Il Libro di Giobbe: male radicale e trascendenza, da Kant a Jaspers – parte 1

Il Libro di Giobbe: male radicale e trascendenza, da Kant a Jaspersparte 1
di Petra Gogna
Tesi di Laurea Triennale di Petra Gogna, Matricola n. 796170, con Relatore Patrizia Pozzi, Anno Accademico 2013-2014 dell’Università degli Studi di Milano, Corso di Laurea in Filosofia.

Indice
1.     Capitolo 1. Il Libro di Giobbe
2.     Capitolo 2. Kant e il male radicale
3.     Capitolo 3. La Trascendenza: Jaspers legge Kant
4.     Conclusione
5.     Bibliografia

Capitolo 1. Il Libro di Giobbe
Il Libro di Giobbe (in ebraico “איוב”” o “‘ijjub”, in greco “Ιώβ”, in latino “Iob”) è non solo una tra le opere più affascinanti e profonde che la tradizione biblica ebraica conservi ma è anche a giusto titolo, per il fascino che ha esercitato ininterrottamente su tutta la letteratura fino ai giorni nostri, da annoverare tra i più grandi poemi dell’umanità: sono innumerevoli i riferimenti che vi si fanno nella letteratura teologica, dalla talmudica sino a quella esegetico-cristiana, ma anche in tutta la letteratura mondiale, in scrittori come Baudelaire, Dovstoevskij, Heschel, Wisel e molti altri. Come giustamente nota Luigi Moraldi nella presentazione critica al Libro di Giobbe, il suo influsso sulla Divina Commedia, sul Paradiso perduto di Milton, sulla Messiade di Klopstock, come sul Faust di Goethe è da tutti riconosciuto; non tanti sanno che anche Leopardi ne fu particolarmente affascinato e ne tentò pure una traduzione italiana ma per il livello di ebraico del libro, che andava ben oltre le sue conoscenze, dovette desistere[1].

Certo è che, per la grandiosità e profondità delle concezioni, per la nobiltà e l’universalità degli ideali che espone, il libro ha richiamato al confronto anche tanti filosofi da Kant a Kierkegaard sino a Bloch, Jung e Jaspers. Proprio Søren Kierkegaard, nella sua opera La ripresa scrive: “Se non avessi Giobbe! Non posso spiegarvi minutamente e sottilmente quale significato e quanti significati abbia per me! Io non lo leggo con gli occhi come si legge un altro libro, me lo metto per così dire sul cuore… Come il bambino che mette il libro sotto il cuscino per essere certo di non aver dimenticato la sua lezione quando al mattino si sveglia, così la notte mi porto a letto il Libro di Giobbe. Ogni sua parola è cibo, vestimento e balsamo per la mia povera anima”. [2]

La domanda che l’opera contiene e soprattutto lo sviluppo che si dà della risposta, travalicano i confini della tradizione biblica e dell’opera teologico-religiosa “tout court” e s’inseriscono in un terreno marcatamente più filosofico, ponendo questioni che sì concernono il rapporto tra Dio e l’uomo, ma che si focalizzano maggiormente sull’uomo, sul senso della nostra esistenza, sulla miseria della condizione umana che ovunque porta con sé le cifre di dolore, sofferenza e ingiustizia e soprattutto della loro incomprensibilità: perché si soffre? e soprattutto perché deve soffrire l’innocente?

La problematica del libro è di una modernità sconcertante se non addirittura di un’“attualità senza tempo”, poiché a mio avviso ogni lettore, prescindendo dalla fede che professi, dal paese che abiti e dall’epoca storica in cui viva, può ritrovare una parte di sé, dei suoi dubbi e delle sue umane incertezze negli splendidi dialoghi che il Libro di Giobbe presenta. Quello che questo libro rende infatti emblematico, è il dramma indistricabile del giusto che soffre, di una persona pia e ligia alla legge che improvvisamente viene colpita da sofferenze atroci e privata di ogni bene, e che all’apice del suo dolore esprime, con riflessioni estremamente toccanti, la sua doglianza a Dio, dove quest’ultimo, come nota Paola Ricci Sindoni, protagonista dall’inizio alla fine, diventa la lacerante tensione di un desiderio, la necessità dolorosa di una parola che tarda a venire [3], e che infine si rivela in una possente teofania, lasciando tuttavia l’enigma di Giobbe e della nostra sofferenza, in un certo senso, aperto ai posteri.

Le questioni affrontate nel Libro tuttavia, non costituiscono una novità all’interno dello scenario dell’epoca di redazione (V-IV a. C) ma s’inseriscono all’interno di un filone letterario che affonda le sue radici sulle problematiche dell’esistenza umana e che già da secoli aveva prodotto opere importanti come in Egitto Dialogo di un suicida con se stesso, opera risalente al 2200 a. C o in Mesopotamia L’uomo e il suo Dio personale un testo sumerico del 2000 a. C. o Dialogo pessimistico un’opera assiro-babilonese risalente all’inizio del I millennio a. C…

L’opera ha una portata sicuramente più speculativa che didascalica, e si comprende bene che negli intenti dell’autore non c’era l’obiettivo di dare al mistero del male una risposta etico-dogmatica, riconducibile alla dottrina della retribuzione come accade in altri testi dell’Antico testamento, ad esempio nel Deuteronomio c. 28 (maledizioni per disubbidienza 15-69) o nel Levitico c. 26 (Conseguenze e maledizioni per la disubbidienza), ma anzi è una delle caratteristiche fondamentali del Libro di Giobbe quella di sottoporre la suddetta concezione tradizionale ad un incandescente esame critico. Vengono presentati, per così dire, da una parte “la teologia” messa in bocca ai tre amici, i quali condensano nei loro discorsi le concezioni teologiche tradizionali della retribuzione, che giudicava la sofferenza un segno della riprovazione di Dio motivata dalla cattiva condotta del sofferente e dall’altra “l’uomo” rappresentato da Giobbe, che rivendica la sua innocenza, rifiuta le teorie degli amici, soffre perché continua a credere che la sua sofferenza sia la pena per una colpa ed è sconvolto perché la propria coscienza non lo accusa. Attraverso l’escamotage del dialogo tra i quattro personaggi (che più che una serie di dialoghi risulta una serie di monologhi), l’autore focalizza il pathos sul forte contrasto che la dottrina biblica rivela con l’esperienza umana, di cui quella di Giobbe è simbolo, e mostra come la fede (intesa come fiducia assoluta) nel proprio Dio, nella situazione tragica di dolore immeritato, vada oltre le mere spiegazioni dottrinali e istituzionali e ricerchi la risposta alle sue domande nell’autentico rapporto personale con la divinità. Sta qui il “monoteismo assoluto” di Giobbe, poiché è proprio nel meditato grido di fede che egli accetta non una spiegazione logica del male ma il vero e proprio “mistero di Dio”, cercando di vedere oltre il male nella contemplazione metafisica di quel progetto divino che trascende lo scibile umano e la logica che gli è propria.

