. Qui, si salvi chi può! Ci troviamo ad assistere a certi fenomeni di cui non avevamo mai saputa l’esistenza: il vento urla così forte tra i pinnacoli e ci stordisce tanto che, se anche fossero crollate le Jorasses, non ne avremmo sentito il rumore. La corda è incessantemente in preda al turbine e, ad intervalli, forma degli archi perfetti, che sembrano tracciati col compasso; non parliamo poi di noi che se non prevenissimo in tempo quelle sfuriate abbracciando qualche masso, correremmo il rischio di fare in cordata aerea il giro del Monte Bianco.
Cosicché, nonostante l’arrampicata abbia perso verticalità e le difficoltà siano diminuite, gli elementi che imperversano rendono ancor più faticoso il progredire: le nostre povere mani, tranne quelle di Bianchi che sono state meno sfruttate, segnano di sangue tutto il percorso e se il freddo le ha rese insensibili al male, le ha pur rese insensibili alla presa, peggiorando al massimo la nostra situazione.
Verso le 19.30 tocchiamo la fine della cresta e ci disponiamo al bivacco per il quale, in mancanza di meglio, spianiamo a piccozzate quattro piazzole nel ghiaccio vivo d’un ripido canalino che è alla sinistra di quello che dovremo
percorrere domani. Ultimata la sistemazione, facciamo l’inventario dei viveri che ci restano: cinque banane secche, due tozzi di pane, una decina di zuccherini, mezza porzione di nescafè, il fondo di una scatoletta coperto di marmellata e il poco cognac che tenevamo in serbo come una reliquia, ma che s’era rovesciato nel fondo dello zaino. Colazione ben magra da dividere in quattro; e purtroppo abbiamo davanti a noi ancora una giornata…
Tentiamo di preparare un po’ di caffè facendo sciogliere del ghiaccio sul fornellino a meta, ma il vento non ci permette neppure questa operazione, per quanti ripari cerchiamo di costruire alla debole fiamma.
Crediamo allora più opportuno dividerci qualche zolletta di zucchero ed entrare senz’altro nei sacchi da bivacco. Ci infiliamo, con le teste che scoppiano per l’incessante ululare del vento, ma per quanto cerchiamo di chiuderci dentro ermeticamente, esso riesce a penetrarvi rabbioso e li gonfia come palloni frenati.
La notte è veramente terribile: è un susseguirsi di brividi accompagnato dal tamburellare dei denti: quando non ne possiamo più pensiamo alla vetta ormai vicina e resistiamo.
Il mattino del 19 agosto è più limpido che mai e ci coglie ancora in balia del solito nemico che, per giunta, nella notte ha incrostato di ghiaccio l’interno dei nostri sacchi da bivacco.
Ora cinquanta metri sopra di noi, alla nostra sinistra, sulle rocce facili, un bel sole ci invita a raggiungerlo e senza perder tempo, abbandonando il giusto itinerario, mi dirigo coi compagni verso la sua calda carezza, sperando di potermela cavare poi lungo un altro passaggio. Ma dopo cento metri di salita devo purtroppo convincermi che per di qui non si esce. Siamo così costretti al dietro front. Villa e Bianchi, che finora sono stati sempre in seconda posizione, passano ora in testa poiché si trovano più vicini alla giusta via: con una delicatissima traversata essi afferrano circa a metà il colatoio ghiacciato che scende tra due torri gialle. Io e Oggioni li seguiamo e con due tirate di corda quasi estreme — è difficilissimo qui riuscir a piantar chiodi d’assicurazione — raggiungiamo uno spacco a destra e con un’altra lunghezza di corda, sempre verso destra, aggiriamo il grande strapiombo che ci sovrasta ponendo finalmente fine a tutte le estreme difficoltà.
Il vento è sempre fortissimo, i nostri volti sono irriconoscibili per la stanchezza, ma ormai non ci importa più di nulla, la vetta è lì, duecento metri sopra di noi. Per un canalino a sinistra riafferriamo la cresta e la percorriamo veloci, quasi di corsa, contando i metri che ci separano dalla meta ultima. Ancora cento metri, cinquanta, dieci: ed il grande sogno è divenuto realtà. Ci sono volute cinquantadue ore di lotta estrema per farlo divenir tale.
