Indagine sul crollo della Torre Re Alberto
di Giuseppe Popi Miotti
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Quello che le moderne cronache di arrampicata e alpinismo quasi sempre dimenticano è il valore dei grandi scalatori del passato.
Presi in un vortice di spettacolarizzazione e performance ai massimi livelli, magari con esempi diseducativi, i media ci consegnano un’immagine a volte distorta e parziale dell’arte di scalare pareti e montagne.
Questo mio racconto è il nucleo di base per un romanzo giallo che ovviamente non avrebbe potuto trovare spazio su queste pagine.
È una narrazione serrata, che vuole portare l’attenzione proprio su quanto appena detto e sulla memoria corta, spesso premeditata e funzionale, con cui guardiamo al passato tentando di evitare il confronto; in ultima analisi anche quello con noi stessi.
Si parte da un fatto realmente accaduto, quello della prima salita alla Torre Re Alberto (6 ottobre 1933) sul cui monolite sommitale Giusto Gervasutti superò forse il più difficile passaggio della sua vita, una placca compatta dove cadere è vietato, pena un volo di alcune decine di metri. Un passaggio che ancor oggi, proprio poiché non proteggibile con chiodi o altri attrezzi, è un bel test di abilità e coraggio.
La Torre meridionale del Cameraccio domina la Val di Mello. Alla sua sinistra la monolitica vetta quadrangolare è la Torre Re Alberto. Dedicata a Alberto I del Belgio, compagno di cordata di Bonacossa in tante ascensioni
Da molto tempo possiedo i carteggi e la biblioteca di Paul Walter Parravicini, avuti in dono da un suo parente che cercava il modo di liberare le stanze che li custodivano per far spazio alle sue necessità abitative.
Fortunatamente, prima che costui mandasse al macero quella preziosa montagna di carta, fui avvisato e bastarono pochi minuti di trattativa per salvare libri e documenti al solo patto che provvedessi a mie spese al loro trasferimento.
Ridata dignità alla collezione, mi sono imbattuto nel breve diario di un’indagine che Parravicini condusse in una delle più remote valli di quello che un tempo era noto come Gruppo del Masino, in seguito al misterioso crollo della cuspide di un’imponente torre granitica.
Mi decido solo oggi a pubblicare quelle righe per dare risposta alla domanda che l’autore pose al termine del suo scritto e alla quale forse riuscì a trovare soluzione senza poterne dare pubblica resa. Tutto ciò si deve anche al sussulto di pentimento che, pochi giorni fa, moltissimi anni dopo gli eventi narrati nel diario, ha colto, in punto di morte, chi ordì la sciagurata trama. Di seguito ecco cosa scrisse lo sfortunato investigatore.
«Mi chiamo Paul Walter Parravicini, supervisore per l’arrampicata del CAAI, (Centro Attività Alpina Italiano), distaccato all’Area Retica Meridionale (ARM), numero di tessera 7593D. I due nomi che porto sono quelli di altrettanti antenati che hanno ricoperto il mio stesso grado e che furono battezzati così in ricordo di grandi scalatori di cui si favoleggiava l’esistenza in epoche diventate leggendarie e perse nelle nebbie di un passato di cui restano poche incerte tracce.
Questo è un primo resoconto della missione affidatami dal presidente Bonfanti VI, un incarico delicato e segreto da cui, come mi è stato spiegato, può dipendere persino il futuro del Progetto Ritorno alle Origini (PRO); uno dei tanti con cui l’umanità cerca di rinascere dopo la Grande Guerra Ecologica Totale del 2393, nota anche come Guerra Definitiva. Più che di una guerra si trattò di una serie di guerre, innescate con gli alibi più diversi, da quelli religiosi a quelli di civiltà, ma in vero tutte originate dalla sovrappopolazione globale e dall’esaurimento delle risorse vitali.
L’inizio di questa catena di conflitti aveva origini remotissime, che gli studiosi più accreditati facevano risalire al giorno 11 settembre 2001. In quella data si verificò un gigantesco attentato terroristico nel luogo dove oggi sorge il porticciolo di Newnewyork, località occupata allora da una delle maggiori capitali del Globo, poi sommersa dai flutti oceanici innalzatisi di ben 30 metri causa il totale scioglimento delle calotte di ghiaccio che coprivano una terra chiamata Groenlandia e la regione polare australe.
