Riccardo Cassin e Ignazio Piussi raccontati da un giovane che ha incrociato il loro cammino sulle Alpi Giulie negli anni Settanta.
Incontri ravvicinati con la storia dell’alpinismo
di Lucio Cereatti
(pubblicato su In Alto n. 100 – Cronaca della Società Alpina Friulana, 2020)
Nell’agosto del 1970 il Diedro Cozzolino non si chiamava così. E se le cose fossero andate in maniera differente si sarebbe potuto chiamare la “via dei Ragni”, così come ce ne sono tante in altre parti del mondo. Vediamo come e perché.
A quei tempi io ero un alpinista principiante e il 1970 era di fatto la mia prima stagione alpinistica. Una prima settimana in Lavaredo, un’altra in valle a Canazei, con altre salite e relativo brutto tempo, poi mi presi una breve pausa a Chiusaforte, il paese dei miei avi. Infine raggiunsi i miei compagni al raduno estivo della Sucai di Roma al Montenvers. Aggiunsi due vie al mio magro carnet e poi la solita perturbazione, ma anche l’opprimente visione del pilastro del Petit Dru, mi convinsero a salutare la comitiva e tornare a Chiusaforte dove avrei ritrovato la zia (e i suoi minestroni con i “palombs” (1) e soprattutto riposo… mentale.
Si sa che per fare salite impegnative la testa è tutto e la mia reclamava un po’ di relax. Però non andò così: mio cugino Sergio De Monte “becjâr a Scluse” conoscendo le mie ambizioni alpinistiche mi disse: “C’è Cassin con un gruppo di Ragni che stanno facendo un attendamento ai laghi di Fusine, presentati se ti va e poi…” Già “e poi”! Solo a sentire il nome di Riccardo Cassin mi sentivo esitante anche a guardarlo negli occhi, i quali avrei scoperto dopo essere chiari, acuti e sereni: ti scrutavano attentamente cercando di andare oltre ai lineamenti del tuo volto, fino a scoprire la qualità della tua fibra. Così mi immaginavo avrebbe scrutato una parete per disegnare il tracciato ideale.
Il cugino percepì la mia riluttanza: conoscere e magari arrampicare con il grande Cassin… ma no, dai! Era un sogno proibito, una fantasia irrealizzabile.
“Vai” insistette: “Presentati a nome mio: abbiamo cacciato tante volte insieme, l’ho anche ospitato a casa, sarà sicuramente gentile!”.
La caccia, appunto. Cassin aveva due passioni chiaramente manifestate e magistralmente praticate: l’alpinismo e la caccia, ma non so se questo fosse proprio l’ordine giusto. So però che la caccia era quella “nobile”, niente quaglie o fagiani e neppure lepri, ma caprioli o meglio camosci e se capitava forcelli o cedroni (allora era consentito) ma solo per impagliarli: era un modo per farli ammirare anche da chi non avrebbe mai potuto vederli volare liberi. Gli piaceva vivere questa passione, ma sempre rispettando tutte le regole e soprattutto le tradizioni dei valligiani. Pertanto si era iscritto alla riserva di caccia “Johndino e Pietro Nogara” (2) e andava in battuta sempre con i cacciatori locali, anche se poi tra loro c’era anche chi stava ancora decantando un’ancestrale vena di bracconaggio.
Sveglia molto prima dell’alba (ma per lui non era un problema), faticosi avvicinamenti su pendii ripidi e scoscesi (figurarsi se non si divertiva a sfidare i cacciatori locali), mai puntare alle femmine e ai “jocui” (3), un solo colpo in canna e bumm: o la mano era stata ferma o il selvatico era stato fortunato (questo capitava raramente).
Forte di questo viatico arrivai verso sera al lago superiore. L’ambiente apparentemente era simile a quello dei nostri raduni Sucai (4): tendine di varie dimensioni e colori sparpagliate alla ricerca del posto più pianeggiante ed al centro una grossa tenda militare: la mensa e la cucina sociale.
Mi presentai, gli dissi chi ero, che volevo in qualche modo arrampicare e Cassin mi disse: “Cercati un posto per campeggiare e vieni a mangiare”.