Due lagrime brillano sbarazzine agli angoli dei miei occhi, ed un groppo alla gola non mi permette di parlare.
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https://www.feltrinellieditore.it/news/2004/07/28/giorgio-bocca-la-notte-di-bonatti-mezzo-secolo-fa-3433/
Tra Bocca e Buzzati solo due diversi stili e punti di vista ma penso che l’ammirazione fosse di entrambi.Punto di vista “Ben differente” e’proprio il sale del giornalismo.
molto condivisibile l’analisi di Gallese, in effetti Bonatti stesso è cresciuto leggendo le avventure di: Salgari, Kipling, Conrad. I loro libri per lui sono stati fonte d’ispirazione.
Credo che a Bonatti trasmettere l’aspetto tecnico interessasse poco quanto piuttosto raccontare cercando di far rivivere al lettore l’avventura, le emozioni provare.
Grande Bonatti!
Passo davanti a via S.Maddalena a Monza almeno una volta alla settimana, oggi pomeriggio vado in pellegrinaggio al numero 5.
Mi sia permesso, dal medesimo sito, ribattere a un Bocca con un Buzzati, di ben differente caratura e spessore:
https://unaletteraduefoto.wordpress.com/2016/02/22/22-febbraio-1965-1515-bonatti-e-la-nord-del-cervino-dino-buzzati-cento-ore-senza-sole/
Bonatti è sempre Bonatti: bella e interessante l’analisi della sua evoluzione fatta da Paolo Gallese
Ne scrisse Giorgio Bocca..chiamandolo IL MASOCHISTA CELESTE”Si sta in poltrona con il sigaro in bocca e il caffè a portata di mano tutti belli riscaldati e confortati, eppure bisogna ascoltarlo mentre racconta dal giornale: «Dopo il settimo bivacco non potei più mangiare, il sacchetto dei viveri mi era sfuggito dalle dita congelate. Per dissetarmi succhiai un po’ di ghiaccio, ma mi si gonfiarono le labbra».
E avanti, di cilicio in cilicio, di sofferenza in sofferenza, seguendo il masochista celeste fino al godimento più alto: quello per aver trovato, dopo otto giorni di scalata, il rifugio privo di legna da bruciare, di provviste, di vetri alle finestre e di coperte.
completo :https://unaletteraduefoto.wordpress.com/2016/02/18/18-febbraio-1965-bonatti-e-la-nord-del-cervino-giorgio-bocca-il-masochista-celeste/
dentro si trova pure/ Perché non provi anche tu? Credimi, sbagli a non provare. Su, almeno un bivacco sulla Nord delle Grandes Jorasses»./
che non sia questo il motivo per cui ci piace , anche se molti nemmeno si sognano
In quei tempi scrivere così aveva un senso ed un suo pubblico. Bonatti sapeva bene di rivolgersi ad un tipo particolare di lettore, con una sensibilità simile alla sua. Non necessariamente migliore, dal suo punto di vista; un termine che potrebbe essere corretto è: precisa.
È il lettore cresciuto con Salgari, kipling, Conrad, London. Come Bonatti stesso. È un lettore che spera capace di gustare il senso dell’avventura classica, non tecnica.
È il sogno, musicato, del gesto, l’epopea.
Muterà e addolcirà negli anni la sua scrittura, dandole non più il senso della lotta strenua, ma dello stupore, del desiderio di sapere, dell’oltre come mezzo per esplorare sé stessi.
Solo poi, con la maturità, riuscirà a dare luce non filtrata a quel suo pensiero dominante, che si coglie in retrospettiva, inespresso pienamente fin dai primi scritti, che è il mistero della Natura. E il nostro posto messi a confronto con lei.
