Metadiario – 220 – La bellezza diversa (AG 1999-002)
È un momento, dal fondo della Val Pusteria e dalla bellissima cittadina di Brunico, imboccare la Valle di Tures e quindi o la Valle Aurina o la Valle di Riva e ritrovarsi in mezzo a ghiacciate e alte montagne di carattere occidentale, così diverse dalle vicine Dolomiti. Questa è la valle che conduce dritta dritta alla famosa Vetta d’Italia (Glockenkarkopf), il punto più a nord del territorio italiano, come s’impara sui testi di geografia. Divide le Alpi Aurine, a nord-ovest, dalle Alpi Pusteresi, a est. Ma è solo una delle suddivisioni alpine possibili, visto che le Aurine sono la parte italiana delle Zillertaler Alpen e le Pusteresi sono costituite dalla parte italiana delle Deferegger Alpen e dal lembo occidentale della grande catena degli Alti Tauri. Questo ci conduce nel pieno del problema linguistico: i nomi italiani delle località sudtirolesi sono assolutamente accademici, a volte tradotti, a volte di fantasia. Nessuno li usa e pertanto credo siano inutili. Cominciamo a usare la parola Ahrntal al posto di Valle Aurina e proseguiamo con i bei paesi di Sand in Taufers (Campo Tures), Rain in Taufers (Riva di Tures) o Weissenbach (Riobianco). Scopriremo la diversa bellezza di questi posti più facilmente: anche lo sforzo che un italiano deve fare nel pronunciare quello che gli sembra uno scioglilingua faciliterà una piena comprensione di cosa sono queste valli e di come si pongono nella nostra storia.
Sapevamo di una valle integra ma tutt’altro che sperduta, di montagne selvagge con il minimo di impianti di risalita e di escursioni primaverili di gran classe. Non si può partire senza consultare attentamente il bollettino della neve e delle valanghe, non ci sono gite per principianti, a meno che non siano accompagnati da una guida alpina del luogo.
Una bella mattina di sole (9 aprile 1999) Marco, Eugenio Dall’Omo ed io calziamo gli sci alla fine del villaggio di Weissenbach. La neve si sta già rammollendo mentre intorno, nelle fattorie, il lavoro riprende: qua e là una sega, un martello che colpisce il metallo, un muggito. Veloci saliamo una stradina a stretti tornanti che ci porta attraverso un fitto bosco alla bella e bianca radura della Pichler Alm 1761 m: la malga è chiusa e il fruscio del nostro procedere nella neve sottolinea il silenzio di questi luoghi addormentati. Saliamo ora in un valloncello via via sempre più ripido, fino alla fine della vegetazione, per uscire su un ampio colle, il Gornerjoch 2277 m, che ci apre la vista a dismisura, in alto come siamo sulla Mühlwaldertal (Valle Selva dei Molini). La gita potrebbe finire qui, ma noi vogliamo coronarla con la facile salita alla vetta del Gornerberg, dalla quale l’orizzonte si allarga ancora. La discesa è per lo stesso itinerario, in alto su neve buona, in basso più sfatta. Abbiamo anche l’avvertenza di compiere una deviazione per vedere la bella Innerhofer Alm 1743 m, anch’essa nel letargo invernale.

Dopo questa bella escursione vogliamo impegnarci più in alto, tra i ghiacciai del Rieserferner Gruppe. Il rifugio Roma (Kasseler Hütte) è la base per una serie di tre o quattro splendide e classiche escursioni con gli sci. A fine pomeriggio della stessa giornata lo raggiungiamo dalla frazione di Epach, assai vicino a Rain in Taufers, con una ripida scarpinata nel bosco, per buon tratto con gli sci sullo zaino. In serata ci raggiunge Andrea Goppensee. Al rifugio, l’ospitalità del custode Arnold Seeber ci mette subito a nostro agio: anche se ci sono altre comitive, lui ha una parola e una battuta per tutti. Il mattino dopo è azzurro e frizzante, e la salita lungo il ghiacciaio Rieserferner non è mai noiosa, con belle vedute sul gigante del luogo, l’Hochgall e la sua parete nord. In cima al Magerstein siamo in molti a dividere l’esiguo spazio a disposizione, tutti raccolti attorno all’enorme croce dalla quale si vedono le Dolomiti intere, in un arco di visuale così ampio da dover girare pian piano la testa. Sorrisi, piccole gentilezze, qualche parola precedono un’entusiasmante discesa in una neve di qualità favolosa. Facciamo a gara con un gruppo di gente del posto per scegliere le linee più belle nel farci fotografare da Marco, e la più brava è Renate Seeber.