Mi affacciai alla tenda e immediatamente mi ritrovai in una mano un piatto colmo e nell’altra una gavetta colma anch’essa ma di vino rosso. Guardai cosa c’era nel piatto – “sono nervetti” – mi disse un tizio che sembrava il cuoco – “li abbiamo fatti noi, sono buonissimi”.
A Testaccio (5) nelle trattorie intorno al mattatoio questa pietanza, insieme alla coda alla vaccinara, alla coratella, alla paiata con i rigatoni, senza dimenticare le animelle fritte, viene denominata il “quinto quarto”. Sono piatti particolarmente apprezzati dai buongustai della cucina romana tradizionale. A me fin da bambino hanno sempre fatto schifo.
Per cui prima mi trastullai con il piatto in mano e poi, pensando che se volevo essere, non dico accolto, ma perlomeno contiguo ai lecchesi dovevo fare onore alla loro offerta, mangiai tutto: un boccone e un sorso di vino, un boccone e un altro sorso di vino, così via fino alla fine. Poi uscii con indifferenza dalla tenda e immediatamente dopo imbrattai il sottobosco della pecceta con una poltiglia color melograno.
Il mattino seguente prima dell’alba fui svegliato da una discussione tutta in dialetto lombardo stretto e per me incomprensibile. Ma il tono non lasciava dubbi, si trattava di un litigio furioso con le voci che diventavano sempre più forti e aspre. Infine le urla cessarono e si udì il rumore di una 500 smarmittata che si allontanava con il motore imballato, seguita poco dopo da una seconda macchina che trasportava probabilmente l’altra coppia di contendenti.
Forse è per questo che il diedro nord del Piccolo Mangart di Coritenza è conosciuto come il Diedro Cozzolino (6).
Uscii dalla tenda e vidi altre cordate che si stavano preparando: l’atmosfera era pesante, ma l’attività continuava. Non era il primo né sarebbe stato l’ultimo combattimento fra i galletti del pollaio.
Cercai Cassin, o forse lui cercò me, per capire che cosa avrei potuto fare. Cassin mi squadrò dal basso in alto e mi chiese che cosa avevo fatto in montagna.
Snocciolai il mio magro curriculum e poi per accreditarmi maggiormente aggiunsi: “l’ultima salita è stato il diedro nord del Peigne, che ha un passaggio di 6°, a cordata alternata”.
“Questa salita non la conosco, aspetta un attimo”.
Si allontanò a confabulare con un alpinista di mezz’età ed io capii subito che sarebbe stato un esame sul quale io non potevo più influire.
Ritornò subito da me e pacatamente disse: “Noi andiamo a fare una via sul versante nord del Jôf Fuart, ma non sappiamo ancora quale e comunque non la conosciamo per cui preferiamo fare cordata con compagni affiatati. Però non te ne andare, domani è in programma una gita e dovrebbe venire Ignazio Piussi, se rimani potremo farla insieme.
Era chiaramente un premio di consolazione, ma io dissimulai la delusione ed accettai ringraziando. In fondo ero stato lì lì dal realizzare un sogno incredibile per un alpinista neofita: fare cordata con Riccardo Cassin, il nume tutelare dell’alpinismo italiano!
Uscii l’indomani in un’alba indefinita: l’unica cosa certa erano le “fumatis” che orlavano i profili delle creste. Partii con un drappello di alpinisti, Cassin era confuso tra loro, per raggiungere l’attacco della Via della Vita, la ferrata che porta sulla Sagherza. “Ignazio ci raggiungerà dopo” fu il laconico commento di Cassin. Io seguivo in coda il gruppo che procedeva ovviamente di conserva, ma osservai con stupore le manovre dell’illustre alpinista: con un cordino alla vita agganciava scrupolosamente il suo moschettone alle corde di sicurezza, peraltro abbastanza logore, della non difficile né troppo esposta via di salita. E fece così anche sulla cresta che seguiva, dove le attrezzature erano ancora più aleatorie e la protezione quasi irrisoria.
Tutti gli altri, me compreso, si muovevano con più baldanza, disdegnando il cavo ed all’occorrenza posando una mano sulla roccia.
