Tamara Lunger sfida la storia e gli alpinisti uomini: “Salirò sul K2 in inverno, io credo ai sogni“. Vuole scalare l’unico Ottomila inviolato nella stagione fredda: “Non ho paura, conosco i miei limiti“.
Il sogno di Tamara Lunger
di Alberto Abburrà
(pubblicato sui La Stampa del 23 dicembre 2020)
Walter Bonatti, uno dei più grandi alpinisti di tutti i tempi, diceva che la realtà rappresenta il cinque per cento delle nostre vite e che, per salvarsi, l’uomo ha una sola possibilità: continuare a sognare. Tamara Lunger, 34 anni, altoatesina con un lungo curriculum di spedizioni in montagna, ha deciso che il suo sogno è un fazzoletto di neve e ghiaccio a 8611 metri di altezza, al confine tra il Pakistan e la Cina. La vetta del K2, l’ultimo grande tabù dell’alpinismo mondiale. Perché d’inverno sulla seconda montagna più alta della terra (dopo l’Everest che misura 8848 metri) nessun uomo e nessuna donna è mai riuscito a mettere piede. Ci hanno provato in tanti, ma il K2 è tuttora l’unico tra i quattordici Ottomila a essere stato scalato solo d’estate. Lunger lo ha conquistato una prima volta nel 2014 e da allora non c’è stato giorno senza che quel richiamo interiore tornasse a farsi vivo. «Sono innamorata di questa montagna, ha un’energia unica e io la avverto dentro di me – racconta mentre sta iniziando i preparativi in Pakistan – È una sensazione profonda, intima, difficile da spiegare. Sono sei anni che ci penso, spesso ho avuto la percezione che fosse arrivato il momento giusto per tentare la scalata d’inverno, poi finalmente mi sono decisa. Quel momento è adesso».
Inutile sottolineare i rischi, le difficoltà e tutte le incognite che contraddistinguono una spedizione su questa montagna immensa che in un secolo e mezzo ha fatto da sfondo a imprese leggendarie, come l’apertura (errore, fu solo un tentativo, NdR) della prima via per mano dell’italiano Luigi Amedeo duca degli Abruzzi nel 1909, ma anche terribili drammi, vedi la morte a 33 anni di Alison Hargreaves, una delle alpiniste più forti della storia nonché mamma di Tom Ballard, l’uomo che ha perso la vita insieme a Daniele Nardi sul Nanga Parbat nel 2019.
Tra le grandi vette che disegnano l’Himalaya, il Karakorum e il Kashmir, il K2 è considerata da tutti gli esperti la più difficile da scalare e non è un caso che tra le tantissime persone che hanno provato a domare quei pendii, il tasso di insuccessi, abbandoni e purtroppo di vittime sia elevatissimo. Le statistiche dicono che ogni tre-quattro alpinisti che arrivano in vetta (d’estate) almeno uno muore (questa statistica non è esagerata. Il dato corretto, aggiornato al 2007, è di 66 morti che, rapportati ai 284 alpinisti giunti in vetta a quella data, dà un rapporto del 23,24%, appunto più o meno uno su quattro “summiters”, NdR).
«Io non ho paura di partire perché mi sento in armonia con il mio corpo e con tutto ciò che mi circonda – prosegue – Essere qui è esattamente ciò che volevo. Provo felicità e gratitudine per l’esperienza che sto vivendo. Se dovessi trovare una metafora mi sento come un bambino che aspetta il Natale». Non vede l’ora di iniziare l’avventura, ma dietro al suo spontaneo entusiasmo c’è una preparazione atletica e logistica maniacale. Tamara non mette limiti alle ambizioni anche se in passato li ha dovuti imporre a se stessa. Nel 2016 durante l’ascesa al Nanga Parbat (un altro dei celebri Ottomila) decise di rinunciare alla conquista (invernale, NdR) della vetta quando le mancavano appena 70 metri. L’impresa era praticamente conclusa, ma lei stremata tornò indietro. A distanza di anni si può dire con certezza che quella scelta salvò la vita a lei e ai suoi compagni di spedizione. «So riconoscere quando è ora di fermarsi. Con il tempo ho imparato a fare tesoro di tutto quello che la vita mi regala. Anche gli ostacoli e le difficoltà perché tutto contribuisce a rendere un’esperienza unica e indimenticabile».