Luigi Moraldi rileva che “la lettura del Libro è di una facilità che favorisce l’incomprensione e ne sfavorisce una giusta valutazione; si tratta infatti di un’opera antologica retta da un filo conduttore sottile, spesso sfuggente ma tuttavia indispensabile ad ogni lettore”[4] e a tal proposito risultano illuminanti anche le parole di San Gerolamo, il traduttore dalmata delle Sacre Scritture in latino, il quale, in modo lapidario e folgorante, dichiarava chespiegare Giobbe è come «tenere tra le mani un’anguilla o una piccola murena: quanto più la premi, tanto più velocemente ti scivola via»; egli intendeva dire che non si riesce a sintetizzare il Libro in un unico messaggio o in una determinata linea di pensiero perché al suo interno vengono presentate idee molteplici e spesso contrastanti senza che ne venga privilegiata nessuna, perché nonostante le idee di Giobbe sembrino imporsi per intensità e profondità sulle idee dei suoi amici, quest’ultime rappresentano comunque la parola di Dio, la tradizione, sono le frasi che oggi ritroviamo in liturgia e vanno rispettate come valide anch’esse.

Per inquadrare più precisamente il senso e il significato dell’opera è necessario tracciare le linee essenziali di composizione, divisione e dello svolgimento interno del libro: è un’opera a carattere antologico della Tanakh, cioè l’Antico Testamento, ed è contenuto nella raccolta del Kethubhiìm (in italiano “Scritti” o raramente “Agiografi”).

Benché non ci sia unanimità sull’accordare ad un solo autore la paternità del libro, non abbiamo informazioni su chi l’abbia redatto, né sull’epoca esatta di redazione: l’ipotesi maggiormente condivisa è che sia stato composto in Giudea non prima del VI sec. a. C, sia sulla scorta di un’analisi approfondita del vocabolario e dello stile, che risultano particolarmente ricchi e poetici rispetto ai libri del Pentateuco e che mostrano una consistente contaminazione di parole derivanti da altre lingue semitiche (come l’accadico, ugaritico, arabo, aramaico) [5], sia in base alla tematica principale, la sofferenza dell’innocente, che ritroviamo in altri libri dei Neviìm (libri dei profeti) cioè nel libro di Isaia e nel libro di Geremia composti nel periodo esilico.; per alcuni, in ragione della critica formulata contro la dottrina della retribuzione, il periodo più opportuno sarebbe leggermente più tardo e quindi post-esilio (IV-III sec.).

Veniamo all’architettura dell’opera e all’analisi dei suoi 42 capitoli: l’incipit è costituito da un prologo in prosa (cc. 1-2), in cui viene presentata la figura di Giobbe, ricco allevatore di bestiame, padre di una numerosa famiglia e persona estremamente pia, il quale, per una scommessa tra Dio e Satana sulla sincerità della sua fede in Jahve, viene consegnato da quest’ultimo nelle mani del Satàn, ed inizia così il suo dramma[6].

(1, 1-12)
1 C’era nella terra di Uz un uomo chiamato Giobbe: uomo integro e retto, temeva Dio ed era alieno dal male. 2 Gli erano nati sette figli e tre figlie; 3 possedeva settemila pecore e tremila cammelli, cinquecento paia di buoi e cinquecento asine, e molto numerosa era la sua servitù. Quest’uomo era il più grande fra tutti i figli d’oriente. 4 Ora i suoi figli solevano andare a fare banchetti in casa di uno di loro, ciascuno nel suo giorno, e mandavano a invitare anche le loro tre sorelle per mangiare e bere insieme. 5 Quando avevano compiuto il turno dei giorni del banchetto, Giobbe li mandava a chiamare per purificarli; si alzava di buon mattino e offriva olocausti secondo il numero di tutti loro. Giobbe infatti pensava: «Forse i miei figli hanno peccato e hanno offeso Dio nel loro cuore». Così faceva Giobbe ogni volta. 6 Un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi davanti al Signore e anche satana andò in mezzo a loro. 7 Il Signore chiese a satana: «Da dove vieni?». Satana rispose al Signore: «Da un giro sulla terra, che ho percorsa». 8 Il Signore disse a satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male». 9 Satana rispose al Signore e disse: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla? 10 Non hai forse messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quanto è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e il suo bestiame abbonda di terra. 11 Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!». 12 Il Signore disse a satana: «Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non stender la mano su di lui». Satana si allontanò dal Signore.

Le prime righe del prologo sono fondamentali per la giusta comprensione del Libro perché viene indicata al lettore la verità su Giobbe: egli è giusto; non è un dettaglio da sottovalutare il fatto che venga marcata proprio la rettitudine come caratteristica principale dell’uomo Giobbe anzi, proprio perché è la sua rettitudine che verrà per tutto lo svolgimento dei dialoghi messa oltremodo in discussione dagli amici, si rivelerà il motivo conduttore del dramma, in quanto egli, seppur tra le più atroci sofferenze, rimarrà fedele alla giustizia che sente dentro di lui. Viene detto chiaramente che Giobbe è ligio ai sacrifici (1, 5) e si sente a tal punto responsabile anche per la condotta dei suoi figli che offre sacrifici alla divinità per tutti, nel timore che abbiano mancato, anche soltanto “nel loro cuore”.

Il lettore sa sin dall’inizio, dalla scena iniziale, che Dio ha testimoniato in favore di Giobbe contro le accuse di Satana e abbia poi concesso a quest’ultimo di metterlo alla prova, ma questo affinché la sua giustizia fosse rivelata a pieno e non per punirlo ingiustamente: Dio è convinto sostenitore della rettitudine del suo servo, perciò acconsente a metterlo alla prova, poiché sa che non lo deluderà. La giustizia di Giobbe è il filo rosso che ricama segretamente questo libro, la sua atroce sofferenza e il suo lamento non sono che secondari, “funzionali” a mostrare che la sua fede nella giustizia divina è indistruttibile. Il suo dolore infatti verrà raccontato solo in un secondo momento, perché come osserva Andrea Poma[7], il libro mostra come la giustizia di Giobbe viene provata, rivelata, esasperata attraverso la sua sofferenza e come proprio nella sofferenza nasca la domanda drammatica sulla giustizia di Dio.

