Metadiario – 115 – In Verdon e altro (AG 1983-003)
A parte la prima volta di assaggio nel 1981, eravamo già al secondo anno di lunga permanenza primaverile in questo posto magnifico. Il Verdon del 1982 ci aveva lasciati con troppe mete irrisolte, troppi sogni accantonati.
Così il 22 maggio 1983 siamo ancora sull’orlo del canyon delle Gorges du Verdon a guardare in basso (sempre stomachevole), questa volta vogliamo scendere per poter risalire sulla parte alta del Pilier des Écureuils: con me sono Alberto Bianchi (l’ingegnere), Paolo e Giovanni Rosti, Luca Crepaldi e Giovanni Crosta. A parte uno scambio di signorina tra i due Rosti, quest’anno siamo solo maschi e neppure tantissimi. Pertanto il disordine raggiungerà limiti inusitati. Anne-Lise era in spedizione con Silvia Metzeltin e altre italiane al Meru Peak nel Garwhal indiano.
Archiviato il Pilier des Écureils, il giorno dopo ci buttiamo sulla tanto temuta Pichenibule, anche se solo sulla parte alta, quella più significativa. La squadra è ridotta, ci sono Alberto, Giovanni Rosti e Luca: gli altri due hanno preferito meta meno ambiziosa. Inutile dire che facciamo tutto bene meno il bombé, dove siamo costretti a tirare due chiodi. E’ vero che temiamo assai questo ambiente così esposto. Il vuoto che ci circonda non è un vuoto normale… è il vuoto del Verdon! Ricordo dei grandi “viaggi” tra un chiodo e l’altro, ma avevamo tanta voglia di riuscire. I due Giovanni decidono a un certo punto di lasciare Pichenibule e proseguire per Les Rideaux de Gwendal. Il 24 maggio è la volta di Golem, una via un po’ dimenticata ma bellissima. Con Giovanni Rosti e Luca. Anche qui arrampicata spaziale, vuoto proibitivo: con questo nome, Golem, che ci riempie di rispettoso timore. Minaccia che si aggiunge a minaccia.
Il 25 decidiamo per la mitica Triomphe d’Eros,questa volta con Luca e Giovanni Crosta. Eravamo seguiti da una cordata di due spagnoli. Verso la fine di un tiro duro il capocordata arrivò quasi alla sosta visibilmente in difficoltà. Ciò che lo ostacolava non era tanto il passaggio che stava facendo quanto la corda che evidentemente faticava a scorrergli dietro. Lo si vedeva tirare su con la schiena mentre urlava con voce strozzata “Cuerda, cuerda, puta madre!”. Avevamo già iniziato le operazioni per gettargli freneticamente un capo della nostra corda quando evidentemente il secondo riuscì a smollargli la loro e lui si ritrovò sbuffando con noi in sosta. Comunque anche qui, tanto di cappello a Jean-Claude Droyer!
Come potete vedere le salite che facevamo non erano certo rilassanti, erano tutte assai impegnative. La sera a cena ci davamo dentro con il vino e poi con le birre al bar giocando a calcetto con i francesi o con i tedeschi: ma con una insolita moderazione. Così la mattina seguente eravamo sempre pronti a timbrare il cartellino delle grane cui andavamo incontro.
A proposito di tedeschi, non me ne accorsi subito, ma soltanto verso la fine del nostro soggiorno. Al campeggio c’era anche Andreas Kubin, quello che assieme a Helmut Kiene e Reinhard Karl aveva per primo parlato apertamente di settimo grado a proposto della loro Pumprisse, la famosa via del Kaisergebirge di Kiene e Karl. Andreas era di soli cinque anni più giovane di me, ma a quel tempo era stimato capo-redattore della rivista tedesca di alpinismo Der Bergsteiger, con la quale io collaboravo. Per questo eravamo in contatto epistolare e varie volte avevo scritto articoli per loro, oppure fornito fotografie. Insomma, ci stimavamo a vicenda. Perciò fummo ben contenti di conoscerci personalmente dietro a un bel boccale di birra.
Il 26 con Paolo Rosti scegliemmo Rêve de Fer, altro calcio nei denti, e subito dopo Ctuluh, il 27 Virilimité. Mentre il 28 maggio con Giovanni Rosti optammo per una combinazione superba: prima lunghezza di Mangoustine Scatophage, poi una lunghezza di Barjots, poi ancora una lunghezza di Footcroot per chiudere sull’altopiano con Megafoot.
Il 29, come avrebbe certamente detto Forrest Gump, eravamo un po’ stanchini. Ma non faticai a convincere Paolo Rosti che, sia pur con tempo incerto, l’Estemporanée sarebbe stata una via fantastica.
– Capo, ci prendiamo il solito jeu de jackets, no?
– Certo, basta e avanza.
Il francese maccheronico era nel nostro lessico per indicare lo spolverino sedicente impermeabile che ci portavamo dietro in queste avventure. Ma Paolo non era al corrente, al contrario degli altri che invece appunto declinarono l’invito a venire con noi, che l’Estemporanée è una via davvero faticosa, con una lunghezza in particolare data di 6c ma tutta in fessura da risalire con tecnica off-width. A quella via tenevo particolarmente e in quel viaggio in Verdon non avrei mai potuto fare a meno di salirla: il giorno dopo era prevista la partenza nel pomeriggio, così non dissi nulla a Paolo, che odiava le fessure da incastro, e ci incamminammo in quella zona piuttosto remota del Verdon che ospita l’Estemporanée, la Paroi de l’Eycharme. Una volta arrivati, la via di non so più quanti tiri ci apparve in tutta la sua magnificenza: Paolo la guardava con terrore.