L’avvicinamento alla vetta durerà settimane perché bisognerà allestire i campi intermedi da cui partirà l’ascesa vera e propria. Nel frattempo ci sarà da curare l’acclimatamento e da predisporre i punti di ancoraggio per le corde. Tutto andrà studiato nei minimi dettagli perché la “montagna selvaggia” non ammette distrazioni. Qui le temperature si aggirano tra i -20°C e i -40°C e molto dipenderà proprio dalle condizioni meteo. Gli alpinisti passati da queste parti lo sanno bene. Come gli italiani Achille Compagnoni e Lino Lacedelli che qui, il 31 luglio 1954, furono i primi a conquistare la cima della montagna. Ora sulla scia di quell’impresa è Tamara a voler riscrivere la storia. E per una donna sarebbe un risultato doppio. «Il mio vuole essere anche un messaggio all’universo femminile. Bisogna sognare in grande, lottare per i nostri obiettivi e non arrendersi. Ora tocca a me. Ma l’augurio è che tutte le persone possano trovare il coraggio per affrontare il loro K2 d’inverno».
Il commento
di Reinhold Messner (testo raccolto da Enrico Martinet)
L’invernale al K2 di questi giorni? È la fine della moda delle invernali. E non solo perché è l’ultimo Ottomila non scalato d’inverno, ma anche perché si conclude l’esplorazione. Credo che riusciranno a farlo, insomma prima o poi dovranno pur salirci, ma sarà tutto preparato. E quest’anno c’è Nirmal Purja, che di logistica è un campione, pur non essendo un grande alpinista. Stagione che si conclude come negli Anni ’60 sulle Alpi, quando s’inseguivano tutte le pareti nord. La storia alpinistica del K2 è una grande storia anche al femminile. Penso, per esempio ad Alison Hargreaves, che nel 1995 salì in cima alla seconda montagna della Terra e poi morì in discesa. È stata la più grande alpinista. Nove anni prima raggiunse gli 8611 metri del K2 la prima donna, la polacca Wanda Rutkiewicz. Tamara Lunger ora è là. Potrebbe essere la prima donna in vetta al K2 d’inverno, ma non farà la storia. Lei ha molto fiato, un fisico forte, anche se non ha tanta esperienza. Seguendo le corde fisse può farcela.
La storia si scrive quando si è soli, nella wilderness assoluta e in auto-responsabilità. Non è una colpa non essere soli, oggi è così. Se io avessi trent’anni ora e fossi impegnato in Himalaya non potrei più fare ciò che ho fatto negli Anni ‘70 e ‘80. L’alpinismo di adesso non è creativo, è figlio dei tempi. Simone Moro è l’unico forse che è riuscito a ritrovare quelle solitudini d’inverno. Io ho avuto fortuna a vivere quando in Himalaya tutto o quasi era da inventare. Tamara è forte, ma non può che seguire ciò che è stato preparato per il K2. Mi ha stupito molto quando dice del suo sogno lungo anni di salire sul K2 d’inverno. Non voglio sminuire, il K2 ha una parte finale che, seppur non difficile, ha l’incognita della massa di neve che si accumula, ma stiamo assistendo a quanto già accaduto negli Anni ‘30 con lo sci. Fino ad allora era una scoperta, poi diventò di massa, con gli impianti di risalita. La pista insomma. Ora c’è la pista anche nell’alpinismo. Nella spedizione di adesso al K2 tutto è preparato, studiato. Fa parte del racconto di questa montagna, ma non della sua storia con la “s” maiuscola. Quella cominciata all’inizio del Novecento con quel figlio del diavolo di Aleister Crowley, poi il Duca degli Abruzzi, quindi gli Anni ‘30 con le spedizioni americane e ancora nel 1953. Poi il 1954 quando diventò la “montagna degli italiani” che diede emozione all’Italia e rilanciò l’immagine del Paese nel mondo.