Il giorno dopo, ancora noi quattro, ci rechiamo allo Stausee (Lago di Neves) dal paesino di Lappach. Ma una pesante nevicata ci rimanda, ancora inappagati, dall’Ahrntal a casa. E passerà un anno prima di poter tornare…
A Milano continuavo a pensare alle giornate passate a Leutasch e non riuscivo ad accettare di essere stato respinto, sia pur con sofferenza. Le scrissi questa fantasia, dove cercavo di esprimere gli sforzi che facevo per dimenticarla.
Un parco nazionale di nome Michaela
Con nervosa rassegnazione Leo avrebbe ceduto al sonno, non c’erano neanche più mosche da scacciare con la coda. Quella coda ch’era il terrore degli altri animali. Bastava un suo piccolo movimento e si poteva spiare l’umore del monarca. Prendiamo le code delle vacche: si muovono a ritmo con uno scopo preciso. Il colpo di coda arriva ciclico e prevedibile quando la mosca si è appena posata. Con la coda delle vacche potremmo misurare il tempo, un pendolo naturale per i pomeriggi d’ozio.
La coda di Leo invece seguiva altri programmi: come un Ufo, quando si muoveva era a scatti senza fretta né direzione, un umore vagante. I meccanismi del suo movimento erano simili a quel fantastico assemblaggio di muscoli ed ossa che faceva l’andatura di Leo così particolare. Forza ed elasticità non allenati, spontaneamente selvaggi. Nato così, per incutere ammirazione e timore nelle altre creature di Dio.
Ma poi era successo qualcosa di imprevedibile e spiacevole. Attorno a lui la natura si era allontanata, disgregata. Le sembianze erano impallidite e gli oggetti apparivano amorfi. Perfino le mosche avevano cessato di fare le mosche. C’era abbondanza di animali morti, dappertutto Leo poteva incontrare carogne fresche e si dannava di non aver più nulla da cacciare: sembrava che gli animali preferissero morire un attimo prima di essere cacciati da lui. Morire per morire, meglio farlo soffrire un po’.
Di leonesse neanche parlare: erano tutte state deportate in altri sistemi mentali, così lontani da lui che anche la sua parte più fisica si rifiutava di riconoscerli. Era tutto finito, non rimaneva che terminare lentamente alla ricerca dello sbadiglio più lungo.
Per la sua natura di animale, Leo non poteva chiedersi più di così. Chi si era in realtà allontanato? Lui stesso? E la deportazione della vita cui aveva assistito chi l’aveva provocata? Lui stesso? Non sono domande che un leone può farsi, anche se privato della savana e degli animali alla sua corte.
Perciò se ne stava sdraiato per terra a pancia in giù e aspettava la fine.

Due o tre volte alla settimana si addormentava profondo, e allora finalmente quella coscienza così terribile che gli faceva apparire oggetti ed esseri miseri e indegni di essere vissuti si affievoliva. Nel sonno il sole era spento, ma anche quella così fastidiosa torcia sfolgorante che nella veglia lo opprimeva ora si riduceva, si limitava ad essere lumicino, luminoso quel tanto che serve per non smarrirsi in un sistema innaturale e in assenza di coordinate.
Prigioniero della sua nobiltà, certe notti gli sembrava che non tutto fosse perduto. Nel sogno sembrava che nelle lontane terre di nord est, là dove sapeva che a volte si beveva così tanto da non poter raggiungere la capanna accanto, al di là di quelle grandi montagne dove lui un tempo cacciava sereno, là forse il Tempo e l’Abitudine non avevano distrutto quel mondo naturale di cui lui aveva tanto bisogno. Forse là era rimasta un po’ di Concentrazione, anche se quella non bastava mai.
Goffo e con qualche chiazza sulla pelliccia (un tempo così florida) si mise in cammino. Non sapeva neppure se lo stava facendo di giorno o di notte. Leo non sapeva se stava sognando o se davvero stava camminando trascinandosi dietro alcune palme, le sole piante che erano riuscite a sopravvivere nel suo mondo.
Per l’occasione si era travestito da uomo. Era costretto a farlo ogni volta che voleva cambiare dimensione. Non riusciva ad ingannare tutti, però con qualcuno ci riusciva il necessario per traghettarsi dove voleva. Se lo si osservava attentamente lo si riconosceva, bastonato sì, ma pur sempre leone con aspetto e odore tipici. Nel mondo degli umani sono tutti così pazzi che non si meravigliano neppure se vedono un leone travestito da uomo trascinare delle palme.
