Metadiario – 230 – Lettera a Petrina
La camminata per arrivare al rifugio Prudenzini quel 2 settembre 2000 non fu certo breve, ma la moderata pendenza, il tepore settembrino e il fatto di essere assieme la rese lieve anche a Guya. Però c’era una novità in quell’escursione, perché per la prima volta lei avrebbe dormito in un rifugio alpino, sotto al colossale Adamello. L’esperienza delle Gîte d’étape fatta in Provenza era certamente paragonabile, ma la quota di 2235 m ne fa qualcosa di più “impegnativo” per chi non ha mai assaggiato le “durezze” dell’Alpe.
In più, dal punto di vista igienico, quella notte il rifugio non brillava: il locale bagno puzzava decisamente e quell’odore invadeva le camerate. Per fortuna che, a dispetto che fossimo in weekend, non c’era tanta gente, anzi. In ogni caso, Guya non chiuse occhio per colpa dei miasmi e di uno che russava come un trombone.
Io mi alzai presto e senza neppure fare colazione m’inerpicai sul facile versante nord della Cima Settentrionale di Fràmpola 2906 m, la mia meta panoramica per le fotografie a questo settore dell’Adamello. Restai in cima un’oretta, tanto per svolgere tutte le declinazioni possibili dell’alba come da severo dettame del maestro fotografo Marco Milani, mio giudice supremo. Poi scesi e trovai la mia compagna fuori dal rifugio sdraiata al sole. A quel punto la giornata era tutta nostra e ce la godemmo fino al, purtroppo, necessario ritorno a Milano.
Il sabato seguente (9 settembre) toccava a me stare con le bambine: decisi che il Sentiero Glaciologico dei Forni, realizzato e segnalato nel 1995, poteva essere una buona idea, sempre nell’ottica di conciliare le esigenze fotografiche con gite che non fossero delle “marce disumane”.
In un tripudio di luci arrivammo al rifugio. Questo era gestito molto bene e fece dimenticare le ruvidezze del Prudenzini. Giovanni Alfieri ed io ci alzammo un po’ prima per catturare l’alba da un punto un po’ in alto sulla morena destra del Ghiacciaio dei Forni. Col telefono avvisai che avevamo finito, in modo che partissero dal rifugio. Poi continuammo assieme il percorso, il cui tratto più interessante è ovviamente quello che traversa il ghiacciaio. Fu una splendida giornata, con pranzo al sacco sulla morena sinistra e discesa finale verso valle. Incredibilmente in tutto il giro non ci fu alcuna lamentela, anzi solo lodi. L’incasso di questo genere di crediti da parte di figlie e compagna mi faceva camminare alto da terra. Per una volta non mi passava per la testa il dubbio di sbagliare tutto.
L’11 settembre 2000 Mario Pinoli, Luca De Franco ed io ci ritrovavamo seduti, compiaciuti turisti, nelle comode vetture del trenino del Gornergrat. Due ragazze giapponesi, forse più incuriosite dal treno che dallo spettacolare panorama sul Cervino e sul Monte Rosa, si fecero fotografare sorridenti.
In cima era un tripudio di azzurro e di bianco, una di quelle giornate che ti fa dimenticare di essere un team di medici al capezzale dei ghiacciai.
Con i due amici ci concedemmo una giornata di panorami, di foto e niente lavoro. Tra l’altro, eravamo ospiti dell’ufficio del turismo di Zermatt, in un bellissimo albergo: Mario era il giornalista, io il fotografo, Luca il nostro aiutante ed eravamo lì per fare un piccolo reportage per la rivista Montebianco su Zermatt e dintorni.
Vabbè, l’articolo lo avrei scritto, le foto belle le stavamo facendo, ma in realtà eravamo lì per Save the Glaciers e per l’eco-audit del Plateau Rosa, del Ghiacciaio di Valtournenche e dell’Oberer Theodulgletscher. Una spesa per doppia resa!
Il giorno dopo, tramite la faraonica funivia, salimmo sul Klein Matterhorn e sulla sua piattaforma panoramica. Poi finalmente ci allontanammo dalla confezione turistica per andare a passeggiare sulla Gobba di Rollin e sul Plateau Rosa, decidendo di scendere a piedi, poi, per l’Oberer Theodulgletscher carichi come asini di campionature di ghiaccio.