Dopo quell’infausta data, sebbene in maniera discontinua nel tempo e nello spazio, l’economia mondiale rallentò inesorabilmente.
Solo alcune aree meno progredite, come America meridionale ed Estremo Oriente, si mantennero in espansione per qualche secolo ancora, colmando il divario che le separava da terre più fiorenti che per prime subirono lo shock dell’attentato.
Sicuramente più ‘stanche’ dopo una corsa durata quasi 300 anni, Europa e America del Nord precipitarono in un lento declino.
Quando tutto infine si arrestò, per l’umanità ebbe inizio una lunghissima fase di ripensamento e meditazione, sebbene ostacolata da potenti forze che propugnavano un improbabile ritorno al passato, cercando di scaricare sui fenomeni naturali tutte le responsabilità del disastro. Questi agenti, costituiti dalle maggiori religioni alleate alle decadenti, ma ancora potentissime Società Multinazionali, seppero instaurare un vero clima di terrore, nei confronti della natura.
L’operazione riuscì così bene che, per alcuni secoli, i pochi sopravvissuti alle guerre furono convinti a rinchiudersi dentro mura impenetrabili, erette, si disse, per tenere l’umanità in sicurezza, al riparo dal contagio di ogni possibile patogeno naturale. Inevitabilmente questa pazzesca linea di condotta portò a un progressivo degrado genetico che si fece evidente con la nascita dei primi mutanti, frutto di quel modo di vivere circoscritto e privo di stimoli.
La Torre Re Alberto da ovest. A ds è l’itinerario dei primi salitori, a sinstra quello di Marco Zappa e Rino Zocchi, 4 novembre 1966 (quinta ascensione della torre)
Il punto più oscuro è però sempre padre di un ritorno alla luce, che si manifestò con il sorgere della Nuova Fede, una filosofia più che una religione, costruita sul rinnovamento spirituale e su un cambio di atteggiamento dell’umanità nei confronti della Terra.
Perché ormai anche i più scettici dovevano ammettere che non alla natura si doveva imputare il disastro, ma all’insipienza, alla violenza e all’arroganza dell’uomo in un subdolo mix di fattori degenerativi che, presi separatamente, sembravano poter essere controllati.
All’esplodere ricorrente di una crisi corrispondeva l’impennarsi dell’interesse mediatico, l’istituzione di commissioni, di studi, di tavole rotonde. Sprecavano il loro fiato, politici, psicologi, sociologi, uomini di fede; si mobilitavano le masse con manifestazioni e proteste, ma poi, sopito l’attimo emotivo, tutto tornava come prima.
Il compito del CAAI all’interno del PRO è quello di favorire il ritorno dell’uomo alle attività ludico-sportive della montagna, compresa la scalata. Allo scopo, nel 2512, fu riaperta, a pochi selezionati elementi, la biblioteca conservata al 422° piano del ‘Palazzo CAAI’, imponente edificio sovrastato da una gigantesca aquila di tubi al neon le cui ali, con abile gioco di acceso-spento, simulano il movimento, facendola sembrare in procinto di strappare la torre dal suolo. Purtroppo ciò che si conserva in quei locali è il pallidissimo ricordo dei tempi in cui esisteva una fiorente bibliografia sulle montagne. Parte di tale letteratura iniziò sicuramente a deperire e a disperdersi già prima del grande attentato del 2001, con l’imporsi della tecnologia digitale e dei calcolatori elettronici che, a quanto pare, erano a disposizione di tutti e avevano dimensioni inversamente proporzionali alle loro stratosferiche capacità di elaborazione.
Un altro duro colpo giunse con l’avvento di Internet, una meravigliosa forma di comunicazione globale che consentiva lo scambio libero delle informazioni via computer e che ancor oggi non siamo riusciti a ripristinare.
Tuttavia le opere su carta resistettero ancora per lunghi anni, sempre meno consultate e sempre minacciate; come dimenticare il periodo dei grandi e indiscriminati roghi pubblici, del 2120?
