Gian Piero Motti pubblicò nel 1977 la sua Storia dell’alpinismo, in due volumi. Questi seguivano una serie di altri sei volumi intitolati Enciclopedia della montagna (Istituto Geografico De Agostini). Nell’introduzione illustrava il nodo cruciale e irrisolto che contraddistingueva il momento storico in cui viveva, tratteggiando i diversi tentativi di dare risposte e prefigurando in maniera profetica quella che sarebbe stata l’evoluzione successiva.
Puntata precedente: https://gognablog.sherpa-gate.com/introduzione-alla-storia-dellalpinismo-1/
(testo in edizione 2013 I Licheni di Priuli&Verlucca)
Introduzione alla “Storia dell’alpinismo” – 2 (2-2) (GPM 057-2) (GPM-SDA-03)
di Gian Piero Motti
Il rapporto Uomo-Natura
«Basta un colle, una vetta, una costa. Che fosse un luogo solitario e che i tuoi occhi risalendolo si fermassero in cielo. L’incredibile spicco delle cose nell’aria oggi ancora tocca il cuore. Io per me credo che un albero, un sasso profilati nel cielo, fossero dèi fin dall’inizio (Cesare Pavese, I dialoghi con Leucò, Einaudi, 1973)».
Per cercare di comprendere a fondo la genesi dell’alpinismo e i suoi probabili moventi, è necessario aver ben presente l’evoluzione dell’atteggiamento dell’Uomo nei confronti della Natura. Senza perdersi in analisi che non hanno spazio in questa trattazione, si formula un’ipotesi evolutiva, ossia che l’uomo non sia giunto sul pianeta così all’improvviso per incanto e magia, ma che invece alle sue spalle, per giungere a questo stato, vi sia tutta una lunga e faticosa storia evolutiva, che muove dalle prime forme inorganiche e forse anche da altri pianeti del sistema solare su cui oggi queste forme di vita sono inesistenti.
Terza edizione di La Storia dell’Alpinismo (Priuli&Verlucca, 2013)
Immaginiamo dunque che vi sia una specie di energia vitale primaria, a noi invisibile e intangibile, ma non per questo astratta e spiritualizzata, ma sicuramente materiale. Immaginiamo ancora che per motivi la cui entità ci è difficilmente intuibile, quest’energia debba compiere un lungo iter di incarnazioni o di materializzazioni visibili, che partono dalle primissime e più semplici forme inorganiche fino all’uomo e certamente anche oltre l’uomo, in quanto non possiamo presuntuosamente affermare di essere l’ultimo anello della catena. Supponiamo ancora che per passare da un anello all’altro della catena, l’energia incontri delle forti resistenze per liberarsi e procedere. Queste resistenze sono comprensibili, in quanto se l’energia procede in avanti, gli esseri viventi appartenenti all’anello precedente si verranno a trovare in condizione di inferiorità e sottomissione rispetto a quelli dell’anello in cui l’energia va insediandosi. Proprio per questi motivi di resistenza, probabilmente il passaggio da un anello all’altro ha richiesto e richiede agli esseri viventi in quella determinata fase una grande rinunzia a una funzione vitale ritenuta come primaria, con relativa frustrazione e inibizione di un desiderio vitale molto importante (che può benissimo essere identificato con l’immagine della «libido» formulata da Freud nella sua psicologia). Una volta realizzato questo «scatto» in avanti dell’energia, ci si premunisce affinché non si possa regredire all’anello precedente e si «rimuove» (volendo sempre usare un termine tecnico della psicologia) il desiderio che è stato represso, generando una sorta di paura, disgusto e nausea al solo pensiero o ricordo di quel determinato desiderio.