Fummo proprio fortunati con il tempo, perché anche il 13 il sole splendeva. Così andammo al clou della nostra visita, il Ghiacciaio di Valtournenche, quello immediatamente sottostante alla funivia del Plateau Rosa.
Ormai avevamo una certa esperienza e sapevamo per certo che, dove c’era un grosso impianto, c’erano anche grandi disastri. Come da copione, ci ritrovammo a documentare, per una possibile futura bonifica, la marea di rifiuti gettati dall’alto. Stavamo percorrendo il ghiacciaio, destreggiandoci tra il materiale che c’ingombrava il cammino, ma sapevamo che, sulle rocce e sui pendii sopra di noi che ci dividevano dalla stazione funiviaria, doveva essere anche peggio. La sera Mario dovette lasciarci da soli per altri impegni.
Il 14, Luca e io salimmo con gli sci ai piedi fino in vetta al Breithorn Occidentale, per l’ennesimo prelievo in tuta bianca. E il giorno dopo, ancora con tempo splendido, gita agli specchi d’acqua Stellisee e Gruensee, fino a Findelnbach. Poi prendemmo la funivia dello Stockhorn, per altre fotografie.
In quel mese di settembre iniziò la collaborazione tecnico-scientifica con il prof. Claudio Smiraglia, dell’Università di Milano, e la sua equipe di glaciologi, nell’ambito degli studi sulla tematica del bilancio di massa dei ghiacciai, sul depauperamento quantitativo del Ghiacciaio dello Stélvio.
In collaborazione con l’Università di Brescia e l’ing. Giorgio Vassena, furono eseguiti rilievi con sistema GPS delle condizioni morfometriche del ghiacciaio per la valutazione del bilancio di massa e stima quantitativa degli impatti antropici. L’operazione più spettacolare e complessa fu l’esecuzione di un carotaggio nell’area glaciale fino alla profondità di circa 15 metri per il rilievo, a quel livello, delle condizioni chimico-fisiche. In superficie, furono raccolti altri 20 campioni che confermarono i risultati preoccupanti dell’anno precedente. Ma io non ero presente a quelle operazioni.
Tra le nostre iniziative editoriali, era dal 1994 che uscivamo ogni anno con un calendario di montagna. Il primo anno fu un esperimento, ma in seguito, con il nuovo formato orizzontale, con base 70 e altezza 50 cm, divenne un’istituzione, un grande successo. Il nostro maggiore cliente fu sempre Montana, ma per qualche anno riuscimmo anche a venderlo nelle librerie. Ne stampavamo dalle 2.000 alle 3.000 copie, con loghi personalizzati. Nessuno poteva immaginare che saremmo andati avanti fino al 2014. Le foto erano le immagini panoramiche fatte con la Noblex, per lo più da Marco Milani, per I grandi spazi delle Alpi. Nel 2000, però, avevamo fatto il botto con un secondo calendario, quello per la ANDE, a soggetto le “Climbing Girls”. Fece scalpore il mese di agosto, con la foto di Bernard Giani che ritraeva Miranda che scalava sul mare di Cap de Nice, Provenza, in topless.
La vita con Guya, in viale Sabotino, scorreva frizzante. C’era ancora sua cugina Simona, ma questa faceva vita molto a sé. Con Guya avevamo un mucchio di complicità, tipo quella di inventarci delle storie che ci riguardavano. In questo la sua creatività era molto fertile, ben più della mia. Si era inventata che noi eravamo una coppia di gatti, dal nome lei Pallina, io Max. Lei era tutta grigia, io tutto nero. Lei aveva una padrone di nome Guya, io un padrone di nome Alessandro. I dialoghi erano del tipo “Guarda che mi ha detto la padrona che oggi ti mettono nel mastello per lavarti”, oppure “dice il padrone che adesso ci porta in un posto meraviglioso”. Riferendosi al fatto che la conoscenza con me l’aveva aiutata a tirarsi fuori da un periodo abbastanza difficile, il film del nostro incontro prevedeva che Gatto Max avesse visto lei tremante sotto una ruota di camion, l’avesse indicata al padrone e che alla fine lei fosse stata letteralmente raccolta da là sotto e amorevolmente messa in un cestello dalla padrona. Pallina derivava proprio dal suo essere appallottolata sotto la ruota. In quest’ordine di fantasie, Petra era Gatta Yoyo ed Elena Gatta Cleme.
Avevamo anche i nostri musicisti in comune: Manu Chao con il suo album Clandestino
e i Simple Minds con il loro singolo New gold dream.