È scritto chiaramente che Giobbe è “integro e retto, timorato di Dio ed alieno dal male” e vediamo sin da subito che il rispetto della legge e il timor di Dio sono conformi, in accordo l’uno con l’altra, anzi è proprio in virtù del senso di giustizia che sente in lui – e che sa provenire da Dio stesso – che egli non perderà mai la fede in Dio (il timor di Dio) e si limiterà solo ad interrogarla. Lungo tutta l’opera Giobbe insisterà nel voler parlare con Dio, non per un moto di tracotanza o irriverenza (come gli imputano gli amici) ma al contrario perché ha un rispetto di Dio talmente profondo e autentico che non riesce ad accettare di sentirsi tradito da lui, non può accogliere serenamente di essere punito senza un motivo valido, dal momento che è assolutamente certo di non aver fatto alcun male.

Queste considerazioni sulla rettitudine di Giobbe e il suo timor di Dio sono importanti da fare preventivamente perché danno la giusta chiave interpretativa con cui cercheremo di spiegare il testo, ci aiutano a capire che questo si rivelerà il libro emblematico dell’uomo giusto e non dell’uomo sofferente. Se da una parte è vero che il libro descrive un lungo lamento, dall’altra dobbiamo indicare come causa di questo lamento non la sofferenza fisica in sé, bensì lo strazio di un fedele che crede profondamente nella giustizia divina, che si ritrova vittima di severa ingiustizia e che nonostante questo continua imperterrito a credere che Dio gli parlerà, lo salverà, perché ha fede nella sua giustizia: alla fine del libro la fede vince sulla sofferenza, la giustizia divina vince sul dolore.

Tornando al prologo. Dopo aver perso tutto, persino i suoi amati figli, in mezzo alla cenere, Giobbe, pieno di croste e ulcere, riceve la visita di tre amici venuti a conoscenza delle sue disgrazie: Elifaz, Blidad e Sofar. Qui ha inizio il corpo centrale del poema (capitoli 3-42, 6) scritto in versi, in cui vengono presentati i colloqui tra Giobbe e i tre amici (3-31), e che si concluderà con il monologo di un quarto amico venuto in visita, Elihu (capitoli 32-37). Segue poi la teofania e l’intervento di Dio (capitoli 38-41, 26) in cui la divinità narra la creazione, le meraviglie e l’armonia del creato, in uno dei brani più belli e profondi dell’Antico testamento sulla contemplazione della natura, al quale fa seguito la ritrattazione di Giobbe (42, 1-6) e l’epilogo in prosa (42, 7-17).

È interessante notare come il tono di lamentazione di Giobbe vari in modo notevole: egli infatti nei primi due capitoli viene presentato come il modello del devoto paziente (di cui, in futuro, sarà considerato l’emblema) che nonostante le disgrazie incombenti benedice il suo Dio, mantenendo un tono di leggendaria devozione e sottomissione, come vediamo nel cap. 1, 20-22: “Nudo sono uscito dal seno di mia madre e nudo vi farò ritorno! Jahve ha dato e Jahve ha tolto: il nome di Javhe sia benedetto!»[8].

Anche nell’ultimo capitolo (42, 1-7) Giobbe esprime, con parole di completa sottomissione e ammirazione, la sua fede assoluta nel signore: “Riconosco che tu puoi tutto, nessun progetto è impossibile a te! Chi può offuscare la provvidenza per insipienza? Per questo ho annunziato, ma senza comprendere, cose meravigliose superiori a me, ma non sapevo! Ascolta dunque, e io parlerò, io ti farò domande e tu m’istruirai! Avevo udito di te per sentito dire, ma ora il mio occhio ti vede! Per questo mi ritratto e fo penitenza sopra la polvere e la cenere!»[9].

Nel corpo centrale del libro (capitoli 3-31), invece, l’atteggiamento e il registro delle parole di Giobbe assumono un tono diverso da quello paziente e profondamente fiducioso in Dio tipico dell’incipit e dell’epilogo, e troviamo un uomo in preda alla disperazione, all’angoscia, all’impazienza e alla rabbia.

Questo cambio di tono avviene non solo perché dal capitolo 3 viene introdotta la poesia, ma anche perché da qui hanno inizio i 3 cicli di dialoghi in cui Giobbe controbatte con fermezza alle accuse degli amici, Elifaz, Bildad e Sofar i quali cercano in tutti modi di convincerlo a fare penitenza dei suoi peccati e di riconciliarsi con Dio, poiché sono portatori della dottrina retributiva “colui che è giusto è felice” (cioè “Dio rende felice colui che è giusto”) dalla quale deducono che “colui che soffre è ingiusto”. Volendo a tutti i costi difendere la giustizia di Dio e l’ortodossia della dottrina, non volendo neanche ascoltare le ragioni di Giobbe, essi appaiono come freddi “teologhi” incapaci di vivere insieme al loro amico il dramma esistenziale e spirituale che sta attraversando. Alla falsa logica della retribuzione del peccato, Giobbe oppone la sua personale esperienza, il suo dolore, il suo tormento senza tregua; non vuole vedere alcuna logica in una situazione che sa essere completamente ingiusta, protesta per la miseria della sua condizione e per l’ingiustizia che sta subendo, ma non accade neanche una volta che egli ceda ai consigli degli amici, che si faccia convincere da loro: la legge morale in lui è più forte della loro falsa teologia.

Ma proviamo ad andare più a fondo con l’analisi dei dialoghi e vediamo come, dopo l’arrivo dei tre amici, già dal suo primo monologo Giobbe è all’apice del dolore ed esprime la sua doglianza con stilemi tipici di un genere letterario che era diffuso all’epoca, cioè la maledizione del giorno natale:

(3, 3-10)
“Possa perire il giorno in cui nacqui,
e la notte che annunziò: – è concepito un maschio!-
Quel giorno sia tenebre:
non ne tenga conto Eloah dall’alto,
non risplenda su di lui la luce!”

Troviamo una scena molto simile nel capitolo 20 del precedentemente accennato Libro di Geremia:
(20, 14-15)
14Maledetto il giorno in cui nacqui; il giorno in cui mia madre mi diede alla luce
non sia mai benedetto. 15Maledetto l’uomo che portò a mio padre il lieto annuncio:
«Ti è nato un figlio maschio», e lo colmò di gioia.”

A questo punto intervengono gli amici. In base alla loro teologia proveranno in ogni modo a razionalizzare la situazione di Giobbe, a trovare una spiegazione logica e coerente alla sua sofferenza ma, di fatto, non faranno altro che imporre le idee della tradizione come una verità indiscussa, basandosi su una deduzione meccanica e quasi scientifica dei principi di fede. Secondo questi principi, che postulano innanzi tutto l’onnipotenza e la giustizia (per noi misteriosa) del Signore, se Giobbe soffre è perché Dio lo punisce e Dio lo punisce perché senza dubbio ha peccato.