Come si è detto l’anello sottostante in un certo senso viene privato dell’energia (ma di una parte o di tutta?), sembra agire ubbidendo a leggi molto esatte e precise, raggiungendo un comportamento istintuale e si pone in condizione di sottomissione rispetto alle forme vitali dell’anello superiore in cui l’energia opera. Ed è anche chiaro che le forme vitali superiori eserciteranno il loro potere gerarchico su quelle inferiori, che dovranno inesorabilmente subire questa condizione (vi possono essere ribellioni, ma non hanno alcuna possibilità di vittoria). Ad una analisi fredda e razionale che non voglia cedere a facili tentazioni sentimentali e poetiche, che però non hanno alcuna ragione d’esistere, tutta la storia del pianeta e della vita sul pianeta si delinea come una serie inarrestabile di sopraffazioni e di crimini, dove l’essere superiore divora e uccide tutte le altre forme vitali inferiori, ma per finire poi lui stesso divorato da altre forme vitali.
Per quanto orribile questo possa apparire, forse l’evoluzione segue un suo disegno ben prestabilito, il cui fine è così importante da giungere a giustificare qualunque mezzo per potervi arrivare. Comunque anche l’uomo certamente non è l’ultimo anello della catena. Oggi è l’uomo che fa la parte del leone, spingendo avanti la conoscenza, distruggendo la natura, divorando animali, vegetali e minerali. Ma può anche darsi che in futuro tocchi proprio all’uomo il momento della rinunzia, con le conseguenze del caso, ossia l’essere divorato da altri esseri più evoluti…
Il problema del dolore e della morte: culture orientale e occidentale a confronto
Lasciamo dunque all’immaginazione il mondo perduto dei cristalli pensanti, degli alberi parlanti e degli animali saggi ed intelligenti, per venire più specificatamente all’uomo. Per un meccanismo di difesa facilmente comprensibile, l’uomo ha cercato di cavarsela a buon mercato (nella cultura occidentale) prendendo per sé tutto lo spirito vitale e definendo tout court tutti gli altri esseri o come «cose» inanimate o come esseri privi di intelligenza. Il tentativo di difesa verso il senso di colpa è chiaro, poiché dovendo divorare e distruggere altre forme viventi, ci si sentirà assai poco in colpa se esse vengono reputate come «cose». Assai diverso dovrebbe essere lo stato d’animo di chi invece considera ogni cosa come vivente, intelligente e animata.
Gian Piero Motti all’Orrido di Foresto
Vi è quindi tutta una disposizione gerarchica nei confronti della Natura che genera un drammatico rapporto contraddittorio e sadomasochistico, in cui si delineano pulsioni forti e contrastanti come l’amore/odio. L’Uomo dice: io ti amo, ma devo vivere, quindi devo uccidere e distruggere. La Natura risponde: anch’io ti amo, ma devo difendermi e cercare di distruggerti prima che tu mi uccida.
Il quadro è drammatico, ma è comunque la situazione di tensione e di lotta in cui si svolge la vita stessa dell’Uomo: per tutta l’esistenza si distrugge, per finire poi con l’essere distrutti. Potrebbe anche apparire una tragica e inutile farsa, quasi una specie di inganno malefico e satanico.
La cultura occidentale nega questa supposizione, cercando di giustificare la drammaticità esistenziale e definendola come necessaria ai fini dell’evoluzione. Anche la religione d’altronde invita a credere in un disegno superiore e finalistico.
Ben diverso invece è il pensiero che giunge dall’Estremo Oriente. Quasi tutte le religioni orientali considerano tutte le cose animate e intelligenti, dal più piccolo atomo di un cristallo, alla formica e all’uomo. Inoltre la lotta contro la morte e la difesa dal dolore vengono definite come inutili e prive di senso, perché destinate alla sconfitta inevitabile. La posizione di fronte al problema del dolore è veramente interessante e straordinaria, dimostrando l’altissimo livello intuitivo e conoscitivo raggiunto da queste culture (India, Tibet, ecc.). Innanzi tutto vi è una chiara presa di coscienza del fatto che se si accetta la vita è necessario porsi in lotta contro il dolore e la morte, cercando quindi di sopraffare e di divorare gli esseri e le cose del pianeta (e la cosa riesce possibile, in quanto l’Uomo ha tutta l’energia necessaria). Con il risultato evidente che tutta l’esistenza non sarà che una lotta drammatica e feroce per sopravvivere, senza pace e serenità, senza alcuna armonia con la Natura, in ogni caso con la certezza della sconfitta finale.