Quest’ultimo pezzo è anche legato al ricordo della sera del 7 ottobre passata in casa di Luca Marcora a Compiano. Guya era stanca ed era già salita in camera a dormire, mentre Luca ed io, su di giri, praticamente ubriachi per aver bevuto, dopo lauta cena, due dozzine di bottigliette triangolari di Campari Soda, ballavamo per tutto il soggiorno al ritmo travolgente di New gold dream.
Il 24 settembre portai Guya su una facile e classica salita delle Prealpi lombarde. Eravamo assieme a Giovanni Alfieri e, posteggiata l’auto sull’ampio piazzale, prendemmo l’impianto per i Piani di Bobbio. Oltrepassato il rifugio Lecco, arrivammo con comodo all’attacco della Cresta Ongania dello Zucco di Pesciola 2094 m. L’avevo già salita con Nella ed altri nel 1974 e ricordavo d’essere sceso in un canale detritico a nord-est. Non ero per nulla al corrente che negli anni avevano costruito una ferrata sul versante sud di questa montagna, lo appresi solo là notando qualche cartello.
Salimmo la Cresta Ongania con leggerezza, notando con piacere che Guya si stava divertendo. La compagnia, difficoltà affrontabili senza grosse esposizioni al vuoto e brevità del percorso erano motivi sufficienti per un’ascensione serena che si concluse, in effetti, abbastanza presto nel primissimo pomeriggio.
Di fronte alle due opzioni di discesa, dato che l’ora lo permetteva, scelsi purtroppo la via ferrata. Avevamo appena cominciato a scendere e trovato le prime corde d’acciaio e qualche gradino, che il cielo si chiuse in una nebbia pesante. Non riuscivamo a vedere nulla al di là dei metri immediati e non si aveva la dimensione di dove si era. Chi è abituato, quando è attaccato a dei ferri non ha paura; chi non è abituato, se non vede ciò che lo circonda, alla prima difficoltà si paralizza. Ben presto quella ferrata si rivelò “difficile”, cioè assai “sportiva”. Al posto delle scalette erano funi verticali, magari non lunghissime, ma faticose e con pochi gradini, solo qualche fittone per i piedi. Ci legammo subito in cordata perché farla scendere in auto-assicurazione non era neppure da considerare. La ferrata era anche complicata, con traversi. Impiegammo tanto tempo, ogni metro era guadagnato a fatica. Io guardavo continuamente l’orologio perché sapevo che alle 17 ci sarebbe stata l’ultima corsa degli impianti. Per quanti sforzi avessimo fatto, riuscimmo a guadagnare il sentiero della Bocchetta di Pesciola solo alle 16.30.
Di fretta e furia ripassammo al rifugio Lecco e quasi corremmo verso i Piani di Bobbio. Non era attraente l’idea di dover scendere, prima o poi anche al buio e con una sola pila frontale, una mulattiera che non conoscevo per 820 metri di dislivello. E invece fu proprio quello che fummo costretti a fare. Arrivammo a una stazione a monte deserta, non ci rimase che continuare a correre verso il basso per fare più discesa possibile con le ultime luci. Guya fu eroica, debbo dire. Quando arrivò l’oscurità eravamo su un buon sentiero, ma ripido e del tutto ricoperto di foglie secche e umide che ci facevano scivolare. La lampadina serviva a illuminarle il passo davanti che doveva fare, ma dopo un po’ diventò fioca fino a spegnersi… L’astigmatismo di Guya non le permetteva di procedere sicura, Giovanni ed io la prendemmo per le braccia, a volte sollevandola di peso. Incespicavamo, brontolando e maledicendo la mia idea di scendere per la ferrata. Non c’era neppure la luna, il cielo era ancora nuvoloso, ma alla fine arrivammo al piazzale dove la nostra auto era l’unica posteggiata.
Quanto alla preparazione del volume V dei Grandi spazi delle Alpi, eravamo agli sgoccioli di tempo e di energia. Con Marco Milani andai in due bellissime giornate ottobrine (24 e 25) prima nel gruppo del Rofan (in Tirolo), dove salimmo lo Spieljoch 2236 m da sud-ovest e il Rofanspitze 2259 m, sempre da sud-ovest; in seguito ci trasferimmo velocemente in zona Wetterstein. Volevo a tutti i costi la panoramica sulla famosa catena del Wetterstein, culla del sesto grado con la parete sud-est della Schüsselkarspitze, salita per la prima volta da Hans Fiechtle Otto Herzog nel 1913. Eravamo su una cresta erbosa proprio di fronte: non ritenemmo necessario raggiungere la vetta della Gehrenspitze e ci fermammo sul cocuzzolo secondario del Kirchl.