Leo non dovette però camminare molto. Alle porte di una grande via che gli sembrava di aver già conosciuto s’imbatté in un cartello nero che agitava leggero i suoi fronzoli scuri al vento di una festa. C’era scritto “Michaela National Park”. Sotto, una scritta più piccola ma assai minacciosa recitava, in più lingue, “Every predator will be killed on sight, every weak heart will be pushed away”.
Non sembrava ci fossero cancelli di entrata, né filo spinato né muraglie con cocci di vetro al colmo. Sembrava così bello… Il temerario entrò. La stranezza di quel nuovo mondo lo catturò dopo pochi secondi. La vita di quel luogo era promettente e minacciosa. Sentiva mormorii ed echi di voci melodiose, sembrava che un esercito di sirene invisibili fosse schierato al suo passaggio incerto. Eppure qualcosa doveva esserci là in quelle selve, un mistero da svelare con gli occhi, con il fiuto, con i polpastrelli delle zampe. Un rapace non avrebbe potuto essere più attento. Nel parco nazionale di Michaela sembrava ci fosse un gran frizzare di vita, una fresca gioia cosciente di essere lì per caso, cosciente di dover presto farsi da parte e far luogo ad una lenta corrente di malinconia; una gioia che correva perché senza pretese di costanza, anzi felice d’esserci e di non esserci, compagna fedele non di un dolore vero ma forse solo di un tranquillante, forse amica insostituibile dello struggente rimpianto per la perdita di un paradiso terrestre, dell’occasione perduta ogni volta che si era intravista o che se ne era potuta assaggiare la fragranza, come se di paradisi terrestri ce ne fossero milioni.
Dunque, quella gioia casuale che Leo vedeva nelle belle cose attorno a lui non poteva essere che per lui. Anche un animale poteva comprendere la sincronicità dei due eventi. Così pensava il suo pensiero semplice e questa sicurezza gli teneva compagnia nei suoi vagabondaggi alla ricerca dell’odore di quella terra per nulla promessa, anzi negata da cartelli agghiaccianti.
Due gemme stupende, liquide, erano al centro del parco. Spesso si chiudevano alla vista di Leo in un’immobilità apparente, come ostriche di un mondo irraggiungibile. Leo le fissava, quando erano dischiuse, e ne vedeva la mobilità di fiamma, una contraddittoria e contorta melodia visiva. Talvolta sembrava che le due gemme si interrogassero sulla propria sorte, che chiamassero a raccolta ogni conoscenza, ogni dato a disposizione per elaborare un responso. Di chi è questo cuore, sembrava chiedessero a se stesse le due gemme, cosa vuole questo nostro cuore che, dunque, è vero, sarà selvaggio fino alla fine? Le due gemme emettevano segnali come una stazione radio che stia per affondare nell’Atlantico, parole smozzicate scritte su cartelli vistosi come chiamate di soccorso, suonavano “non deve essere così come dici, non devi essere quello che sembri”. Le gemme si agitavano impazzite tra le fiamme e i vapori, travolte e anche un po’ vendicative, pronte a stracciare i complimenti, a fare terra bruciata ancor prima che guerra si dichiarasse.
Un parco nazionale alloggia specie protette, si disse Leo addolcito, a sua volta però impaurito dalle minacce di espulsione violenta e da quell’agitarsi caotico che intravedeva dietro alle due gemme. Cominciò a pensare che quello era un gran bel posto dove stare, ricco di una magia mai vista nelle sue savane e tra le sue montagne. Un’oasi da proteggere e da difendere dagli intrusi, perché solo lui si sentiva di poterlo fare, solo con il suo tipo di amore si poteva fare. Si sentiva pronto a dare e a subire. Lo voleva con tutte le sue forze. Cercava il modo di tradurre questa volontà in un atto pratico, perché lì non c’era alcuna leonessa in calore, lì c’era una mente che chiedeva disperatamente d’essere amata come tale, con la sua durezza, la sua mobilità, gli sbalzi, le ripicche, la violenza e la tenerezza che di volta in volta le due gemme erano capaci di comunicare, magari assieme ad un enorme bagaglio di conoscenze sulla psiche animale dei rapporti umani ed in un generale quadro di matematica perversa.