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Io non credo che queste persone abbiano inseguito un record fine a se stesso, avere notorietà, fama e magari farlo pesare agli altri. Piuttosto hanno seguito il loro istintivo bisogno di avventura, di infinito, di elevazione, di mettersi alla prova, di contatto diretto con gli elementi piu selvaggi e potenti della natura. Soddisfare questo bisogno, a volte costa tanto nel senso che lo paghi con il bene piu prezioso che abbiamo.
X G. Per quanto possano manifestarsi brividi ed eruzioni cutanee da orticaria, non può venire il dubbio che per Nardi Scientology non fosse solo uno sponsor commerciale, ma qualcosa di più ? Perché negargli passione e volontà? E se fosse stata adesione invece che pura sottomissione ? L’apparato umano è complicato e non sempre facile da capire dall’esterno, soprattutto quando non corrisponde a schemi classici, almeno nelle forme. Non pensi dunque che sarebbe bene tenere distinto il tema molto concreto e triviale degli sponsor commerciali dalla questione delle fonti della motivazione alpinistica: dalla bandiera, ai simboli religiosi, alle visioni di vario genere, compreso il Lato oscuro della Forza?
I mezzi stravolgono e, talvolta, distruggono il fine dell’alpinismo.
Per praticare l’alpinismo non basta averne il tempo e la voglia, servono mezzi economici (=denaro) per mantenersi, per acquistare attrezzatura, per pagarsi i viaggi, gli assistenti, i portatori, se non le guide, come facevano gli alpinisti aristocratici inglesi. E se non si è ricchi di famiglia quei mezzi economici ce li si procura vendendo la propria fama, per avere fama si cercano i record, le imprese che altri non sono in grado di compiere.
E’ una spirale ben nota in cui, quasi inevitabilmente, viene avvolto l’alpinista che all’inizio cerca soltanto i mezzi per potersi dedicare alla sua passione e che talvolta esita, vuole scegliere di volta in volta, domandandosi se il fine giustifichi quei mezzi, talaltra non si pone il problema, perchè apprezza non solo l’alpinismo ma anche la notorietà e la disponibilità di denaro.
Viviamo in un mondo in cui molti per seguire passioni e notorietà han fatto di tutto contro i loro rivali e prostituendosi a sponsor, produttori, registi, editori e conseguentemente sono diventati icone del successo, ammirati dai loro fan e dalla società cosiddetta civile, che chiude molti occhi sugli indecenti sponsor del calcio, sulle attricette che diventano grandi passando per tanti letti.
Rispetto a questi contesti l’alpinismo moderno sta molto meno peggio di altre attività, non sembrerebbe il caso di fare campagne moralistiche, eppure…
Eppure queste forme agonistiche e appariscenti dell’alpinismo hanno almeno due aspetti che secondo me vanno pubblicamente criticati.
1°) L’abuso di mezzi potenti uccide l’alpinismo con mezzi poveri.
Non saprei tracciare un confine nelle problematiche attuali, perciò richiamo problematiche antiche: l’aprire una via in artificiale toglie ad altri alpinisti la possibilità di aprirla in libera, così come l’uso di chiodi ad espansione o la chiodatura dall’alto o la spittatura di vie aperte in libera con pochi chiodi…
2°) La ricerca di record e fama avvelena quello che nell’alpinismo dovrebbe essere invece un equilibrio liberamente scelto fra rischio e prudenza.
Non a caso all’inizio di quest’articolo vengono ricordati Alison Hargreaves, Tom Ballard e Daniele Nardi, tutti morti inseguendo il loro record come, purtroppo, molti altri.
In particolare, Nardi su ogni cima conquistata poneva una bandiera della associazione Scientology, suo sponsor.
Io non ho alcuna conoscenza diretta, ma sono convinto che anche in quel caso Scientology aveva soggiogato la sua vittima convincendola di essere in possesso di poteri speciali con cui avrebbe potuto fare ciò che altri non potevano.
Il suo è un caso estremo che però ben rappresenta la problematica di un alpinismo professionista, del tutto diverso dal sano professionismo delle guide alpine che invece conducono i loro clienti con una sicurezza che altrimenti non avrebbero.