Alcune religioni e filosofie orientali invece (induismo, buddismo, lamaismo, buddismo-Zen ed anche cristianesimo originario) propongono l’armonia suprema con tutti gli esseri esistenti uniti da un Amore Universale che non conosce graduazioni e differenze sia qualitative che quantitative. Ma per giungere a questa suprema armonia e a questo amore non vi è che un mezzo, certamente atroce: la rinunzia alla vita materiale. Attraverso una serie di discipline e di prove, la cui durezza potrà apparire folle a un occidentale, si realizza una sorta di ascesi (che però è una discesa) verso la perfetta armonia del Cosmo, sviluppando a poco a poco la conoscenza un tempo ignota. Più che mai chiara è la differenza con l’Occidente: qui si cerca di scoprire lo Sconosciuto del Pianeta, quindi l’ignoto esterno all’individuo, con la scienza e la civiltà. Là invece si cerca di portare a conoscenza tutto l’Ignoto interiore, dando come per scontata e inutile la conoscenza dell’apparente, inteso come illusione e inganno per distogliere l’individuo dalla vera conoscenza ulteriore (la famosa «vanità» delle cose terrene di antica e cristiana memoria).
Rinunciando ad aggredire gli altri esseri viventi, distruggendo a poco a poco il suo corpo annullandone i desideri materiali, l’asceta conosce il vero se stesso e quindi in relazione viene anche a conoscenza del Cosmo: egli finalmente «vede» ogni cosa nella sua vera essenza e giunge a essere in armonia con ogni particella vivente.
Egli ha capito che il dolore è inevitabile e che durante l’esistenza o le varie esistenze dovrà sorbirsi il famigerato «calice amaro» che a lui è destinato. Gli si offrono due possibilità. Difendersi il più possibile dal dolore e quindi bere il contenuto del calice a piccole dosi, reincarnandosi più e più volte sul pianeta. Oppure prendere una decisione grandiosa e terribile: di propria volontà scegliere di bere in una volta sola tutto il contenuto del calice, rischiando anche di non resistere e di cedere, ritornando quindi al punto di partenza e riprendendo il ciclo delle reincarnazioni da capo. Ma se resisterà, egli finalmente avrà vinto, avrà sconfitto il dolore e la morte con la morte stessa e non con la vita. E anche se agli occidentali la cosa pare incredibile (ma vi sono serie testimonianze in proposito e ampia documentazione scientifica), egli finalmente avrà raggiunto il cosiddetto Nirvana, la fine di ogni desiderio, la perfetta armonia con il Cosmo, acquistando dei poteri meravigliosi e prodigiosi (sollevamento da terra, sdoppiamento, chiaroveggenza, telepatia, telecinesi, smaterializzazione, ecc.).
In conclusione si tratta di morire alla vita profana per rinascere a una seconda vita illuminata.
Null’altro che il vero messaggio del Cristo, reso così lampante dal sacrificio volontario della Croce e dalla successiva vittoria della resurrezione.
Anche se il lungo discorso pare estraneo all’alpinismo, in realtà esso è assai importante per comprendere a fondo tutto il filone psichico e storico che collega l’atteggiamento dell’uomo occidentale verso la Natura e le montagne. Importante anche per capire in seguito la profonda crisi dell’alpinismo occidentale, dove comincia a profilarsi il sospetto di tutta una «inutilità» di un certo alpinismo aggressivo e competitivo.
