Intervista a Lars Hochmann
(hacking delle organizzazioni)
di Karl-Ludwig Schibel
(pubblicato su toblachconference.wordpress.com, luglio 2024)
Cosa intendi per “hacking delle organizzazioni”?
Il termine stesso è il titolo di un libro e il contesto è relativamente semplice. Da un lato, le organizzazioni garantiscono l’approvvigionamento della società e, dall’altro, producono crisi corrispondenti. Le crisi del nostro tempo sono tanto persistenti dato che non accadono spontaneamente, ma perché noi contribuiamo attivamente a organizzarle. Parliamo di inquinamento organizzato, sovrasfruttamento organizzato, povertà organizzata, catastrofe climatica organizzata, distruzione organizzata della biodiversità, razzismo, classismo, sessismo e così via. Questi fenomeni non sono l’eccezione, ma la regola. Ci siamo quindi chiesti: perché è così?
E perché?
Se guardiamo alle diverse teorie sociali, possiamo trovare in tutte un elemento di regolarità. Può trattarsi di leggi, ma spesso si tratta più di accordi taciti, di sistemi di regole accettati collettivamente. Se, come nell’interazionismo simbolico di Erving Goffman, tutti recitiamo a teatro, allora ci si chiede chi effettivamente scriva il copione, o come lo scriviamo nella performance dello spettacolo stesso. In tutte le teorie sociali, ci imbattiamo ripetutamente nella figura che il sociale si svolge in schemi, e questi schemi si basano su regole esplicite e implicite, che per la maggior parte non ci siamo dati. Questo è antidemocratico da un lato, ma soprattutto dannoso alla luce delle crisi attuali. Abbiamo urgentemente bisogno di riorganizzare il nostro modo di vivere insieme. Ma da dove dovrebbero venire queste regole? Nel nostro libro abbiamo cercato di trovare una contro-narrazione alla “marcia attraverso le istituzioni”, un principio guida del movimento degli anni Sessanta. Ci ricorda un po’ la “casa che rende folli” e la ricerca del lasciapassare A38 da parte di Asterix e Obelix. Cercando questo lasciapassare vengono mandati da un posto all’altro e, poco prima di impazzire, applicano la logica del sistema alla trasformazione del sistema, e poi improvvisamente impazziscono i funzionari, e alla fine ottengono il loro lasciapassare A38.
Io e Sebastian Möller, con cui ho coeditato il libro, ci siamo chiesti se la teoria della trasformazione attraverso le istituzioni fosse effettivamente realistica. È ancora convincente alla luce della pressione temporale nell’affrontare la crisi climatica e che diventerà sempre più grande a causa di processi esponenziali, dove le misure necessarie dovranno essere sempre più drastiche? La riforma del sistema educativo, per esempio, partirà dalla Conferenza dei Ministri dell’Istruzione, e quanto tempo ci vorrà perché arrivi nelle aule scolastiche? Probabilmente mezzo secolo. Oppure quale sarebbe l’ordine di grandezza realistico per attraversare il Ministero dell’Istruzione e del Merito, la Commissione Istruzione, le Regioni, per arrivare ai programmi di formazione universitari, per essere studiati e poi applicati nelle scuole? Per gli insegnanti trovarsi in una situazione in cui possono davvero fare la differenza? Mezzo secolo sembra abbastanza realistico per questa marcia attraverso le istituzioni.
Tempo che non abbiamo nelle crisi attuali.
Crisi che, come sappiamo, stanno diventando sempre più intense e per le quali ci si chiede se le nostre istituzioni siano effettivamente in grado di sviluppare un approccio adeguato alle sfide del nostro tempo.
Tu usi il termine “hacking” per il suo approccio alternativo. Perché non parli di “pratica creativa” o di “trasformazione”?
Il termine è un’analogia del settore informatico. Nel nostro caso, non si tratta di penetrare nei sistemi informatici, ma piuttosto nei sistemi sociali, in luoghi in cui ciò non è previsto. L’hacking è più un’intuizione terminologica che una metafora dei concetti. Più riusciamo a visualizzare qualcosa, più è facile che un’immagine guidi le nostre azioni. Chiediamoci semplicemente quali associazioni abbiamo; non solo noi studiosi, ma anche chi lavora in contesti concreti. Quali associazioni abbiamo con “trasformazione” o “conversione”? Che cosa ha a che fare con me, con la mia vita, con i miei compagni? Il concetto di hacking può essere associato a un design coraggioso, un po’ sfacciato, un po’ ammiccante, non così accanito, abbastanza sicuro di sé, anche con un atteggiamento sportivo e allo stesso tempo investigativo. Il termine rende possibile tutto questo, a differenza del concetto vago e latentemente meccanicistico di “trasformazione”. “Hacking” crea un quadro di pensiero diverso. Dove trovo un accesso creativo per entrare in un sistema sociale? Non certo seguendo i cartelli, qui torneremmo alla marcia attraverso le istituzioni, ma trovando nuove porte impreviste, il tutto come uno sport di squadra in cui ci si lancia la palla l’un l’altro e si mettono così in moto i cambiamenti dall’interno del sistema. Il nuovo deve emergere dal vecchio, ma prima dobbiamo avere accesso al vecchio.
Da dove nasce la fiducia che esistano queste porte d’accesso alle istituzioni e che al loro interno ci siano spazi che possono essere modellati?