L’interpretazione degli antichi testi sopravvissuti a tale rovina, unita ad anni di applicazione pratica delle tecniche di scalata e alla necessaria rinascita di una tecnologia dei materiali, ha portato, pochi anni or sono, alla formazione dei primi nuclei di giovani arrampicatori che ben presto sono cresciuti di numero, iniziando la riesplorazione dei monti. E qui entro in gioco io e la vicenda sulla quale sono stato incaricato di indagare dal presidente in persona. Il primo a parlarne è stato Sem Mazzucchi, il potentissimo capo delle SAG (Squadre di Arrampicata Giovanile).
Fu lui, tempo fa, a riferire al Gran Consiglio Centrale che nel settore centrale dell’ARM si era verificato un fatto strano: la scomparsa dell’intero tratto sommitale di una torre granitica che in alcuni frammenti di guide alpinistiche è chiamata Torre Re Alberto. In sé l’evento non sarebbe stato particolarmente cruciale: le montagne crollano da sempre. Quello che lo rendeva inquietante era la denuncia partita dal Gruppo Liberi Scalatori (GLS), individui anarchici e senza regole che propongono un tipo di arrampicata svincolato da norme e regolamenti; un gruppo considerato di notevole pericolosità sociale vista la presa e la fascinazione che le loro teorie hanno sui giovani. Sulle loro riviste e poi su giornali e tv, alcuni del GLS hanno insinuato il dubbio che il crollo della Torre Re Alberto non fosse dovuto a cause naturali.
Poiché il fatto, se vero, avrebbe potuto prestarsi a facili strumentalizzazioni da parte dei nemici del PRO e creare le premesse per un movimento di restaurazione, cosa che il Governo Mondiale paventava più di ogni altra, Bonfanti mi incaricò di un’indagine discreta ma minuziosissima e per il difficile compito cominciai proprio dal Mazzucchi. In un lungo colloquio, costui spiegò che un gruppo di giovani arrampicatori aveva riferito come, nel tentare la salita della Torre, si fossero trovati sulla cresta terminale, al cospetto del… vuoto: il monolite della vetta era sparito. Mazzucchi si era mostrato molto costernato, aggiungendo che i suoi adepti erano giunti lassù sulla scorta di vaghe informazioni raccolte su frammenti di vecchi testi e presso le popolazioni locali che facevano pensare a una precedente antica via di salita. “Tutte fandonie naturalmente – mi disse – figuriamoci se c’è da credere a quei montanari”. A confutare le sue affermazioni, su una delle poche pagine sopravvissute di un’antica guida, forse la stessa consultata dai giovani, avevo però trovato un disegno che mostrava chiaramente il blocco sommitale scomparso. Sebbene quasi illeggibile, pareva che sopra vi fosse un tracciato indicante il percorso verso la vetta: qualcosa mi diceva che Mazzucchi fosse al corrente di ben altro. Senza troppo successo fu anche l’interrogatorio di quelli che scoprirono il disastro: non mi seppero dire nulla più di quanto già non sapessi. Durante un primo tentativo la loro scalata si era fermata sotto il monolito finale. Il granito era troppo compatto per essere scalato in sicurezza: non si potevano piantare chiodi nelle fessure, né si poteva lanciare un laccio di corda. “Eppure – mi disse con fare circospetto uno dei ragazzi – sembrava che in cima alla Torre sporgesse qualcosa di simile a un anello di corda”. “Abbiamo fatto un’accurata relazione al signor Mazzucchi – disse un altro – e abbiamo anche ipotizzato che in tempi remoti qualcuno potesse essere veramente riuscito a salire dove noi con le nostre tecniche e tecnologie abbiamo fallito”. Tornati alcuni mesi dopo più decisi e pronti anche a perforare la roccia pur di passare, gli scalatori avevano constatato il crollo ed erano tornati alla base senza fare altre ricerche.
Per giungere a capo del mistero non restava che fare un sopralluogo diretto sul teatro del misfatto.