Il primo fra loro a parlare è Elifaz (cap 4-5), e il suo discorso è importante perché propone tutte quelle grandi tematiche che poi, con sfumature diverse, verranno riproposte e riformulate nei successivi discorsi di Bildad e Sofar: L’impossibilità per l’uomo di essere innocente davanti a Dio (4, 12-21; 15, 12-16; 25, 4-6), il dolore e la sofferenza come conseguenza del peccato (4, 7-11; 5, 1-7), l’invito a volgersi a Dio, che è la soluzione a tutto (5, 8-16), e ad accogliere la sua punizione come una vera e propria correzione purificante (5, 17-27).

Già dalle prime battute Elifaz, con un tono dotto e schematico che contrasta con quello accorato di Giobbe, apre il discorso accusandolo di essere colpevole e gli espone la sua tesi con considerazioni in cui riecheggia la sapienza tradizionale:

(4, 7-9)
7 Ricorda dunque: quale innocente è perito, e dove mai i retti sono stati sterminati? 8 Per quanto ho visto, quelli che arano iniquità, che seminano malanno, ne fanno poi raccolta. 9 A un soffio di Dio periscono e dallo sfogo della sua ira sono annientati.

La malvagità è punita da Dio, egli punisce la malvagità. Il tono di Elifaz è fortemente dogmatico, non lascia possibilità di appello e, per voler dar autorità alle sue parole, prosegue raccontando che ciò che dice gli è stato trasmesso tramite una visione, avuta tempo prima, in cui una voce gli ha rivelato l’impurità dell’uomo davanti a Dio:

(4, 16-19)
“Un bisbiglio, poi ho udito una voce: Forse un mortale è giusto in confronto a Dio, un uomo è mondo di fronte al suo creatore?
Ecco, egli non si fida dei suoi ministri, pone una <toolà> anche nei suoi messaggeri; quanto più in quelle che abitano in case di creta, che hanno il loro fondamento in polvere!”

La visione gli ha svelato la fallacità della natura umana, la sua inevitabile inclinazione all’errore e al peccato ed è alla luce di queste considerazioni che risulta semplicemente assurdo pretendere – tanto meno sperare- di risultare puro e giusto agli occhi del creatore; Dio non si fida neanche dei suoi ministri, gli angeli, che risultano anch’essi imperfetti ai suoi occhi, come potrebbe fidarsi degli uomini “impastati di creta”?

La conclusione che si deduce è che Dio, trovando l’uomo impuro, lo annienta. La stessa verità rivelata sull’impurità “di fondo”, “radicale” nell’uomo e sulla punizione divina che spetta inevitabilmente al malvagio, la troviamo nel cap. 15 -all’inizio della seconda disputa- riformulata dallo stesso Elifaz nella maniera seguente:

(15, 14-35)
14 Che cos’è l’uomo perché si ritenga puro, perché si dica giusto un nato di donna? 15 Ecco, neppure dei suoi santi egli ha fiducia e i cieli non sono puri ai suoi occhi; 16 quanto meno un essere abominevole e corrotto, l’uomo, che beve l’iniquità come acqua. 17 Voglio spiegartelo, ascoltami, ti racconterò quel che ho visto, 18 quello che i saggi riferiscono, non celato ad essi dai loro padri; 19 a essi soli fu concessa questa terra, né straniero alcuno era passato in mezzo a loro. 20 Per tutti i giorni della vita il malvagio si tormenta; sono contati gli anni riservati al violento. 21 Voci di spavento gli risuonano agli orecchi e in piena pace si vede assalito dal predone. 22 Non crede di potersi sottrarre alle tenebre, egli si sente destinato alla spada. 23 Destinato in pasto agli avvoltoi, sa che gli è preparata la rovina. 24 Un giorno tenebroso lo spaventa, la miseria e l’angoscia l’assalgono come un re pronto all’attacco, 25 perché ha steso contro Dio la sua mano, ha osato farsi forte contro l’Onnipotente; 26 correva contro di lui a testa alta, al riparo del curvo spessore del suo scudo; 27 poiché aveva la faccia coperta di grasso e pinguedine intorno ai suoi fianchi. 28 Avrà dimora in città diroccate, in case dove non si abita più, destinate a diventare macerie. 29 Non arricchirà, non durerà la sua fortuna, non metterà radici sulla terra. 30 Alle tenebre non sfuggirà, la vampa seccherà i suoi germogli e dal vento sarà involato il suo frutto. 31 Non confidi in una vanità fallace, perché sarà una rovina. 32 La sua fronda sarà tagliata prima del tempo e i suoi rami non rinverdiranno più. 33 Sarà spogliato come vigna della sua uva ancor acerba e getterà via come ulivo i suoi fiori, 34 poiché la stirpe dell’empio è sterile e il fuoco divora le tende dell’uomo venale. 35 Concepisce malizia e genera sventura e nel suo seno alleva delusione.

Tornando alla prima disputa, nella terza strofa (cc. 5) Elifaz stringe sempre più la logica del suo discorso e afferma che, il male non viene spontaneamente dalla terra ma proviene dal cuore dell’uomo: è la conseguenza del suo peccato (5, 6-7) quindi, se si soffre, è per colpa propria e l’unica soluzione che si può trovare nel momento di dolore è rivolgersi al Signore e affidarsi alla sua infinità e imperscrutabile volontà (5, 8-16).

(5, 6-16)
6 Non esce certo dal suolo la sventura né germoglia dalla terra il dolore, 7 ma è l’uomo che genera pene, come le scintille volano in alto. 8 Io, invece, mi rivolgerei a Dio e a Dio esporrei la mia causa: 9 a lui, che fa cose tanto grandi da non potersi indagare, meraviglie da non potersi contare 10 che dà la pioggia alla terra e manda l’acqua sulle campagne. 11 Egli esalta gli umili e solleva a prosperità gli afflitti; 12 è lui che rende vani i pensieri degli scaltri, perché le loro mani non abbiano successo. 13 Egli sorprende i saccenti nella loro astuzia e fa crollare il progetto degli scaltri. 14 Di giorno incappano nel buio, in pieno sole brancolano come di notte. 15 Egli invece salva il povero dalla spada della loro bocca e dalla mano del violento. 16 C’è speranza per il misero, ma chi fa l’ingiustizia deve chiudere la bocca. 17 Perciò, beato l’uomo che è corretto da Dio: non sdegnare la correzione dell’Onnipotente, 18 perché egli ferisce e fascia la piaga, colpisce e la sua mano risana.

Nella parte conclusiva del suo discorso (5, 17-27) Elifaz precisa il suo pensiero: la disgrazia è una punizione di Dio per un peccato, è letteralmente una “correzione dell’Onnipotente” (5, 18) perché egli “ferisce e fascia la piaga”, “percuote e le sue mani risanano”.