– Capo, col cazzo che io vado da primo qui…
Mi sentivo preparato, ero ben allenato e con la testa a posto. La fessurazza mi riuscì molto bene, non la patii altro che per la fatica fisica che richiede. Chapeau a François Guillot! Paolo mi seguì brontolando, ma alla fine era contento anche lui d’aver fatto qualcosa di molto diverso dal solito. In più il jeu de jackets non era servito.
L’ultimo giorno, il 30 maggio, andai con Paolo Rosti su Frimes et Châtiments (sceneggiate e castighi), il cui nome storpia il famoso libro di Fëdor Dostoevskij Delitto e Castigo (in francese Crime et Châtiment): uscimmo per una variante più diretta ma più facile (anche per non essere “castigati” troppo…).
Tornati in Italia, ripresi con i giri per Rock Story. Il 4 giugno andai con Vittorio Neri e Marco Lanzavecchia all’Orecchio del Pachiderma del Caporal, una stupenda via in fessura aperta da Gabriele Beuchod. Dopo una vaga esitazione, mi ritrovai a condurre quella fessura in modo sereno, godendo dei miei movimenti, così diversi dall’arrampicata classica.
Il giorno dopo andai con Vittorio alla più appartata Parete delle Aquile, che salimmo per la via del Plenilunio.
Il 12 giugno andai ad arrampicare con Nella e Alessandra Ferraguti ai Denti della Vecchia vicino a Lugano: con loro ripetei la via del Gran Diedro, che avevo già salito con Ivan Guerini al tempo dei Cento Nuovi Mattini.
Il tempo incerto dei giorni dopo m’impedì di tornare nelle valli piemontesi: così feci una puntata il 19 giugno al Monte Cucco di Finale, per salire con Nella la via degli Allievi e, sempre con lei e tal Michele, la via dell’Alpino con variante diretta.
Il 26 giugno ero con Nella alla Parete dei Falchi per salire la via del Pipistrello, ma fu solo un tentativo.
Nel frattempo continuavo a lavorare come editore, pur scrivendo Rock Story e ogni tanto qualche articolo. Un giorno di fine giugno ricevetti una lettera da Andreas Kubin che mi chiedeva qualcosa per Der Bergsteiger. Naturalmente mi aspettavo che facesse cenno al nostro incontro del Verdon e, in effetti, verso la fine della missiva, lessi più o meno: “volevo anche dirti che sono stato molto contento qualche settimana fa quando ho incontrato in Verdon tuo figlio! Un ragazzo veramente simpatico!”.
Non riuscivo a credere a quello che stavo leggendo. Andreas, di soli cinque anni più giovane di me, riteneva che uno dei suoi miti alpinistici (cioè io) non potesse trovarsi ad arrampicare in Verdon con i “ragazzi” come lui! Pertanto quel Gogna che aveva incontrato doveva per forza essere mio figlio… Certo la lingua diversa non aiuta, forse ci eravamo capiti male… ma avrei voluto vedere la sua faccia quando gli chiarii il suo equivoco.
Anne-Lise finalmente tornò dalla sua spedizione, che si era conclusa purtroppo con un nulla di fatto. Fu con particolare piacere che facemmo assieme Niente più coccole per Bonellino alla Torre Paura dal Cervello (2 luglio), poi un tentativo al Diedro Nanchez del Caporal (3 luglio) e poi ancora la via Gogna-Machetto-Rava allo Scoglio di Mróz (9 luglio), prima di salire in una nebbiosa giornata sulla fantastica via Diretta alla Torre Staccata al Becco di Valsoera (10 luglio).
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Nell’83 uscì anche la prima edizione di Opera vertical, forse il libro fotografico più iconico nel panorama dell’arrampicata, quello che con le sue foto, per l’epoca incredibili, fece sognare moltissimi arrampicatori giovani e meno giovani. Rivedere le stesse vie da angolazioni e con movenze diverse è sempre un piacere per chi ha l’arrampicata nel dna!
Che roccia …..che libidine!!!!!
Si vede che tu ti trovavi male, mentre io con le EB mi sono trovato bene. Chiaro che le successive scarpette comportavano un salto di qualità, ma le EB sono state un “must” fra anni ’70 e primissimi ’80 (per esempio le PA, rosse e nere, non lo erano altrettanto).
Le foto di una lunga sfilza di post fino a questo hanno dimostrato che anche nella banda del Capo tutti indossavano le EB, solo adesso (1983) il Capo sfoggiava le salamandre gialle e nere (nel nostra combriccola di arrampicatori le chiamavamo così).
C’è un detto piemontese che calza a pennello: ogni scarpa ha il so’ piè.
Stammi bene
“EB, peraltro superlative”
Più vuoi fare il ganzo in campi che non ti appartengono e più non ne imbrocchi una, eh… :o)))))
Le EB erano delle rumente micidiali, delle robe cartonate e poco gestibili, che certo hanno favorito il passaggio a nuove modalità ma che credo ben pochi (che ai tempi non scalassero sul IV….) abbiano trovato eccezionali.
In Italia si ebbe un significativo miglioramento con le Asolo Chouinard e poi un balzo con le San Marco Berhault, anche se il suo ispiratore scalava da dio con qualunque cosa ai piedi…
Interessante notare dalle foto che il Capo era già passato alle scarpette San Marco gialle e nere. Il resto della banda pare ancora legato alle EB, peraltro superlative
che tempi e che foto!!!
foto (e tempi) spettacolari…!
E la VW Golf targata Cuneo dietro a Kubin e ragazza?