Uomini e montagne: un rapporto ben definito già sin dall’inizio
Prima che iniziasse l’alpinismo come fenomeno tangibile e concreto (Illuminismo, trionfo della ragione e della scienza – conquista del Monte Bianco), l’atteggiamento dell’uomo verso le montagne fu piuttosto timoroso e per nulla aggressivo. Non è dunque necessario dilungarsi su cose molto conosciute: i monti come sede degli dei in Grecia, i monti come luogo preferito dai demoni, dalle fate, dai folletti, dagli gnomi e dai nani. Ancora i monti come luogo dove le anime dei morti amano vagare nelle notti invernali, oppure luoghi dove le streghe e le «masche» nelle notti magiche dell’anno si ritrovano per i loro sabba, terrorizzando il povero viandante che poi giurerà di averle vedute, perpetuando una tradizione orale generatrice di suggestive e magnifiche leggende (vi è anche chi sostiene che la verità però va cercata proprio nelle leggende). Ogni cultura, sia in Oriente che in Occidente, ha i suoi miti e le sue favole, che comunque bene inquadrano una situazione di timore inconscio e di rispettosa paura per le selve, i ghiacciai e le alte vette dei monti. Si delinea anche in chiarezza una «non necessità» di salirvi in cima proprio da parte di chi vive a contatto con i monti e da parte di chi per ragioni di vita ha dovuto adattarsi a vivere in montagna. La stessa «non necessità» che ancora oggi vediamo nelle genti di montagna di ogni parte del mondo. I montanari, proprio perché dalla montagna traggono la fonte di vita, liberano già tutta la loro aggressività verso il monte nel loro duro lavoro quotidiano. Attraverso l’adattamento all’ambiente in cui essi vivono, giungono a essere in armonia con l’elemento naturale che li ospita. E se anche il montanaro giunse all’alpinismo, ciò fu in gran parte per motivi di guadagno, per cercare di migliorare la sua condizione esistenziale, la quale a causa dei contatti avvenuti con l’ambiente ricco e cittadino, cominciava ad apparirgli povera e miserevole. E poi non bisogna dimenticare che lo stimolo a salire venne proprio dal cittadino, che in teoria si sentiva di osare ovunque, ma in pratica aveva una gran paura dei pericoli che la natura alpestre offriva. Paura sconosciuta al valligiano, in quanto vivente in montagna e quindi a conoscenza di ogni fenomeno naturale, anche se poi interpretato in forma fantastica e assolutamente non razionale e scientifica.
Con questo non si vuol dire che le genti di montagna non amino i loro monti, anzi il loro amore, proprio perché non aggressivo, non conosce le contraddizioni amore/odio del cittadino, che tra esaltazioni mistiche e depressioni abissali si avvicina ai monti per lottare, vincere e dominare. Anche se in realtà egli vorrebbe lottare, vincere e dominare se stesso, si serve della montagna proprio per proiettare in forma materiale un fantasma che vive in lui.
La situazione era leggermente diversa in Oriente, dove l’alpinismo giungerà solo in quei Paesi a fortissimo sviluppo industriale (Giappone e Cina), dove la cultura locale è andata irrimediabilmente distrutta. Qui vi era un’armonia ancora più vissuta e sentita che in Occidente, tanto che i monaci e coloro che tentavano la via del «Satori» o del cammino karmico verso il Nirvana, sceglievano proprio la solitudine e i silenzi dei monti per ritirarsi in contemplazione. Ancora oggi restano alcuni templi ricavati in pareti di roccia vertiginose, dove si giungeva per sentieri ripidissimi, superando vere e proprie difficoltà di arrampicata (Buthan). Ma l’asceta e il monaco non sembravano essere intimoriti dalle cupe selve, dai silenzi siderali e dagli spazi immensi. Anzi, come suggeriva il Tao, la natura selvaggia, l’assenza di vita, il silenzio e le dure condizioni ambientali delle altezze erano i luoghi migliori per osservare se stessi e per percepire il «respiro» del Cosmo.