Dentro di me cercai una ragione, una giustificazione, anzi elaborai una teoria: “Se è sopravvissuto a tante imprese estreme è forse perché arrampicando ha sempre curato con estrema attenzione la sicurezza nel procedere. Lucio, prendi nota: questa è una lezione che non dovrai mai dimenticare. Non l’hai letta sui manuali di roccia o ascoltata da qualche autorevole istruttore ma dall’esempio concreto del più famoso alpinista vivente”.
Così, ruminando strategie di lunga durata per la mia futura vita alpinistica, arrivammo lì dove la cresta spianava e facemmo sosta per mangiare qualcosa.
Cassin scelse un sasso più piatto degli altri ed io “casualmente” gli sedetti vicino. Lui accettò volentieri una fetta di salame – “buono! Questo è quello di tuo cugino” – ed anche un “tocut” di montasio stagionato al punto giusto.
Poi guardò i miei scarponi con la suola rigida, come si usava negli anni ‘70, e vide che il cordolo che copriva la cucitura penzolava allegramente sopra i punti. Allora tirò fuori dallo zaino un coltellino e tagliò con precisione il lembo scollato. Me lo diede – “conservalo ed alla prima occasione incollalo, così i punti non si bagneranno e gli scarponi dureranno di più”. Parlò semplicemente, senza prosopopea ma con l’autorevolezza di un artigiano esperto. Ciò mi diede modo di aggiungere un secondo comma al mio personale manuale di alpinismo: curare l’efficienza delle attrezzature in maniera meticolosa.
L’escursione anche se facile e mortificata dalle nebbie persistenti si stava rivelando oltremodo fruttuosa.
Mentre stavamo chiudendo i sacchi scorgemmo avanzare tra la nebbia lattiginosa una figura massiccia che procedeva a grandi balzi lungo la cresta frastagliata e ghiaiosa. Era Ignazio Piussi, che come promesso ci stava raggiungendo e sapendo di essere in ritardo forse aveva accelerato un “poco” la sua andatura. Però, nonostante la sua consistente massa, riusciva ad atterrare al suolo senza smuovere nemmeno un sasso, sia che le sue pedule piombassero sulla roccia che sull’insidioso ghiaino. Portava in testa lo stesso cappellaccio moscio di feltro che lo caratterizzava quando bazzicava in paese tra un acquisto e un “tajut” con ognuno dei tanti amici che incontrava. Alla sua vista, fui costretto a cancellare i primi due comandamenti della mie tavole dell’alpinismo: non esisteva un solo modo ortodosso e codificato. L’alpinismo era e restava il regno della libertà: ognuno lo poteva praticare a suo talento.
Riccardo e Ignazio si salutarono affettuosamente, ma con una asciuttezza ancor più friulana che montanara, dando quasi per scontato che l’incontro non avvenisse al bar del Corso ma sulla cresta della Veunza.
Subito cominciò un dialogo infervorato in cui ricordi, avvenimenti, prospettive e progetti (prevalentemente di caccia) si alternavano fluidamente e rispettosamente come gli assoli di un complesso jazz. Io indiscretamente orecchiavo, beandomi di questo colloquio confidenziale e senza troppe censure che apriva uno spiraglio inaspettato per penetrare nel mondo del grande alpinismo. E non era la letteratura, di cui fino ad allora mi ero cibato, ma parole pronunciate con accento dialettale, pause eloquenti, risatine complici e a volte beffarde, accompagnate da una mimica scarna da una parte e sardonica dall’altra. A un certo punto divenni sfacciato, m’incollai ai loro scarponi perché avevo sentito pronunciare dei nomi familiari: quelli di due fra i più prestigiosi personaggi della scuola di alpinismo, della quale l’anno prima ero stato allievo e ora ero aspirante istruttore.
Piussi raccontava, un po’ fuori dai denti, le vicissitudini della spedizione dell’Accademico orientale al Churen Himal, una montagna nel Nepal di 7371 metri. C’erano state delle divergenze sulla scelta del percorso e solamente a tempo quasi scaduto avevano effettuato un tentativo sullo sperone che Ignazio aveva inizialmente proposto. Purtroppo il tempo, sia atmosferico che materiale, non aveva favorito l’ultimo assalto, che però sembrava essere decisamente più promettente.