Mi documentai frugando fra i testi della biblioteca di famiglia, modestamente una delle maggiori sul tema delle scalate e delle montagne ancora esistenti, sfuggita miracolosamente ai roghi del passato e certamente più ricca di quella del CAAI. Fra i preziosi testi trovai uno scritto del conte Aldo Bonacossa che narrava la prima ascensione alla Torre, sostenendo che lassù il suo compagno, Giusto Gervasutti, aveva superato il passaggio più difficile della sua carriera.
I frammenti di cui disponevo erano sufficienti per chiarirmi i tempi e i modi con cui era stata condotta la salita. Trovata poi una vecchia carta topografica dei luoghi, mi attrezzai e partii verso le montagne del Masino alla ricerca della Torre. Vi risparmio il resoconto del viaggio, che fu uno dei più disagevoli e avventurosi della mia vita. Finalmente ecco la Vallemello, pianeggiante solco sovrastato da imponenti pilastri di granito; qui salutai il capo della spedizione alpinistica che da alcuni mesi stava cercando di superare la fessura di quello che era anticamente chiamato ‘Precipizio degli Asteroidi’. Il gruppo di testa era giunto quasi alla radice del tetto finale trovando anche alcuni reperti storici: dei pezzi di corda, dei chiodi e degli strani blocchetti di alluminio. Più avanti, entrammo nella valle laterale, dove sorgeva la Torre. Salendo e sudando, sbuffando per cercare di tenere il passo della mia guida, ripensavo alle parole del Bonacossa e ai suoi bivacchi in queste zone, spesso sotto un sasso, in lotta con le pecore disturbate nei loro fetenti recessi “… che mai Augia ripulì”. Poche ore dopo, proprio come Bonacossa, trovammo un misero ricovero di pastori. La sporcizia regnava ovunque.
Chiedemmo ospitalità e, vinta l’iniziale diffidenza, gli alpigiani si ammorbidirono offrendoci un giaciglio, latte, polenta e formaggio, generosità che noi ricambiammo aprendo una bottiglia di grappa.
Passai la notte rigirandomi sullo scomodo e umido pagliericcio in un pesante dormiveglia. Mi girava la testa. Il liquore? La stanchezza? O era quella vicenda che stava prendendomi la mano diventando fin troppo misteriosa? Nei suoi scritti Bonacossa narrava che già aveva tentato la Torre con un tal Hans Steger e la signorina Nini Pietrasanta, ma il repulsivo muro che precedeva la cima li aveva respinti.
Un anno dopo era tornato con Gervasutti, invero non troppo convinto sulla determinazione del nuovo compagno. Giunti alla base della monolitica placca finale: “La osservammo attentamente. Dalla base al sommo il largo muro era proprio tagliato a picco, senza la più piccola fessura… ci legammo alle due corde e via… Gervasutti partì, salì ancora alquanto accanto allo spigolone, poi intraprese la traversata del muro. Sempre più lento, da un minuscolo appoggio all’altro, finché si fermò… Disse che non c’era possibilità alcuna di piantare nemmeno un chiodino…
Fosse volato avrei solo fatto in tempo a recuperare tutt’al più qualche metro di corda prima che egli fosse andato a sfracellarsi sulle dentellature della cresta… Mi chiese cosa fare ed io non potei dirgli altro che ‘Decidi tu’. Non ho mai dimenticato, pur dopo tanti anni, la sua espressione in quel momento. Un accenno di pallido sorriso forse più per far coraggio a me che non a se stesso: ma fugace, melanconico, quasi triste. Così fu forse l’ultimo lieve sorriso terreno del grande mio amico Paul Preuss… Ma il gesto fu forse più rapido del pensiero: Giusto aveva allungato un piede fino a una rugosità per me invisibile; iniziata da quella un’enorme spaccata con le mani solo appoggiate alla roccia si era lasciato andare in avanti come se cadesse: ma no! Con le dita di una mano si era spasmodicamente aggrappato a un appiglio che era stato la sua salvezza e la nostra vittoria”.
Un’alba fredda e cristallina ci risvegliò, mentre il sole inondava man mano di luce le vertiginose pareti della valle. Ancora intirizziti, partimmo alla volta del canale che porta in cresta. Fortunatamente possedevo una vaga descrizione tecnica dell’ascensione e lo schizzo di cui ho detto: fu dunque facile orientarmi. I raggi del sole mattutino sfioravano le merlature granitiche del crinale mettendo in risalto la rosea ferita di granito nuovo che segnava il punto dove era la cuspide.