Dal punto di vista arrampicatorio continuava a non esserci da parte mia quell’impegno necessario ad alcune buone riuscite, anche senza grosse pretese. Ci furono un po’ di uscite allo Zucco dell’Angelone e qualche altra cosetta: ricordo abbastanza bene l’uscita al Dito Dones (sopra a Ballabio) il 29 ottobre, con Giovanni Alfieri. Subito salimmo la via Lunga e, arrivando in cima, vedemmo lo sfacelo perpetrato ai danni della roccia e del buon senso con le catene messe lì per fare una ferrata che più stupida non poteva essere. Per rifarci, riscendemmo veloci e salimmo entrambe le vie del Diedro obliquo e dello Sconosciuto. Poi passammo allo Zucco di Teral, la cui parete mi aveva sempre intrigato per la via di Casimiro Ferrari. Ma era già un po’ tardi e non volli esagerare: salimmo solo la prima lunghezza della via del Miro, nonché (con la corda dall’alto) la prima di Strateral.
Il 16 dicembre ci fu una passeggiata con Guya, Elena e Petra assieme a Mario Pinoli e Katja Roediger a Montevecchia e dintorni. La giornata non favoriva escursioni distensive, però la reazione di Petra fu un po’ aggressiva. Non voleva essere lì, ci rimasi male. Alla sera le scrissi una letterina di Natale, che naturalmente non le consegnai. La scrissi solo per me:
“16 dicembre 2000. Cara Petrina,
è un momento molto triste, questo, anche se in realtà non è successo nulla di grave. Ma sono triste perché, dopo tutti questi nove anni passati assieme, ancora non sono riuscito a farti sentire quanto grande e quanto bella sia la Natura che ci circonda.
Quello che io ho sempre desiderato da te è la prova che tu “sentissi” in una maniera speciale la grandezza di ciò che ci circonda: ciò che gli altri bambini non sono chiamati a fare.
Sono triste perché penso anche che non ho nessun diritto di chiedere che tu sia uguale a me e nello stesso tempo desidero con tutte le mie forze che tu sia meglio di me.
Non camminavi ancora ed io ti portavo sulle spalle per i sentieri; quando eri proprio piccola ti portavo in uno zainetto che avevo davanti. Sotto il mento ti sentivo respirare e desideravo tanto che tu, portata così nei boschi, sui prati e sotto le rocce, cominciassi a respirare anche l’atmosfera magica di un bosco che un papà voleva rivelare alla sua bambina.
La bellezza delle favole, l’incantesimo dei cartoni animati che tante volte ti hanno rapita davanti alla televisione e la magia di un racconto della mamma prima di addormentarti sono dei modi per suggerirti quanto può essere bella una vita se vissuta come una favola. Ma allora occorre essere capaci di meravigliarsi ogni volta, di fronte ad un mare, di fronte ad una montagna o ad un bosco. Di fronte ad un animale libero. E solo amando, ma amando veramente, ciò che ti circonda capisci che cosa la mamma ed io ti abbiamo dato quando ti abbiamo messo al mondo. E ti garantisco che, visto che siamo proprio in tempi di grandi regali natalizi, tu sei stata il più bel regalo che io avessi avuto fino a quel momento.
A scuola imparerai a scrivere sempre meglio, le operazioni di matematica e le lingue straniere. Ti insegneranno tante altre cose, e i tuoi compagni prima o poi vivranno con te tutte le più belle esperienze della vita.
Al papà cosa rimane da insegnarti? Cosa può mai insegnare un papà triste?
Se io fossi nato in questi anni, credo che vorrei diventare un astronauta e visitare i mondi dello spazio. Perciò, per questo Natale, ti dono un telescopio, perché tu possa osservare l’Universo che il papà non potrà mai vedere da vicino.
Sogna, Petra, sogna tanto. Libera quei sogni che di certo sono dentro al tuo cuore, un po’ prigionieri. Buon Natale, il tuo papà”.
In seguito la inserii ne I grandi spazi delle Alpi. Fu poi ripresa dal settimanale Oggi il 18 gennaio 2006, con il titolo “lettera a Petrina”.