Credo che valga la pena di meditare su quanto quella bandiera di Scientology fosse diversa da quella artigianale bandiera italiana che l’evaso Felice Benuzzi ha posto in cima a Point Lenana (vedi post in Gognablog,
https://gognablog.sherpa-gate.com/felice-benuzzi/ ): una, una bandiera di soggezione ai mezzi che consentivano di raggiungere quel fine, mentre l’altra era una bandiera di liberazione (la fuga dalla prigionia) per la libertà di salire quella cima con i mezzi più poveri pensabili ma con tanta passione e volontà.
Geri
L’alpinismo è una cosa molto più seria dell’ammassarsi ai piedi di una cima famosa contando che qualcuno farà la traccia e il gregge arriverà forse in cima.
Ma va bene anche questo. L’importante è divertirsi e non farsi male.
anche Tamara eviterebbe volentieri di scrivere a priori della sua impresa, così come quando ha potuto ha fatto imprese al pari di quella descritta, senza farne pubblicità alcuna. sul suo libro, scritto dopo il Nanga Parbat, ne descrive e si percepisce la sua genuinità. La sua passione è più forte del sistema “alpinismo elite”, ha dovuto farlo e lo ha fatto. Quando è lassù credo che si senta bene con se stessa, questo conta, questo è importante e mi fa piacere per lei.
Dario se sono risultato persecutorio mi scuso. Non era affatto la mia intenzione. Solo un piccolissimo correttivo che mi sembrava importante fare.
Abbiamo girato intorno, ma la vera domanda è
Che alpinista è, che alpinismo fa? Il professionismo è questo.
Senza un passato, senza un presente e con un futuro incerto.
Ivo Ferrari
Ho trovato interessante questo resoconto:
http://www.mountainblog.it/redazionale/waldemar-kowalewski-scalare-il-k2-senza-ossigeno-supplementare-e-impossibile/
Si vende la pelle dell’orso prima di averlo chiappato cercando l’appoggio dei tifosi.
Si fa una cronaca continua minuto per minuto con la tastiera in tenda. Che ci fa la tastiera in tenda…fa parte dell’attrezzatura alpinistica?
Poi se va male ci si fa altrettanto grandi dichiarando: vedi so anche rinunciare.
Credo che tamara ce la possa fare, anche come riscatto del mancato raggiungimento del nanga. Mi piace come ragiona e ha la freschezza dell’ eta.
Non ho mai visto un alpinista “di valore” battere la grancassa prima di partire. Forse bisognerebbe vedere il valore degli alpinisti secondo l’etica (e le capacità tecniche e d’inventiva) che in qualche modo regola questa attività.
Mi sbaglierò, ma intanto Manera Santo subito.
Ho trovato interessante questo resoconto:
https://www.google.com/url?sa=t&source=web&rct=j&url=http://www.mountainblog.it/redazionale/waldemar-kowalewski-scalare-il-k2-senza-ossigeno-supplementare-e-impossibile/&ved=2ahUKEwi14bjXmZLuAhVF6aQKHQq6ACoQFjAAegQIARAB&usg=AOvVaw0AAKCt2hOJbNlsA1Y8RzSB
Cominetti. Le guerre di religione mi hanno stremato. Non ho la voglia e l’energia di fare una ricerchina ma ho la sensazione che il tuo criterio severo sulle pre-vendite darebbe luogo ad una lista piuttosto corposa di peccati più o meno veniali. O mi sbaglio? Dimmi tu.
Due commenti sintetici. D’accordo con Manera, tra l’altro “vendere” prima di aver fatto la salita per me per porta un grande sfortuna…
d’accordo con il commento di Messner, come sempre pietra di riferimento per integrita’ etica.
pero’ e’ anche vero che su di li’ d’inverno non c’e’ ancora salito nessuno, corde o non corde, quindi forse ora il limite e’ proprio quello…
Fabio, non segui con la dovuta attenzione Totem e Tabù sull’essere complici più o meno consapevoli e sull’impossibilità di “sottrarsi dall’insieme”. Scherzo ovviamente e non voglio portare qui cosa succede di la’. Certo erano bravi ragazzi che agivano per passione e post-mortem furono utilizzati. Purtroppo sai bene a quanti bravi ragazzi è successo sia in vita che dopo durante tutto il corso della storia. La questione delle responsabilità è controversa. Ma per carità non facciamo travasi. Lasciamo questo spazio riservato ai temi montani. Volevo solo dire che la pre-vendita di imprese alpine non è roba nuova.