Ha a che fare con questo atteggiamento sportivo che va di pari passo con la figura dell’hacking. Anche nel caso dei sistemi informatici, all’inizio diamo per scontato che funzionino in modo sicuro, finché qualcuno non scopre un punto debole. Allo stesso modo, per i sistemi sociali si tratta di capire come funzionano, cosa c’è scritto e quali sono i miti moderni, le storie e le immagini – le porte d’accesso. Bisogna capire come funziona un sistema per poterlo penetrare e aprire spazi creativi dall’interno. La mia fiducia è alimentata dalla mia esperienza. Stiamo lavorando su questo aspetto in un programma di Master presso la Scuola di Design Sociale di Coblenza, dove stiamo imparando ad aprire questi spazi insieme agli studenti. Accompagniamo i processi di cambiamento in quella che è quasi una pratica terapeutica. Poniamo domande finché la soluzione non diventa ovvia per l’altra persona. In senso socratico, non abbiamo le risposte, siamo noi a porre le domande. È così che troviamo le porte d’accesso. Ascoltare e imparare a sentire ciò che non viene detto per trovare ciò che manca. Quali narrazioni, quali immagini vengono utilizzate per ritrarre un’organizzazione nella vita quotidiana, dal maggior numero possibile di punti di vista diversi? Esiste un quadro generale? Quali sono le priorità? Quali sono le risorse disponibili? Su questa base sviluppiamo insieme interventi sistemici. Poi arriva una fase molto decisiva in cui raccogliamo le reazioni, in modo da non istituzionalizzare l’intervento, ma piuttosto queste strategie di coping culturalmente specifiche. Ne cerchiamo i modelli e poi aiutiamo a istituzionalizzarli nella rispettiva cultura organizzativa.
Questo non richiede un minimo di cooperazione attiva da parte degli attori delle istituzioni, che deriva da una pressione di sofferenza o almeno dalla necessità di un cambiamento?
Esattamente, un senso di sofferenza o il desiderio di cambiare qualcosa. Spesso si tratta di un’esperienza di sofferenza condivisa e della comprensione che la soluzione può essere sviluppata e implementata solo insieme e non può venire da qualche soluzione brevettata dall’esterno.
L’hacking è essenzialmente rivolto verso l’interno, verso i processi delle organizzazioni, per ridurre la gerarchia e dare spazio alla partecipazione e alla risoluzione solidale dei problemi. Come si relaziona allora l’hacking con forme di azione che mirano alla sensibilizzazione, anche attraverso la disobbedienza civile puntando sulla consapevolezza degli altri? Questo non è ovviamente l’approccio dell’hacking, come descriverebbe la differenza?
Ci sono sicuramente dei punti di contatto. La sabbia negli ingranaggi è necessaria, ma non sufficiente. Infrangere le regole è una cosa, riformulare le regole è un’altra. L’hacking riguarda la riformulazione congiunta di sistemi di regole collettivamente accettati, cioè trasformare le istituzioni, ed è qui che la figura dell’interno e dell’esterno si confonde. Entrare in sistemi di regole significa creare punti di rottura dall’esterno e comporta la violazione di regole dannose. Tuttavia, è importante comprendere che qui ci muoviamo in un campo inizialmente normativamente indeterminato. Nel nostro libro, la nostra norma di base è la sostenibilità. In altre parole, stiamo sostituendo e spostando delle regole e stabilendone delle nuove che hanno a che fare con la discriminazione, l’ingiustizia sociale o la distruzione della natura. Ma non prendiamoci in giro: un gruppo estremamente bravo a violare le nostre istituzioni è la nuova destra.
Abbiamo capito bene: l’hacking come metodo è una cosa, l’orientamento normativo in cui avviene è un’altra?
Questo vale sia per l’“hacking” che per la “trasformazione”. È per questo che tutti pensano che il termine “trasformazione” sia fantastico, perché può racchiudere tutto, da qualche nuovo clamore digitale alle mutate forme di solidarietà. C’è l’hacking informatico, che viene utilizzato per la manipolazione politica fino alla frode finanziaria, e c’è il Chaos Computer Club, che richiama l’attenzione sulle debolezze del sistema e suggerisce come risparmiare milioni nell’assicurazione sanitaria. I metodi sono una cosa, il modo in cui vengono utilizzati un altro.
Che cosa succederà dopo? Qual è il futuro dell’hacking delle istituzioni?
Sebastian Möller e io stiamo lavorando sulla questione di come incoraggiare e mettere in grado le persone a impegnarsi nell’hacking istituzionale a una bassa soglia.
L’hacking è un fenomeno a se stante nel panorama o ci sono movimenti e persone simili che lavorano su questioni analoghe?
Esiste un’intera gamma di sforzi interdisciplinari in questa direzione, come i collettivi di artisti che reinterpretano le regole con i loro interventi e le spostano da un campo all’altro. Con il concetto di hacking illuminiamo una pratica. Probabilmente ci sono molti altri termini per la stessa pratica. A noi non interessa tanto affermare questo termine, quanto aiutare la pratica che lo sottende a diffondersi.
Questo depone a vostro favore! Grazie mille!
Grazie a voi! Conversazioni come questa mi aiutano a riordinare i miei pensieri.
Lars Hochmann (* 1987) è un economista aziendale e professore di Trasformazione e Imprenditorialità presso la Scuola di Design Sociale di Coblenza. Pub, arte e cucina sono i capisaldi della sua vita.
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Da quando i moderni hanno scoperto la storia uno spettro si aggira per l’Europa: chi è iI soggetto della storia? Qualcuno o forse nessuno. Le risposte sono tante e non tutte rassicuranti: i grandi uomini o tutti gli uomini? la ragione o il proletariato? lo stato o i cittadini? I più ottimisti credono ancora nel popolo e nella democrazia sebbene gli indizi dell’involuzione autoritaria siano sempre più inquietanti. Non ci rimane che resistere però, una sorta di hacking anti-itituzionale, ed opporsi all’invasione dello stato che vuole occupare tutti gli spazi liberi: dalla scuola alla sanità e dal mare alla montagna.