Più timore e più paura, invece, in Occidente, dove da sempre l’uomo ha intrapreso il cammino della civiltà aggredendo la Natura in ogni sua espressione. E non apparirà strano allora il fatto che fu proprio una cultura imperialistica e civilizzatrice come quella romana a iniziare un’esplorazione sistematica delle Alpi, valicandone i colli, tracciandovi strade, costruendovi ponti e distruggendo soprattutto altre culture che sui monti vivevano in buona armonia con l’ambiente naturale, ricche delle loro tradizioni, della loro arte e della loro religione (leggi i Salassi), per nulla inferiori a quella romana, anche se apparentemente più semplici e meno raffinate.
Comunque pensarono barbari e cristiani a rimettere un po’ le cose a posto ed anche il tanto bistrattato (forse a torto) Medioevo riportò i monti alla loro precedente condizione, arcana e misteriosa. O meglio essi furono come dimenticati e lasciati in disparte. Il cammino della civiltà aveva mete ben più urgenti, utili e importanti da raggiungere. Quindi fu poi tutto un fermento e un ribollire rinascimentale di scoperte scientifiche, di esplorazioni geografiche, di disquisizioni filosofiche, di espressioni artistiche, il tutto condotto (e questo è molto importante) individualmente e non in équipe come oggi invece accade. L’avventura singola e individuale era agevolata, facilitata e stimolata a tutti i livelli. Fu dunque il trionfo del «genio», di una genialità ansiosa di avventurarsi in ogni branca del sapere umano, lanciata alla conquista dello Sconosciuto.
Ma poi, come sempre accade, la storia si ripete su schemi identici. Si esplorò tutto quello che allora si poteva esplorare, si scoprì tutto quello che allora si poteva scoprire e si giunse come in vetta, a un culmine espressivo, anche in arte ed architettura. L’individuo, il genio singolo, di più non poteva esprimere e forse l’ultimo grido disperato, l’ultima titanica e drammatica ricerca individuale prima della sconfitta barocca, si materializzò nell’arte di Michelangelo.
Vi fu poi inevitabilmente stanchezza e stasi. Si incominciò nel vero e proprio senso della parola a cesellare, a rifare e a ricamare su quello che già era stato fatto, con risultati estetici forse anche apprezzabili, ma senza alcun vero progresso conoscitivo. Ma fu proprio questa noia barocca, questa pausa leziosa e salottiera, tutta ventagli e profumi, parrucchini incipriati maschili e nei femminili, a produrre lo slancio necessario per entrare nel periodo illuminista.
Il Monte Bianco, salito la prima volta nel 1786
Illuminismo e alpinismo: le Alpi come oggetto di conquista e di conoscenza dello Sconosciuto
La ragione e la matematica, la logica e il procedimento analitico, freddo ed esatto, sottoposto a verifica in sede empirica, permisero quindi di avanzare verso nuovi orizzonti, certamente irraggiungibili da un solo cervello, per quanto geniale fosse, per di più condizionato nella sua ricerca dalle remore di ordine mistico e religioso. In questo periodo la ragione fu più che mai al fianco della scienza, contro gli oscuri freni che le religioni ponevano al desiderio di conoscenza dell’uomo. Nuove mete richiedevano coraggio e nuovi sistemi di indagine, confronti dialettici, discussioni e verifiche condotte con estrema serietà nel concreto, imprese dove la figura del singolo cominciava a perdere valore per lasciare il passo al lavoro più collettivo. Il lato più tipicamente individualista del genio ne veniva sminuito, a vantaggio della meta raggiungibile. Non per nulla le prime grandi rivoluzioni segnarono la fine delle monarchie assolutiste e si incominciò anche a parlare di popolo, di democrazia, di leggi umanitarie e sociali, di diritti dell’uomo.