Dio è l’Onnipotente, colui che tutto può, che fa il male e libera dal male, e questa liberazione passa attraverso una “correzione” che bisogna rispettare, in quanto Dio educa l’uomo anche attraverso la sofferenza e qui troviamo una frase molto ricorrente nelle scritture e in liturgia: “Beato l’uomo che è corretto da Dio!” (5, 17).

(5, 17-18)
“Perciò, beato l’uomo che è corretto da Dio: non sdegnare la correzione dell’Onnipotente, perché egli ferisce e fascia la piaga, colpisce e la sua mano risana.”

Il discorso si conclude con una frase lapidaria, che non chiede certo una risposta o un confronto a Giobbe e che quindi mette ben in risalto come Elifaz attribuisca alle verità sul male appena insegnate un valore istituzionale, quasi scientifico e assolutamente indiscutibile.

(5, 27)
27 Ecco, questo l’abbiamo studiato a fondo, ed è vero. Ascoltalo e imparalo per il tuo bene».

Da queste ultime parole di Elifaz si percepisce ch’egli (e come lui, anche gli altri due in seguito) abbia una visione giuridica e quasi economica della religione, un religione che si limita ad essere una pratica, una prassi religiosa: dato che Dio premia e punisce secondo leggi che hanno un’applicazione quasi meccanica, allora la religione con i suoi dogmi e le sue verità è il “mezzo” per raggiungere la beatitudine e la pace; si vede bene che nella mentalità dei tre amici la fede, la devozione e la morale non possono essere praticate per sé stesse, ma “servono” a trarne un profitto, e più specificatamente servono a ricevere dei premi da Dio o superare le sue punizioni.

Passiamo ora alla risposta di Giobbe.

Egli inizia a parlare dell’incommensurabilità del suo dolore, attraverso figure comuni nella Bibbia come la sabbia nel mare (6, 3), invoca la morte come ultimo bene (6, 9) e dice di non trovare alcun sostegno per se stesso: se nel prologo troviamo un Giobbe piegato dai dolori ma ancora in accorato silenzio, ora, con la visita degli amici che lo accusano e gli negano l’innocenza, che era l’unica cosa rimasta salda nel suo cuore, protesta, si dimena e si ribella contro le loro risposte inquisitorie che lo vogliono colpevole a tutti costi. Come giustamente nota Vignolo: «Sottrarre a chi soffre senza ragione il mistero di quella sua sofferenza, per imporgli una razionalizzazione colpevolizzante, è tortura aggiunta a tortura»[10].

Giobbe invoca la loro pietà, cosa che ripeterà in maniera più decisa nel cap. 19 (19, 21-22), dicendo che in questo momento non vede i suoi fratelli (i tre amici) consolarlo e compatirlo ma li vede ingannare e illuderlo con parole vuote:

(6, 14-21)
14 A chi è sfinito è dovuta pietà dagli amici, anche se ha abbandonato il timore di Dio. 15 I miei fratelli mi hanno deluso come un torrente, sono dileguati come i torrenti delle valli, 16 i quali sono torbidi per lo sgelo, si gonfiano allo sciogliersi della neve, 17 ma al tempo della siccità svaniscono e all’arsura scompaiono dai loro letti. 18 Deviano dalle loro piste le carovane, avanzano nel deserto e vi si perdono; 19 le carovane di Tema guardano là, i viandanti di Saba sperano in essi: 20 ma rimangono delusi d’avere sperato, giunti fin là, ne restano confusi. 21 Così ora voi siete per me: vedete che faccio orrore e vi prende paura.

Nel cap. 19 Giobbe definirà le parole degli amici portatrici di tormento e di oppressione:

(19, 1-2)
“Fino a quando affliggerete la mia anima, mi opprimerete con parole? Questa è la decima volta che mi oltraggiate, non vi vergognate di maltrattarmi!”

Nei vv. 21-22, protesta per il loro accanirsi senza una ragione fondata e chiede ancora una volta pietà:

(19, 21-22) “Pietà, pietà di me, almeno voi, amici miei, perché la mano di Eloah mi ha percosso! Perché mi perseguite come Dio, e non siete mai sazi della carne mia?”

Gli si dimostri che i suoi tormenti sono il castigo delle sue mancanze: “istruitemi e io taccerò, fatemi capire in che cosa ho sbagliato!” (6, 24-30).

Dopo una breve risposta di Bildad che ribadisce ciò che già Elifaz aveva detto e cioè che davanti a Dio nessuno può essere giusto, se egli castiga è perché lo si merita (8, 1-7), Giobbe nei capitoli 9 e 10 riprende il tema della miseria della vita umana, riallacciandosi alle parole di Elifaz il quale ne aveva parlato nei termini di una radicale impurità dell’uomo davanti a Dio.

Giobbe dice di sapere bene che davanti a Dio nessun mortale è giusto, nessun uomo può aver ragione: egli è al di sopra di tutte le creature.

(9, 1-23)
1 Giobbe rispose dicendo: 2 In verità io so che è così: e come può un uomo aver ragione innanzi a Dio? 3 Se uno volesse disputare con lui, non gli risponderebbe una volta su mille. 4 Saggio di mente, potente per la forza, chi s’è opposto a lui ed è rimasto salvo? 5 Sposta le montagne e non lo sanno, egli nella sua ira le sconvolge. 6 Scuote la terra dal suo posto e le sue colonne tremano. 7 Comanda al sole ed esso non sorge e alle stelle pone il suo sigillo. 8 Egli da solo stende i cieli e cammina sulle onde del mare. 9 Crea l’Orsa e l’Orione, le Pleiadi e i penetrali del cielo australe. 10 Fa cose tanto grandi da non potersi indagare, meraviglie da non potersi contare. 11 Ecco, mi passa vicino e non lo vedo, se ne va e di lui non m’accorgo. 12 Se rapisce qualcosa, chi lo può impedire? Chi gli può dire: «Che fai?”. 13 Dio non ritira la sua collera: sotto di lui sono fiaccati i sostenitori di Raab. 14 Tanto meno io potrei rispondergli, trovare parole da dirgli! 15 Se avessi anche ragione, non risponderei, al mio giudice dovrei domandare pietà. 16 Se io lo invocassi e mi rispondesse, non crederei che voglia ascoltare la mia voce. 17 Egli con una tempesta mi schiaccia, moltiplica le mie piaghe senza ragione, 18 non mi lascia riprendere il fiato, anzi mi sazia di amarezze. 19 Se si tratta di forza, è lui che dà il vigore; se di giustizia, chi potrà citarlo? 20 Se avessi ragione, il mio parlare mi condannerebbe; se fossi innocente, egli proverebbe che io sono reo. 21 Sono innocente? Non lo so neppure io, detesto la mia vita! 22 Per questo io dico: «È la stessa cosa»: egli fa perire l’innocente e il reo! 23 Se un flagello uccide all’improvviso, della sciagura degli innocenti egli ride.