La narrazione, intima e non ufficiale, mi lasciò intravedere la realtà delle spedizioni, per me ancora avvolte nella retorica delle “eroiche imprese”. Quel giorno non potevo ancora sapere che da lì a poche stagioni avrei conosciuto questa realtà fatta di chiaroscuri direttamente da partecipante.
Non ricordo precisamente come continuò e come terminò la gita: io continuavo a seguirli calamitato dal loro alone splendente che risaltava tra la nebbia che ci avvolgeva tutti quanti.
Non rividi più Cassin, anche se ci sfiorammo abbastanza da vicino. Infatti l’Hercules C130 che portava la spedizione “Sucai75” (alla quale partecipavo) a Rawalpindi nel viaggio di ritorno avrebbe imbarcato anche la spedizione italiana al Lhotse diretta appunto da Cassin con Piussi e i più bei nomi dell’alpinismo italiano tra i partecipanti. Anche la nostra spedizione, come la loro, non raggiunse la vetta, ma qui il parallelo fra le due spedizioni finisce.
Al contrario Piussi lo incontravo abbastanza spesso a Chiusaforte, mentre faceva rifornimenti per il ristoro che gestiva a malga Cregnedul bassa. Era il suo ritorno “in valle” da dove era partito tanti anni prima ma che non aveva mai veramente abbandonata, e che ora aveva ritrovato per una maturità casalinga ma laboriosa, necessaria per sopravvivere. L’alpinismo si sa è una passione che economicamente rende poco.
Erano passati alcuni decenni da quel primo incontro, il mio carnet alpinistico, pur senza punte esaltanti, si era rimpolpato e prima di sigillarlo feci ancora qualche salita sulle montagne di casa, che fino ad allora avevo abbastanza trascurato. Mi era compagno Renzo Bragantini, un sucaino mio coetaneo che allora insegnava all’Università di Udine. Volendo chiudere con una birra la bella giornata di roccia gli dissi: “Renzo adesso ti farò incontrare un grande alpinista”.
Conoscendo la sua smisurata passione per la montagna e i suoi personaggi, sapevo che lo avrei sorpreso.
Ci fermammo a Cregnedul e Ignazio era lì, solo, e ci accolse come avrebbe accolto degli anonimi turisti agostani, cortese ma impersonale anzi, posso dirlo, quasi burbero.
“Siamo alpinisti romani” mi presentai. Ci guardò con un po’ più di interesse e ci chiese se conoscevamo Carlo Alberto Pinelli: “Siamo amici, abbiamo fatto un documentario insieme”. A questo punto ci porse la mano che noi stringemmo con una certa riverenza. Le sue mani erano enormi, con dita possenti anche se una certa rigidità non poteva non rimandare al pensiero dell’immenso lavoro che avevano svolto.
Cercando di depurare il mio accento romanesco gli dissi: “Ma io sono originario di Chiusaforte, sono il cugino di Sergio De Monte e inoltre a Roma ero coinquilino di Martina dei Piani”.
“Ah il fradi dal Min Rus, o sin lâts a cjâce un grum di voltis”.
Nella mia fantasia di emigrante di seconda generazione mi sono sempre rappresentato la comunità paesana simile a quelle grottesche barocche spesso presenti nelle ville nobiliari. Però dalle volte invece delle stalattiti pendono tutte le famiglie, sia del capoluogo sia delle frazioni, con i loro capostipiti, i rispettivi patronimici, spesso sostituiti dai soprannomi, e con tutte le ramificazioni parentali, ma anche di classe, di età intesa nel senso di “coscritti”. A ogni famiglia la sua nicchia, in una collocazione spazio-temporale che tramite molteplici sinapsi rende possibile la navigazione nel complesso “network” paesano.
Ormai intassellato nel mosaico locale, diventai baldanzoso e volli conversare in friulano usando il mio accento di “foresto”.
“Gno pari alè rivât a Rome clamât dal Toni dal Cjanal cha’alè stât il prin a lassâ il pais par lâ a vore”.
“Eh no! Il prin l’è stât gno barbe, ma alè muart cunt’une curtissade a Frascati” precisò il Piussi.