Secondo me c’era tormenta anche quando andava a comprare il pane…
Comunque scriveva bene e con un fondo di humor quasi inglese in alcuni passaggi
Il suo stile di scrittura è comunque rimasto eroico e da tragedia incombente.
Mentre oggi c’e’la tendenza di ricercare terminologia semplice al limite dello sciatto ripetitivo infarcito di terminologia in anglo-americano, Bonatti sa ricorrere a composizione del periodo e lessico forbito.Forse non si impegnava piu’ di tanto , ma gli veniva dalla formazione scolastica del perido , scuola elementare a partire del 1936 e non e’ che nel primo dopoguerra la formazione scolastica si sia di colpo depurata dalla retorica reboante.Mio padre del 22, raccontava che piu’ un tema alla superiori , prova valida per il voto, era costruito con frasi ad effetto e termini ricercati, piu’ alto era il voto e si poteva essere selezionati per i Vittoriali.Tranne il caso che faceva incontrare un docente di libero pensiero e aggiornato lettore di libri contemporanei proibiti, che tagliava il superfluo .Col tempo lo stile di Bonatti si e’ reso piu’scarno e piu’moderno, avra’ forse avuto anche consigli di equipe dell’editore.Quanto all’impresa su vie classiche , ormai manca solo la discesa in libera, oltre alla salita slegata(free solo, scusate ) in 2 ore e 4 primi.
Scrittura sempre drammatica che comunque caratterizzerà anche i capitoli futuri di Bonatti, nonostante una sopraggiunta raffinatezza di pensiero.
Scie di sangue e carne viva: d’altronde si chiamavano Pel e os.
Bello, ma, forse complice l’anno in cui è stato scritto, il linguaggio mi ricorda molto i documentari dell’istituto Luce. Non mi ricorda molto lo stile dei suoi libri.
“le nostre povere mani, tranne quelle di Bianchi che sono state meno sfruttate, segnano di sangue tutto il percorso …..” Il progresso attuale nei materiali, pero’ , e’ un gran bel passo avanti. Di scarponi e scarpette sul web modelli a josa perogni uso specialistico , ben altro che quelli in foto a punta quadrata.Pero’ per guanti speciali da arrampicata ( opss, pardon, crack gloves) , qualcosa “si vede senza dita .Ma il problemone e’ ancora irrisolto..e’ un tributo ineliminabile ?
https://www.arrampicate.it/ho-finito-la-pelle/
Albert i tempi cambiano e si fanno le riforme.
Ma non è detto che si migliori.
Comunque adesso migliorenanno la Val di Mello, la renderanno democraticamente fruibile a tutti e più sicura. Magari vieteranno l’arrampicata.
Che direbbe Bonatti delle aiuole valorizzatrici che faranno sui bordi del sentiero della val di Mello?
Dal 1949 ad agosto 2018..Dani Arnold in 2 ore e 4 minuti( secondi, decimi e centesimi gentilmente omessi) in scarpette e senza corda, uno zainetto essenziale..con equipe che filma e forse anche riprese da drone ed elicottero .Niente penna e foglio ne’ ricchezza di linguaggio..Musichetta come colonna sonora e comunicatività scarna ed essenziale..nel film un logo in alto a sinistra.Il che fa supporre che non sia andato in prestito di qualcosa.Ai tempi di Bonatti neppure entrava nell’ordine di idee che per una scarica di sassi o crollo di seracco, si potesse far causa al sindaco della zona per omessi cartelli o mancato disgaggio parete a carico del bilancio comunale.Essendo nato nel ’50, e sdrenato da professoressa di italiano molto esigente, mi vien da preferire il racconto di Bonatti.
La classe non e’ acqua. Dino Buzzati ebbe a dire che come scrittore Bonatti era da considerare arruolato tra i professionisti , ed infatti poi vennero altri libri e reportage e come oratore -conferenziere gli era superiore.
Pero’ anche Cesare Maestri come scrittore lo considero alla pari, sia pure con uno stile narrativo molto diverso..eppure …quando era ancora in gamba nei talk show nazionali e kilimanjari vari non lo hanno mai invitato.