Dalla mia modesta esperienza posso dire che quegli alpinisti che vendono un anticipo quello che sono andati a fare, non sono alpinisti di grande valore. Nessuno escluso.
Poi, per carità: auguri a tutti, soprattutto di tornare vivi a casa.
Roberto, ti consiglio la lettura di Eiger. Trionfi e tragedie. 1932-1938 di Rainer Rettner, ed. Corbaccio, 2010 (pp. 67-119). È una ricostruzione storica documentata di quegli anni. Ed è un libro stupendo, che narra la storia di ragazzi che non meritano di essere accostati a quell’infame di Goebbels, anche se il regime tentò ovviamente di speculare sulla tragedia. Ma i quattro, mossi solo dalla passione per le montagne, erano brave persone.
Fabio. Se mi ricordo bene, la stampa ( compresa la fidanzata di uno di loro) era andata in massa a seguirli coi binocoli dalla Scheiddeg, in quella che doveva essere un’impresa vittoriosa e lo sponsor era Goebbels. Non so se mi spiego a proposito di pressioni. Poi da eroi vittoriosi furono trasformati in eroi tragici, simbolo del coraggio e dello spirito di sacrificio del popolo germanico, con un’operazione “brillante” di marketing della morte eroica, utile promozione di un “prodotto” che sarebbe stato venduto su larga scala qualche anno dopo, ma lo sponsor era ben informato sulle tendenze del mercato futuro. Beate le montagne che non hanno bisogno di eroi.
Pasini il confronto non regge. I tempi oggi si bruciano con un clik.
Roberto, gli sfortunati ragazzi del 1936 NON avvertirono la stampa.
Be’ , non è poi una novità. Anche in passato imprese alpinistiche importanti , non tutte certamente, sono state “vendute” prima, durante e dopo. Se poi durante c’era un po’ di tragedia, una vera manna per i media. C’è un bellissimo film tedesco- svizzero “Norwand”, sulla tragica salita del 1936, visto dall’ottica della stampa che era stata chiamata a seguire l’impresa che si auspicava vittoriosa. Quando ci sono di mezzo i dane’ le regole sono ferree. Una volta le copie dei giornali e dei libri venduti, poi si sono aggiunti i radioascoltatori, poi i telespettatori, adesso i click. Le emozioni, provate direttamente o indirettamente, sono un prodotto che si vende molto bene e i consumatori sono disposti a spendere per procurarsele. Così siamo fatti e così va il mondo. Poi chiaramente c’è chi è più attento a mantenere la misura e chi esagera, molto dipende dal carattere del protagonista, dal suo potere contrattuale e dalla forza delle pressioni di editori e sponsor.
Ma quale visione superata?!?!
Grande Manera la tua è la visione dell’alpinismo in cui mi rivedo.
Tutto questo VENDERE l’avventura , le proprie aspirazioni ed emozioni, anche prima di averle vissute è solo COMMERCIO.
Vuoi fare il professionista? Fallo ma prima fai, poi racconta. Ma qundo torni a casa. Non ci interessa sapere in diretta quante volte ti lavi i denti o quante volte fai pipi .
Questo non vale solo per Tamara.
Scrivo con il telefono, manca un accento in tutt’ora nello scritto precedente, Palms mi raccomando.. 😉
Sono più che d’accordo con Ugo Manera, la sua visione non credo affatto sia superata è quello che pensavo e penso tuttora anch’io dell’alpinismo. Le spedizioni in Himalaya vissute in diretta, mi sembra creino sui social una sorta di Tifoseria di questo o quell’altro Alpinista, sarà sicuramente colpa degli Sponsor, ma credo che si possa scegliere di sottrarsi da questo meccanismo mediatico, gli esempi ci sono, la coppia Nives Meroi, Romano Benet, ma anche altri.