Fu come precipitare nel paiolo della polenta, in cui un mestolo mosso da una mano invisibile mescolava insieme alla mia vita di alpinista le mie origini: mio padre con la sua vita greve di operaio edile, la sua soffitta di via Baccina spartita con i compaesani che la notte dopo le scuole serali doveva raggiungere schivando le “puncicate” (7) dei bulli monticiani (8). E ancora le riunioni domenicali di friulani, parenti ed amici (Min Rus e so fradi Toni compresi) all’osteria davanti a una foietta (9) di bianco di Marino, pausa festiva dopo una settimana di lavoro.
Dentro “le calderie” si erano mescolate la mia storia personale con i flussi storici degli emigranti in cerca di lavoro; lo spirito di avventura da una parte e la fuga dalla miseria dall’altra. Generazioni diverse si riscoprivano in quegli stessi luoghi da cui erano partite.
Arrivarono altri avventori. Piussi ci salutò e, allontanandosi, richiuse quella porta sul passato che avevamo fortuitamente dischiuso. Intanto su malga Cregnedul rimbalzavano i riflessi del sole che imporporavano la parete del Poviz.
Note
(1) Pregiata varietà locale di fagioli.
(2) Riserva di caccia locale intitolata ad un caduto in montagna.
(3) Termine dialettale per indicare i giovani esemplari di ungulati.
(4) Sottosezione Universitaria del CAI.
(5) Quartiere romano molto popolare.
(6) Infatti il forte alpinista triestino, forse consapevole che era un obiettivo desiderato, non volle correre altri rischi e lo attaccò e superò circa un mese dopo.
(7) Coltellata, evento non infrequente in quegli anni, come abbiamo già visto.
(8) Monti è un rione di Roma, dove sorgeva l’antica Suburra, all’inizio del ’900 piuttosto malfamato, ora abbastanza trendy.
(9) Corrisponde al “tajut” friulano: cambia solo la quantità, quella della foietta è mezzo litro.
Lucio Cereatti È nato a Roma nel 1946 da genitori friulani. Alpinisticamente ha esordito nel 1958 salendo il Canin per la “via delle cenge”. A Roma è stato istruttore della Scuola Paolo Consiglio fino al 1988. Nel 1975 ha partecipato a una spedizione nel Karakorum e nel 1986 nella Cordillera Blanca. È insegnante di educazione fisica, psicologo dello sport alla Scuola del Coni ed è stato docente di Psicologia dell’età evolutiva nella facoltà di attività motorie di Gemona. Trascorre le vacanze a Chiusaforte nella casa avita dividendo equamente le escursioni tra Carniche e Giulie.
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Ho conosciuto anch’io personalmente piussi a malga cragnedul poco tempo prima della fine del suo viaggio. Non potrò mai dimenticare. Era come un gigante pacato e buono con quelle mani gigantesche, il vestito di velluto e il cappello con la piuma del gallo di montagna. Aveva gli occhi un po’ acquosi forse per qualche ombra di troppo ma era sereno e felice per la vita piena che aveva vissuto.
Dall’articolo di Lucio Cereatti emerge l’ammirazione per una persona speciale e l’attrazione per gli sport estremi che probabilmente hanno ispirato la concretizzazione, nelle propria vita, degli alti valori della montagna.
Sento in queste parole il respiro di un’umanesimo che si è voluto dilapidare. Non era performante. Non rispettava il protocollo dei costi/benefici.
Sento che sono pensieri, parole, osservazioni che portano in sé il legame con il profondo dal quale veniamo.
In esse non v’è traccia d’individualismo, d’interesse personale. Non c’è traccia di quel modo profano che viene dal credersi possessori della vita, che invece soltanto rappresentiamo.
Vedo cosa, in nome del progresso è stato, è e sarà compiuto.
Che bel regalo ha portato l epifania; un racconto intimo , profondo e dai sapori forti e unici che pochi sanno trasferire.
Grazie
Io forse sono di “parte”, ma ho trovato questo racconto di avventure minori intimo ed evocativo. Fugaci immagini, pensieri e ricordi che raccontano la passione per la montagna attraverso chi ne ha fatto la storia. Grazie.
Articolo che ho trovato meraviglioso. Un po’ come quello di ieri, anche se per motivi diversi. Grazie.