Qui si nota bene come Giobbe, nonostante dentro di sé senta di essere innocente, riflettendo sulla grandezza e la maestà del Signore, non abbia perso assolutamente la fede e l’amore in Dio ma anzi è “pronto a chiedere pietà al suo giudice”; questa è la prova della profonda umiltà di Giobbe che lo rende un vero timorato di Dio, da che è per umiltà e non per paura che il vero timorato si sottomette a Dio. Per timore di Dio non s’intende la paura, che porta al nascondimento (come Adamo ed Eva che avendo peccato si nascondono – Gen 3, 8 -) ma la fiducia assoluta, il rispetto e quindi l’amore incondizionato per Dio.

Già nel prologo è scritto chiaramente che Giobbe è “integro e retto, timorato di Dio ed alieno dal male” e vediamo quindi che il rispetto della legge e il timor di Dio sono conformi, in accordo l’uno con l’altra, anzi è proprio in virtù del senso di giustizia che sente in lui – e che sa provenire da Dio stesso – che egli non perderà mai la fede in Dio (il timor di Dio) e si limiterà solo ad interrogarla: come un figlio rispetta il padre e interrogando prova a “incontrarsi” con lui. Lungo tutta l’opera Giobbe insisterà nel voler parlare con Dio perché ha un rispetto talmente profondo e autentico che non riesce ad accettare di sentirsi tradito da lui, non può accogliere serenamente di essere punito senza un motivo valido. Sono gli amici che lo accusano di tracotanza e d’irriverenza e gli consigliano di sottomettersi senza domande a Dio, come un suddito fa con il tiranno, ripetendo che Dio è giudice senza appello, tra lui e l’uomo non c’e arbitrio.

Giobbe continua a credere profondamente nella giustizia del Signore e continua a sperare in una sua venuta: “Voglio parlare e non lo voglio temere” (9, 34-35). Dio sa che egli non è reo, perché dunque cerca in lui una colpa? Le sue mani l’hanno plasmato, perché ora egli lo divora? (10, 3-17). Che sia pio o empio, la mano del signore è sempre contro di lui (10, 17).

(9, 32-35)
32 Poiché non è uomo come me, che io possa rispondergli: «Presentiamoci alla pari in giudizio». 33 Non c’è fra noi due un arbitro che ponga la mano su noi due. 34 Allontani da me la sua verga sì che non mi spaventi il suo terrore: 35 allora io potrò parlare senza temerlo, perché così non sono in me stesso.

(10, 3-17)
3 È forse bene per te opprimermi, disprezzare l’opera delle tue mani e favorire i progetti dei malvagi?  (…) 6 perché tu debba scrutare la mia colpa e frugare il mio peccato, 7 pur sapendo ch’io non sono colpevole e che nessuno mi può liberare dalla tua mano? 8 Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto integro in ogni parte; vorresti ora distruggermi? 9 Ricordati che come argilla mi hai plasmato e in polvere mi farai tornare.  (…) 15 Se sono colpevole, guai a me! Se giusto, non oso sollevare la testa, sazio d’ignominia, come sono, ed ebbro di miseria. 16 Se la sollevo, tu come un leopardo mi dai la caccia e torni a compiere prodigi contro di me, 17 su di me rinnovi i tuoi attacchi, contro di me aumenti la tua ira e truppe sempre fresche mi assalgono.

Giobbe si lascia andare ad un pessimismo cosmico opponendo alle teoria retributiva degli amici, la sua visione di Dio che colpisce ugualmente il giusto e il peccatore.

Dio ai suoi occhi si comporta in un modo che gli pare irrazionale e senza senso. Infatti, permette le catastrofi che colpiscono sia giusti che malvagi, e lascia che i perversi agiscano impunemente contro gli innocenti:

(9, 23-24)
“Se un flagello uccide all’improvviso, della sciagura degli innocenti egli ride. La terra è lasciata in balìa del malfattore, egli vela il volto dei giudici. chi, se non lui, può fare questo?”

e poi:

(9, 22)
“Per questo io dico che è la stessa cosa: egli fa perire l’innocente e il reo!”

Il problema che strazia il cuore di Giobbe è che Dio non sembra punire i malvagi, come invece affermano gli amici, facendosi portavoce della tradizione.

Il tema è sviluppato in modo più esteso nei capitoli 21 e 24 nei quali Giobbe fa continuo riferimento alla vita quotidiana;

Nel cap, 21, Giobbe descrive la vita felice e prospera dei malvagi:

(21, 7-16)
7 Perché vivono i malvagi, invecchiano, anzi sono potenti e gagliardi? 8 La loro prole prospera insieme con essi, i loro rampolli crescono sotto i loro occhi. 9 Le loro case sono tranquille e senza timori; il bastone di Dio non pesa su di loro. 10 Il loro toro feconda e non falla, la vacca partorisce e non abortisce. 11 Mandano fuori, come un gregge, i loro ragazzi e i loro figli saltano in festa. 12 Cantano al suono di timpani e di cetre, si divertono al suono delle zampogne. 13 Finiscono nel benessere i loro giorni e scendono tranquilli negli inferi. 14 Eppure dicevano a Dio: «Allontanati da noi, non vogliamo conoscer le tue vie. 15 Chi è l’Onnipotente, perché dobbiamo servirlo? E che ci giova pregarlo?”. 16 Non hanno forse in mano il loro benessere? Il consiglio degli empi non è lungi da lui?

Nella parte conclusiva del cap. 21 (vv. 23_26) Giobbe parla della morte, ultimo e più significativo esempio di come Dio non operi una visibile distinzioni nel retribuire gli uomini: “tutti finiscono nella polvere e i vermi li ricoprono”.

(21, 23-26)
23 Uno muore in piena salute, tutto tranquillo e prospero; 24 i suoi fianchi sono coperti di grasso e il midollo delle sue ossa è ben nutrito. 25 Un altro muore con l’amarezza in cuore, senza aver mai assaporato la gioia. 26 Eppure entrambi giacciono insieme nella polvere e i vermi li ricoprono.

Nei capitoli successivi al 9, dopo un breve discorso di Sofar il Naamaita (cc. 11), il quale dice che Dio è sommamente libero, che la sapienza e la potenza divina sorpassano ogni intelligenza umana, e che è un paradosso insostenibile volerle comprendere (11, 5-12), Giobbe riprende la parola (cc. 12) ironizzando sulla saggezza degli amici:” con voi morrà la sapienza!”.