In quel mentre la guida mi fece notare una striscia più chiara che solcava la parete sottostante e che si rivelò essere il segno di una frana. Là sotto c’era probabilmente quel che restava della Torre.
Quasi correndo raggiungemmo un bellissimo ripiano erboso aspettandoci chissà quale scempio di frantumi e invece… di fronte a noi, piantato nel prato, troneggiava il monolito sommitale, intatto e purissimo, come un cristallo. Rispetto a quanto potevo ricordare dal disegno che corredava la relazione, mancava solo il piccolo blocco terminale che doveva essersi rotto nel pauroso salto. Probabilmente il gigante di roccia doveva la sua incolumità alla dura neve primaverile su cui era atterrato e che aveva attutito l’urto, depositandolo dolcemente dove ora svettava. Con circospezione, quasi con riverenza ci avvicinammo al reperto, scrutandolo, analizzandolo, aggirandolo e palpandolo. Al suo piede scoprimmo, in più punti, diversi fori da mina. Non c’era dubbio, qualcuno aveva deliberatamente tentato di distruggere la Torre; ma chi? Chi poteva aver interesse a questo gesto distruttivo? Mi stava quasi venendo da piangere al pensiero di tanta calcolata perfidia, ma l’idea che in fin dei conti il blocco era salvo mi consolò. Adagio ci sedemmo sull’erba e nel silenzio perfetto di quei monti mangiammo qualcosa meditabondi. Solo dopo qualche tempo, muovendomi con ossequioso rispetto, osai portarmi di nuovo presso il monolito. Accarezzandone la ruvida scorza, infilai le scarpette d’arrampicata e pensando a Gervasutti, percorsi quei metri solenni, cercando di trovare le stesse asperità utilizzate dal grande scalatore. Faticai non poco sul passaggio chiave, ma la mancanza di altezza lo aveva reso più percorribile; in vetta, un vecchio chiodo e un cordino di canapa ormai polverizzato confermavano la versione dei ragazzi e al tempo stesso erano la prova decisiva sulla veridicità della prima ascensione.
Verso sera scendemmo a valle, la rosea ferita sul crinale della cresta si era fatta rosso sangue: la mia missione, che credevo potesse concludersi con quel sopralluogo, comincia solo ora. Chi ha cercato di distruggere la Torre Re Alberto e il passaggio più difficile della carriera alpinistica di Gervasutti? E perché?».
Via nuova sulla Punta Meridionale del Cameraccio e traversata fino alla Torre Re Alberto, con la placca finale dove Gervasutti superò il passaggio più difficile della sua carriera. Lorenzo Pala Lanfranchi e Gian Luca Maspes, 17 giugno 2000 – Grazie a Gian Luca Maspes e http://masinoclimbing.blogspot.it/
Il diario termina qui. Sappiamo che poco dopo il suo autore perse la vita precipitando da una parete rocciosa e che la sua morte fu attribuita a suicidio, motivato, si disse, dal fatto di non essere riuscito a completare l’indagine. Le recenti rivelazioni hanno invece fatto luce sulla reale dinamica degli eventi che in breve vi riferisco.
Nei mesi successivi la scoperta, Paul Walter condusse serrate ricerche che, lungi dal portare verso eventuali gruppi di oppositori al PRO, nostalgici del periodo oscuro, puntavano direttamente nei corridoi del CAAI e in particolare proprio negli uffici delle SAG. Sebbene ignorato dai vertici del CAAI, ai quali aveva rivelato le sue intuizioni, il fiuto dell’investigatore non mentiva. Il tentativo di cancellare la porzione sommitale della Torre fu, infatti, progettato dallo stesso Sem Mazzucchi con la complicità di alcuni giovani arrampicatori. Visti frustrati i tentativi di superare il passaggio e consci che quel chiodo con cordino, vecchio di quasi seicento anni, provava l’avvenuta salita, decisero che non si poteva permettere la sopravvivenza di una simile testimonianza di audacia e di perizia: avrebbe sminuito il valore dei nuovi scalatori. Sarebbe stata una perdita enorme di prestigio e sicuramente anche di potere.