È il momento esatto in cui prende corpo l’alpinismo. Non certo come fenomeno di ricerca individuale, ma inserito nel contesto scientifico che aveva come obiettivo la conoscenza della natura e il suo studio approfondito. È molto importante insistere sul carattere scientifico del primo alpinismo, perché solo così si riesce poi a comprendere come in concomitanza allo svanire dell’illusione illuminista e con il sorgere del positivismo da un lato e della reazione romantica dall’altro, l’alpinismo prenderà la strada dell’avventura individuale, scevra da alcuna pretesa di ordine scientifico.
Fermo restando il punto che il primo periodo dell’alpinismo non è ancora romantico, ma è del tutto illuminista, è difficile immaginare che questi pionieri non sentissero anche un certo fascino avventuroso e un po’ sentimentale durante la preparazione e lo svolgimento delle loro imprese. Certo la scienza ormai era abbastanza paga delle esplorazioni geografiche realizzate sul pianeta. Raggiungere l’America o l’Australia in nave era ormai cosa abbastanza normale. Ma vi erano ancora luoghi pericolosi, quasi sconosciuti e inaccessibili come le montagne, che ancora non erano state sistematicamente aggredite dalla conquista scientifica, dal desiderio e dalla voglia di sapere, studiare e conoscere tutto al riguardo.
L’aggressione individuale allora era forse impensabile, anche se non mancheranno i casi del genere, testimoni del fatto che nell’agire umano la regola assoluta ammette sempre delle eccezioni che d’altronde la confermano. Solo più tardi quando l’esplorazione avrà portato a conoscenza il mondo alpino e quando l’epoca della ragion pura comincerà a polverizzarsi, allora l’individuo cercherà espressione, rivolta, sfogo e ricerca personale nell’alpinismo, passando dal concetto di vetta da conquistare a quello di cercare la via più difficile per salire su una vetta precedentemente conquistata.
Stranamente l’alpinismo troverà fertile terreno proprio in Inghilterra, il primo Paese europeo dove l’evoluzione dell’industria su vasta scala comincerà a distruggere il lavoro creativo e artigianale, generando fenomeni di spersonalizzazione che porteranno in seguito a ricercare la propria individualità perduta in attività collaterali. Questa «necessità» di evasione e di ricerca di attività artistica creativa, proprio negli sport e nell’alpinismo troverà la sua espressione più chiara e significativa. In seguito gli sport saranno strumentalizzati e reinseriti con facilità nel meccanismo produttivo. L’alpinismo resisterà più a lungo, forse proprio per quel fattore di rischio che comporta, si batterà come una belva ferita, ma poi anche lui dovrà cedere ai meccanismi produttivi in buona misura.
Non per nulla vi è chi afferma che oggi l’avventura, la grande avventura, sulle Alpi è finita, a meno di voler rischiare molto nell’alpinismo invernale e solitario. È finito anche in Himalaya il periodo della conquista sistematica e organizzata, con la riuscita ricercata con ogni mezzo tecnico e umano, un vero e proprio assalto in massa e in forze con l’unico obiettivo di raggiungere la vetta inviolata. La storia si ripete ancora una volta. Forse un tale sistema neanche in Himalaya non ha più ragione di essere e soprattutto le soddisfazioni che apporta ai vincitori sono pari a quelle di chi uccide un leone chiuso in gabbia. E vi è già chi, dotato di coraggio quasi sovrumano, ha capito, precorre i tempi e si prepara per la lotta più epica e grandiosa di tutta la storia dell’alpinismo: da solo, contro un Ottomila.