La vantata saggezza degli amici è ben poca cosa e, in realtà, non elude il problema: se lui demolisce, non si può ricostruire; se imprigiona… non si può liberare” Tutto dipende dal suo arbitrio” (12, 7-25). Inoltre insiste a rivolgersi a Dio, del quale gli amici si sono dimostrati avvocati inetti, sperando e volendo credere che non sia quello il Dio dipinto da loro. “Anch’io ho una testa come voi, non vi sono per nulla inferiore! E cose simili chi non le conosce?” (12, 3).

L’assoluta mancanza di pietà e di compassione degli amici rende vane le loro stesse parole, poiché la loro unica preoccupazione è quella di difendere Dio ma non si rendono conto che così facendo finiscono con il difenderlo con falsi argomenti, parlando iniquamente e toccando con la loro menzogna la stessa immagine di Dio: “i vostri richiami sono sentenze di cenere, le vostre difese sono difese di fango” (13, 12). Gli amici scherniscono Dio, difendendolo con argomenti ingannevoli: Vorreste trattarlo con parzialità e farvi difensori di Dio? Sarebbe bene per voi se egli vi scrutasse? Vorreste schernirlo, come si schernisce un uomo?” (13, 8-9). Se gli amici fossero porta voci fedeli della giusta retribuzione divina, non la distorcerebbero facendo passare Giobbe per reo, sapendo bene che in realtà egli sia giusto, ma dovrebbero essere testimoni della sua rettitudine e consolarlo facendogli sperare in una risposta d Dio. L’unica salvezza che fanno invece intravedere a Giobbe è al prezzo della sua sincerità, perché secondo loro solo quando egli si dichiarerà colpevole dei suoi peccati, dichiarando quindi il falso, potrà sperare nella salvezza del signore.

Giobbe, dal canto suo, sa di potersi rivolgere a Dio liberamente e senza paura, perché ha un assoluta fede in lui, nella sua maestà e nella sua giustizia: egli sa che Dio ha posto in noi ragione e la legge morale e perciò crede che si possa, anzi si debba, cercare la verità che è la stessa per l’uomo e per Dio; Andre Poma nota giustamente che Giobbe è l’unico tra tutti i personaggi a credere veramente nel mistero di Dio, proprio perché vuole interrogarlo. Voler parlare con Dio per cercare di capire la sua volontà e accettare sinceramente la sua correzion, non è venire meno al timor di Dio, anzi è il vero timore di Dio, è il riconoscimento più profondo della sua maestà e insieme della sua legge incondizionata, quella stessa legge morale che egli ha posto nell’uomo.

È proprio alla luce della legge morale dentro di lui, donata da Dio stesso, che Giobbe si dichiara innocente: egli si dice disposto ad ammettere il suo peccato solo secondo quella stessa legge morale di Dio, non in base alle accuse vuote e arbitrarie degli amici e sa che proprio secondo la legge egli non lo ucciderà, anzi lo salverà: “Proprio questo è la mia speranza: che nessun empio ha accesso alla sua presenza.” (13, 26).

Il Dio tirannico, enigmatico, incomprensibile dipinto dagli amici non ispira il vero timore di Dio all’uomo ma solo paura e rassegnazione; il vero timore di Dio ha a che fare con la fede nella Sua sapienza e nella Sua giustizia assoluta, è accogliere la Sua volontà nella certezza che quest’ultima non contrasterà per nessun motivo con la legge morale, che è la stessa per Dio e per l’uomo.

Giobbe non ha solo fede in Dio, ma in un Dio giusto ed è proprio la giustizia divina ciò a cui egli si affida più di ogni altra cosa, perché la legge, essendo divina ma allo stesso tempo iscritta anche nel suo cuore, ha e deve avere significato anche per lui.

È su questa convinzione di Giobbe che poggia la vera differenza tra lui, convinto che sia la fede in Dio e nella sua giustizia a salvare e ad indirizzare l’uomo verso l’autentico incontro con l’onnipotente, e le false tesi degli amici che invece credono che la salvezza per l’uomo si trovi nella sottomissione a Dio come ad un tiranno, nell’assenza di domande, nella rassegnazione totale al corso degli eventi. Giobbe denuncia la fredda apologia di Dio operata dai suoi amici, perché è convinto che la fede in Dio e lo stesso Dio siano ben altra cosa rispetto all’immagine che loro dipingono.

(13, 4-12) 4 Voi siete raffazzonatori di menzogne, siete tutti medici da nulla. 5 Magari taceste del tutto! sarebbe per voi un atto di sapienza! 6 Ascoltate dunque la mia riprensione e alla difesa delle mie labbra fate attenzione. 7 Volete forse in difesa di Dio dire il falso e in suo favore parlare con inganno? 8 Vorreste trattarlo con parzialità e farvi difensori di Dio? 9 Sarebbe bene per voi se egli vi scrutasse? Vorreste schernirlo, come si schernisce un uomo? 10 Severamente vi redarguirà, se in segreto gli siete parziali. 11 Forse la sua maestà non vi incute spavento e il terrore di lui non vi assale? 12 Sentenze di cenere sono i vostri moniti, difese di argilla le vostre difese. 13 Tacete, state lontani da me: parlerò io, mi capiti quel che capiti.

Nel cc. 14 Giobbe ritorna su tema del pessimismo cosmico, della fragilità e miseria della creatura umana con una splendida elegia di potente sapore leopardiano, facendo riferimento alla sua situazione e allo stesso tempo intonando un lamento sulla triste condizione di tutti gli uomini.

(14, 1-12)
1 L’uomo, nato di donna, breve di giorni e sazio di inquietudine, 2 come un fiore spunta e avvizzisce, fugge come l’ombra e mai si ferma. 3 Tu, sopra un tal essere tieni aperti i tuoi occhi e lo chiami a giudizio presso di te? 4 Chi può trarre il puro dall’immondo? Nessuno. 5 Se i suoi giorni sono contati, se il numero dei suoi mesi dipende da te, se hai fissato un termine che non può oltrepassare, 6 distogli lo sguardo da lui e lascialo stare finché abbia compiuto, come un salariato, la sua giornata! 7 Poiché anche per l’albero c’è speranza: se viene tagliato, ancora ributta e i suoi germogli non cessano di crescere; 8 se sotto terra invecchia la sua radice e al suolo muore il suo tronco, 9 al sentore dell’acqua rigermoglia e mette rami come nuova pianta. 10 L’uomo invece, se muore, giace inerte, quando il mortale spira, dov’è? 11 Potranno sparire le acque del mare e i fiumi prosciugarsi e disseccarsi, 12 ma l’uomo che giace più non s’alzerà, finché durano i cieli non si sveglierà, né più si desterà dal suo sonno.