Per fortuna, il tentativo fallì. Resta un mistero il perché, dopo il crollo del monolito, non si liberarono di quel chiodo, ora alla portata di tutti; forse nella concitazione del momento se ne dimenticarono o forse, incalzati dall’immediata denuncia dei Liberi Scalatori che fece scattare l’indagine, non riuscirono a tornare sul luogo del misfatto prima di Parravicini.
Resosi conto che, presto o tardi, sarebbe stato scoperto e denunciato, Mazzucchi e i suoi complici invitarono Paul Walter a una scalata di allenamento e, una volta in parete, fu lo stesso capo delle SAG, come da lui confessato, a gettare il poveretto nel vuoto.
CONTE ALDO BONACOSSA (Vigevano, 1885 – Milano, 1975) Membro di molte associazioni legate alla montagna e fondatore della “Federazione Italiana Sport Invernali”, Bonacossa collaborò alla stesura della parte dedicata al Bernina, nella guida Alpi Retiche occidentali (1911) e nel 1915 fu autore della guida dell’Ortles. Il suo capolavoro resta però, Masino-Bregaglia Disgrazia per la collana Guida dei Monti d’Italia CAI-TCI (1936). Cominciò le sue scalate nel gruppo del Monte Rosa; ma come scrisse: «… il mio pensiero corre reverente alla memoria di Christian Klucker, mio primo maestro su ghiaccio, e di Bortolo Sertori, mio primo maestro sul granito di Val Masino». Da queste guide egli non apprese solo le tecniche, ma l’istinto per la montagna e per la ricerca della via. Compagno di cordata di personaggi illustri come Re Alberto I del Belgio e del Duca Amedeo d’Aosta, Bonacossa si legò ai più famosi alpinisti fra cui Paul Preuss, Tita Piaz, Piero Ghiglione, Giusto Gervasutti.
Non c’è angolo delle Alpi che il conte abbia trascurato, collezionando un incredibile numero di salite e aprendo circa 470 nuove vie.
Berger Ruth, curatrice: Aldo Bonacossa una vita per la montagna – Raccolta di scritti alpinistici; Tamari editori, Bologna, 1980 (edizione fuori commercio)
Giusto Gervasutti e Paolo Bollini Della Predosa al rifugio Gonella, di ritorno dalla parete sud del Monte Bianco, 14 agosto 1940
GIUSTO GERVASUTTI (Cervignano del Friuli, 1909 – Mont Blanc du Tacul, 1946) Giusto Gervasutti, detto “Il Fortissimo”, appartiene a quel folto gruppo di scalatori che sul fi nire degli anni ‘30 diedero all’Italia il primato assoluto nell’alpinismo. Friulano di nascita, ma torinese di adozione, Gervasutti seppe esprimersi al meglio su ogni terreno; alpinista raffi nato ed esigente, sapeva scegliere i suoi obiettivi secondo canoni che univano gusto estetico, diffi coltà e collocazione ambientale, prediligendo le pareti più remote. In Val Masino salì il complesso spigolo meridionale della Punta Allievi, oggi una grande classica, e poi la Torre Re Alberto dove, a detta di Bonacossa, egli aprì il più diffi cile passaggio della sua carriera.
Le maggiori imprese, Gervasutti le compì però nei massicci del Delfi nato e del Monte Bianco, risolvendo alcuni dei più diffi cili problemi alpinistici del suo tempo. Le alte pareti Nord-ovest del Pic d’Olan e dell’Ailefroide, nel Delfi nato; il Pilone di destra del Freney, la parete Sud-ovest del Picco Guglielmina, la remota e compatta parete Est delle Grandes Jorasses, sul Monte Bianco. Ai suoi occhi restava forse un ultimo evidentissimo e meraviglioso obiettivo: il lineare pilastro, che oggi porta il suo nome, sulla parete Nord-est del Mont Blanc du Tacul. Un errore durante la ritirata da un tentativo a questa splendida salita gli fu fatale.
Gervasutti Giusto: Scalate nelle Alpi; CDA & Vivalda, Torino, 2005
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