E poi? Forse anche questo, come sulle Alpi, con il passare del tempo diverrà un’abitudine non del tutto soddisfacente. Avremo definitivamente distrutto il bel giocattolo con cui ci piaceva giocare? Tutto dovrà cadere nella noia, nell’abitudine e nell’alienante atletismo degli altri sport? Faremo allora le gare d’arrampicata sulla parete sud dell’Everest oppure attrezzeremo una via ferrata per randonneurs chevronnés (escursionisti esperti) sullo spigolo del Cerro Torre? Cercheremo di rendere più difficile ciò che già è difficile, spingendo a limiti ora inusitati l’arrampicata libera? Ma vi è pur sempre un limite. Per quanto l’uomo faccia, anche se si mette delle ridicole ali di plastica, non può volare. E l’avventura, dove sarà finita l’avventura? Forse quella sul pianeta l’avremo perduta per sempre…
«Eppure di questa paura ci tocca sorridere, quando pensassimo all’angoscia della gente di un tempo, cui tutto quello che toccava era mortale. Gente per cui l’aria era piena di spaventi notturni, di arcane minacce, di ricordi paurosi…
E se questo disagio fu vero, com’è indiscutibile, fu anche vero il coraggio, la speranza, la scoperta felice di poteri, di promesse, di incontri. Io, per me, non mi stanco di sentir parlare dei loro terrori notturni e delle cose in cui sperarono.
– E credi ai mostri, credi ai corpi imbestialiti, ai sassi vivi, ai sorrisi divini, alle parole che annientavano?
– Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito. Se un tempo salirono su queste alture di sassi o cercarono paludi mortali sotto il cielo, fu perché vi trovarono qualcosa che noi non sappiamo. Non era il pane né il piacere né la cara salute. Queste cose si sa dove stanno. Non qui. E noi che viviamo lontano lungo il mare o nei campi, l’altra cosa l’abbiamo perduta.
– Dilla, dunque, la cosa.
– Già lo sai. Quei loro incontri (Cesare Pavese, I dialoghi con Leucò, Einaudi, 1973)».
Scopri di più da GognaBlog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
A molti, non piemontesi, scotta che il Nuovo Mattino sia per la storia iniziato lì con Gian Piero Motti e i suoi compagni. Menzionano Cozzolino, Messner, i sassisti della Val di Mello, come se fosse una gara tra campanili. E’ stato un contagio e ai torinesi va riconosciuta l’egemonia culturale.
Allora se ti piace “lo pisico” ti consiglio di leggere il libretto La pietra infuocata, di Knez.
Lui dopo 29 anni è ancora avanti: Korra lo dice ripetendo roba sua e non la più difficile.
E vedrai che introspezione!
Pensieri e fatti notevoli, anche se un po’ troppo “oltre” per menti semplici come la mia.
Il resto scompare nel nulla.
E’ molto probabile che la tua osservazione sia fondata, ma che male c’è? Voglio dire: anche se Motti si fosse semplicemente limitato a “schematizzare” e a “sintetizzare” una massa enorme di concetti di natura psico-spirituale o addirittura esistenziale, concetti tutti complessi, intricati e nebulosi a primo acchito (specie per il lettore comune), già solo questa attività avrebbe un suo valore aggiunto che la giustifica e la nobilita…. un po’ come l’attività di uno scienziato che redige lo schema sistematico delle specie animali o vegetali. In ogni caso il filone trascendente non è esclusivo dell’approccio italiano. E inoltre è bello poter leggere sia i libri di montagna molto concreti che quelli incentrati sui risvolti psicologici. Ciao!
Carlo, ti sei mai chiesto perché “l’approccio Motti” abbia riscosso grande successo fra noi italiani?
E sai cosa dicono all’estero di questo?
Per me Motti ha solo sintetizzato bene tante cose, non è riuscito ad andare oltre.