Giobbe non vuole essere punito per i suoi peccati personali particolari ma non nega che l’uomo si trovi fin dalla nascita in una condizione d’impurità e miseria, sa che la nostra è una natura “decaduta”. Si spinge oltre sulle sue considerazioni affermando che il destino dell’albero è più desiderabile perché l’albero ha una speranza: se viene reciso può ancora rinnovarsi, il suo germoglio non verrà meno. Invece l’uomo, morendo, resta prostrato e non si rialzerà più.

Nei Discorsi successivi (cc. 15, 16, 17) gli amici ribadiscono che i malvagi non possono essere felici, che la sfortuna cade sempre sugli empi (18, 1-4) e rimproverano Giobbe di usare parole empie e deplorevoli verso Dio. “Tu hai violato la religione, hai abolito l’invocazione davanti a Dio. Il tuo peccato ha ispirato la tua bocca, hai scelto una lingua maligna. La tua stessa bocca ti condanna, non io; le tue labbra depongono contro di te.” (15, 4- 6).

Giobbe, con crescente intensità, continua a sostenere di essere innocente e che le parole degli amici non lo aiutano affatto, anzi sono parole vuote davanti ai dolori che lo attanagliano.

“Vivevo tranquillo ed egli mi ha sconquassato, mi ha preso per la nuca e mia ha fracassato. Mi ha eretto a suo bersaglio, mi hanno accerchiato i suoi carceri. (…) Il mio volto si è infiammato per il pianto, un’ombra scura è sulle mie palpebre, benché non ci fosse violenza sulle mie mani, e la mia preghiera fosse pura” (16, 12-17). Giobbe aveva la coscienza pulita e le sue preghiere erano pure, eppure è stato colpito dalla sventura contrariamente alla dottrina dei tre amici.

Nel cc 19 Giobbe arriva a dire che non è stato lui con i suoi stessi peccati a gettarsi nella rete ma che è stato Dio a gettarla su di lui, catturandolo:

(19, 4-6)
4 È poi vero che io abbia mancato e che persista nel mio errore? 5 Non è forse vero che credete di vincere contro di me, rinfacciandomi la mia abiezione? 6 Sappiate dunque che Dio mi ha piegato e mi ha avviluppato nella sua rete.


Note
[1] Luigi Moraldi, “Presentazione critica al Libro di Giobbe” (1977) in Giobbe Ecclesiaste, edizione Garzanti, nella collezione “I Garzanti. I grandi libri”, periodico settimanale n 199, Milano 1977, p XXXIV.
[2] Søren Kierkegaard, La Ripresa, 1843, Tr. it. a cura di Angela Zucconi, Milano 1963, p 117.
[3] Paola Ricci Sindoni, “Dio sotto accusa. Jaspers e il caso Giobbe” (2013) in Studi Jaspersiani I, rivista annuale della” Società Italiana Karl Jaspers”, Orthothes Edizioni. pp 134.
[4] Luigi Moraldi, “Presentazione critica al Libro di Giobbe” (1977) in Giobbe Ecclesiaste, edizione Garzanti, nella collezione “I Garzanti. I grandi libri”, periodico settimanale n 199, Milano 1977, pp XI.
[5] ivi. p X.
[6] Ibidem. Le considerazioni sullo sviluppo del libro che farò in seguito si rifanno maggiormente a questa Presentazione critica.
[7] Andrea Poma, Parole vane. Pazienza, giustizia, saggezza: una lettura del Libro di Giobbe. Apogeo, Milano 2005, p 1.
[8] Libro di Giobbe, traduzione it. dei testi originali I ed. (1977) del Rev. Giovanni Boccali e del Rev. Florindo di Vincenzo Radice, nella collezione I Garzanti- I grandi Libri, Aldo Garzanti Editore, p 8.
[9] Ivi. p 134.
[10] Roberto Vignolo, “Giobbe: il male alla luce della rivelazione”, in Giobbe: il problema del male nel pensiero contemporaneo, a cura di Antonio Pieretti, Cittadella, Assisi 1996, 27-73. p 40.

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Il Libro di Giobbe: male radicale e trascendenza, da Kant a Jaspers – parte 1 ultima modifica: 2021-04-20T04:20:00+02:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “Il Libro di Giobbe: male radicale e trascendenza, da Kant a Jaspers – parte 1”

  1. Forse il Libro di Giobbe e la relativa personificazione di Dio sono all’origine di un Dio esterno all’uomo? In ogni caso ne sono la conferma. La lettura essoterica delle Sacre scritture e dei Vangeli è una formula a doppia valenza:
    1. impiegare il solo linguaggio divulgabile/intellegibile dai più. Anche per per favorirne il controllo attraverso il temuto “Dio ti vede”. La presenza dei tre amici ognuno a sostegno di argomenti razionalistici, del tutto inidonei a scandagliare le profondità dell’umano, servirebbero proprio per sedare gli argomenti che certo popolino tende a generare quando si pone alla pari con Dio;
    2. impiegare il linguaggio apparentemente esplicito ma di fatto richiede una interpretazione esoterico per realizzare l’accesso al profondo significato. In questo caso, la fede, islamica, ebraica, cristiana sarebbe l’equivalente sostanziale dell’assunzione di responsabilità e dell’accettazione, referenti della tradizione orientale.
    Tanto con queste ultime, quanto con la fede, si trova la tenzone sul perché del male e contemporaneamente sulla sua ragione d’essere, sostanzialmente educativa. Anche la questione apparentemente così insidiosa del male inferto all’innocente, trova sull’altra sponda del mondo il suo corrispondente nel karma. Il male rende merito anche al concetto della esperienza non trasmissibile, obbligando perciò ognuno a percorrere la sua personale strada verso ciò che lo eleva dal male e lo ricongiunge a Dio.

  2. Complimenti! Bellissima TESIMi piacerebbe aver la fede di Giobbe; ma sono più vicina al pensiero dei suoi amici.
    Quando sono nel dolore e  nella disperazione, penso che sia un castigo di Dio.
    Dio non castiga è misericordioso e amorevole.

  3.  da leggere e rileggere e meditare in questo periodo.
    “perché si soffre? e soprattutto perché deve soffrire l’innocente?”Certo che soffrire e morire per…disguidi nelle prenotazioni del vaccino, menefreghismo del prossimo che non usa le precuzioni elementari..e poi venire  a sapere che qualcuno  ci ha fatto creste di milioni intrallazzando mascherine ed altri  presidi..o per raffazzonare  software di prenotazione  inefficiente..col sospetto che il virus sia sfuggito da un laboratorio..porta a considerazioni sulla miseria umana colpevole dei suoi mali…e non certo un  Dio che ha scaraventato la sua rete .

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