Palms, hai ragione ammetto l’errore grossolano e me ne scuso con le donne, purtroppo questa è una societa’ dove ammettere gli errori, o chiedere scusa è sempre più raro. Ho iniziato a lavorare che avevo 14 anni, con la grammatica ogni tanto ci litigo ancora.
No, Ugo, ti sbagli. La tua visione dell’alpinismo NON è superata.
Tu hai inteso l’alpinismo come un’avventura dello spirito: è il massimo.
Naturalmente faccio i miei migliori auguri per la sua impresa invernale al K2. La mia visione dell’alpinismo è però un’altra. Una visione forse superata, quella di un ottuagenario. Io ho sempre amato leggere e scrivere il racconto delle avventure alpine, ma dopo che sono state vissute, non prima che siano avviate. il professionismo in alpinismo, se non svolto come mestiere di guida alpina, obbliga a cercare anche la visibilità preventiva. Gli sponsor richiedono questo per sganciare quattrini quindi è richiesta anche una visibilità mediatica preventiva quasi come se l’alpinismo fosse comparabile ad un derby cittadino nel mondo del calcio. Nel 1976 ho avuto occasione di incontrare Tasker e Boardman al campo base dopo la loro straordinaria impresa sulla ovest del Changabang. Quello resta per me l’esempio di grande alpinismo, non quello mediatico, rappresentato anche con collegamenti in diretta via satellitare a beneficio di chi sta seduto seduto in poltrona davanti alla TV. Scusatemi, sono un vecchio nostalgico.
In ogni caso ancora auguri a Tamara con simpatia
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Intressante questo post
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Scusatemi, come al solito se scrivo mentre cammino il risultato è pessimo…
Tamara mi è molto simpatica e ne ho grande rispetto. Le auguro di riuscire e, comunque, che tutto vada bene anche in caso di fallimento.
Mi piacerebbe vedere più donne protagoniste. Vorrei vederle tornare ad organizzare, fare, sbrigare, immaginare con creatività ed essere protagoniste della loro idea. Nives lo ha fatto insieme al grande Romano.
Donne che inventano e poi fanno.
Chissà che un pezzo di quella che potrebbe essere la nuova Storia, non si risolva anche in questo. L’Himalaya è ancora vasto per inventare. In Karakorum potrebbero esserci problemi religiosi, un peccato perché credo ci sia ancora molto da inventare.
Dario forse volevi dire “LE” faccio tanti auguri.
Sembra una stupidata forse, una pedanteria da maestrini, invece non lo è affatto.
Soprattutto dato il tono femminile dell’impresa che viene tentata. (Sempre ammettendo che i maestrini abbiano torto a prescindere, e non lo ammetto affatto 😏)
Se c’è una occasione di salire questa montagna d’inverno, probabilmente è questa, (premetto che ci sono tanti modi di salire in cima al K2, oltre all’uso o meno dell’ossigeno) sembra ci sia poca neve e la progressione, seppur più difficile tecnicamente, ci dovrebbe essere meno pericolo di valanghe. La squadra dei Nepalesi ha già attrezzato una buona parte di salita, l’unica incognita sono i venti che in aggiunta al freddo, in alto, potrebbero arrestare chiunque. Pur non avendo simpatia per l’ex Militare Nirmal Purja, non mi dispiacerebbe che la prima salita fosse opera di Nepalesi. Leggendo nell’articolo il nome di Nives Meroi che ha salito tutti i 14 8000 in stile Alpino e della Fortissima e sfortunata, Alison Hargreaves, penso che Tamara Lunger non abbia l’esperienza per salire questa Montagna d’inverno, anche se tutto è possibile, per me è un po’ mancanza di rispetto da parte sua, puntare su una salita tanto estrema, comunque non mi dispiacerebbe essere contraddetto dai fatti, e gli faccio i migliori auguri.
Dal testo dell’articolo si potrebbe credere che il monito di Tamara per l’emancipazione femminile sia emulare l’opera maschile. Spero non sia il suo pensiero.