Personalmente apprezzo immensamente i due libri di Sandro Gogna, intendo quelli citati dagli altri commentatori : davvero una miniera storica di come si è evoluto il pensiero alpinistico in un continuo “dai e vai” con l’azione sulle pareti dolomitiche. Ma non disdegno neppure l’impostazione alla Motti, anche se tale impostazione (specie oggi, nella società del “tutto e subito”, immediata comprensibilità dei testi in primis) appare troppo sbilanciata in termini di “pensiero astratto” (filosofico, per capirci). Personalmente ciò che mi piace di più dell’ “andare in montagna” è proprio questa sua adattabilità a infiniti gusti, a infinite visioni del mondo. Sia i “pensatori” che i “concreti” trovano terreno per la loro realizzazione, a qualsiasi livello di difficoltà, dal sentiero al 10c. Ma sovente i due aspetti (l’azione e il risvolto psico-spirituale) sono molto legati in profondità. Infatti quello che mi colpisce, nella mia attività di analisi degli alpinisti del passato, è che, molto spesso, dietro all’azione più esasperata, ci si imbatte in un profondissimo retroterra psicologico, emotivo e spirituale. In altri termini, dietro al VI classico degli anni ’30, così come dietro all’eventuale 10c odierno, agiscono irrefrenabili impulsi, inconsci e immateriali. Per focalizzare tali impulsi, che spesso sfuggono ad una ricerca razionale e scientifica, temo che non ci sia alternativa se non un approccio alla Motti.
Il rapporto uomo-natura di Gian Piero Miotti, attinge a piene mani da Giacomo Leopardi. Un interminabile reciproco inganno, da cui l’uomo esce sempre sconfitto. L’unica via di uscita sarebbe quella mistico-irrazionalista del barbaro. Credo invece che l’unica via di uscita dell’ uomo occidentale sia legata all’ esercizio della razionalità, pur nella piena consapevolezza dei limiti che ciò comporta. Anche il rapporto con la Natura, che è oggi l’oggetto di una ubris sfrenata richiederebbe soluzioni equilibrate mediate dalla ragione. Così anche l’ alpinismo.
La prima parte del testo di Motti esprime concetti che Max Weber ha teorizzato ed ha utilizzato per spiegare l’affermazione e l’espansione del pensiero occidentale e dell’economia capitalistica: le religioni che lui (Weber) chiama primitive o magiche sono “immanenti” in quanto riconoscono la divinità nella Natura, mentre i monoteismi pongono il divino al di fuori della Natura (trascendenza) e in questo modo essa perde la propria sacralità e diventa oggetto da sfruttare, conquistare, dominare: l’alpinismo fa dunque parte, come dice Motti, di questa modalità di approccio. Non sappiamo se Motti conoscesse il pensiero di Max Weber, (immagino di si, vista la sua vasta cultura) o se sia arrivato autonomamente ad elaborare gli stessi concetti…In ogni caso uno scritto interessante , anche se forse poco accessibile.
Un librone su G.J. : così verrà anche svelata la segreta storia della via LECCO, innominata, ma decisa e fatta!
E un’altro capitolo della falsa informazione giornalistica interessata verrà demolito!
Ma ormai il nome falso è entrato nella storia, come tanti altri falsi.
Dai scrivilo, tu la conosci bene!
“Oppure un libro sulla storia alpinistica della nord delle Grandes Jorasses.”£
se non ricordo male, un pò di tempo fa, ad opera di Alessandro è già uscito in libricino sulle G.J.
Lo dovrei avere da qualche parte .
Sono d’accordo con Paolo Panzeri: “Sentieri verticali” e “Dolomiti e calcari di nordest” sono opere prima di tutto ricchissime di dati oggettivi e poi di qualche fondata critica storica, ben distinta però dall’esposizione dei fatti. Cosí deve essere un testo di storia.
Questo metodo è stato applicato anche nel libro su Severino Casara e il Campanile di Val Montanaia. La ricerca si apprezza per l’esposizione obiettiva.
Ora però ne aspettiamo altri! Per esempio, una storia dell’alpinismo nelle intere Alpi (minimo quattro o cinque volumi!).
Oppure un’inchiesta sul K2 nel 1954; ce ne sono già state numerose, ma una critica di Gogna sarebbe apprezzatissima e affidabile.
Oppure un libro sulla storia alpinistica della nord delle Grandes Jorasses.
Oppure un’autobiografia aggiornata! Kurt Diemberger ne ha già pubblicate tre o quattro, per cui…
Il tuo libro sulla storia del “calcare” mi è piaciuto molto di più, è molto vasto e non contiene quasi nessuna interpretazione personale fantasiosa.