Più o meno come Michelangelo che urla al suo Mosè “perché non parli?”, Leo si ostinava a voler comunicare con Michaela, con la differenza non da poco che Michaela non era una sua creatura di marmo, ma era magnificamente viva come lui, fino a poco prima dormiente come lui e, come lui, ora dominata dall’ansietà per la prossima devastazione. L’unica speranza che Leo aveva di poter frequentare il parco e di respirare quell’aria così intera era di scavare a grandi zampate dentro al suo proprio cuore e di estrarne il suo aspetto femminile, occulto, debole. Buttare via il travestimento da uomo, apparire per quello che era, ma offrire anche, con le mani insanguinate, la sua femminilità a pegno di sesso e amori futuribili. Il suo desiderio di figli, di parto, di essere pieno di latte, di fare da mamma ad una grande belva. Se qui ci sono leonesse, lo diventerò anch’io, si disse. Per non essere scacciato dal parco.
Leo accarezzava il muschio morbido ed umido che giaceva accanto alle due gemme. Le sue zampe sembravano quelle di un cucciolo, i suoi occhi sembravano dire “sono qui, sono io, proprio io. Non mi aspettavate? Scusate il disturbo, ma qui devo essere padrone io”. Le due gemme, il muschio, le sorgenti vicine vibravano come una sola cosa, sembravano impazienti di trasformarsi nella più splendida e fiera leonessa con cui un leone potesse interagire da leone. C’erano degli ostacoli, però.
Erano solo oggetti antichi in vetrina, ma chissà quante cose avevano da raccontare. Le parole sentite fino ad allora erano mormorii delle chiome degli alberi, gli oggetti in esposizione non parlavano, non raccontavano e non dischiudevano il loro mondo. Ma volevano farlo. Leo cominciò a tamburellare con le dita, anche lui impaziente.
Nell’aria cominciava a diffondersi un profumo di dolce cucinato in casa, come se migliaia di torte uscissero in quel momento dal forno. Tra le tante mediterranee, cremose e barocche, ecco le austere crostate ed ecco i tanto amati strudel. E ce n’era uno che si distingueva, Leo si diceva “è quello, quello è lo strudel che ho sempre desiderato, con la pasta appena un po’ crudina”.
L’orario di apertura del parco non era fisso: capitava di trovarlo spesso chiuso e di dover tornare. Quella sera centinaia di visitatori bambini erano alla ricerca della propria torta smarrita nell’abbondanza: l’ora in cui le belve si nutrono, l’ora del pasto. Una ragazzina, forse più smarrita di altri, non cercava la sua torta e mormorava che la sua non era più come una volta, più d’uno l’aveva presa, assaggiata, sbocconcellata, leccata, sbattuta. E lei l’aveva lasciato fare, meravigliandosi che quelli non riuscissero a prendersi tutta la sua torta, perché lei voleva darsi tutta e se questo non succedeva era responsabilità loro. Non ce la facevano perché era troppo buona e dopo un po’ sentivano che rischiavano di perdere materia, proporzioni e coordinate in un incanto davvero celestiale e avevano paura. C’era un limite che i codardi non osavano oltrepassare. E allora lei vedeva la sua torta come uno spreco della natura, come un avanzo contaminato e quando quelli, sopraffatti comunque da un desiderio più grande di loro, si riaffacciavano incerti come iene solitarie per sfamarsi ancora con i soavi bocconi, lei ritirava senza pietà gli avanzi.
Poi però non sapeva più a chi riferire le responsabilità di ciò che era successo: se a se stessa e alla sua educazione, a loro, alle stelle che sanno già ogni cosa o a tutti questi attori insieme. E non rimaneva che cucinare un altro strudel, con amore e pazienza, nella convinzione che una Vergine dovesse essere tale per sempre, fino alla prossima contaminazione, fino a perdere la ricetta originale della nonna, la casa della quale non si poteva già più raggiungere per il troppo vino buono bevuto.
Ma Leo non aveva dubbi: quello era lo Strudel originale, il padre di tutti gli strudel. Senza sapere il perché la ragazzina si fermò nel parco oltre l’orario di chiusura. Forse desiderava ricevere con Leo il Sacramento più nobile, la prima Comunione di una Vergine. E l’ostia era proprio la sua torta, uno strudel che Leo le stava riportando con la bocca e con i denti ma con delicatezza, senza azzannare né sbavarci sopra con ingordigia, come un mastino riporterebbe un bambino sacro al padrone, felice d’averlo ritrovato in mezzo a tanti altri bambini apparentemente uguali.
Quella notte avevano fatto le 4, ed era troppo tardi per altre favole.
C’era solo spazio per qualche avventura, purtroppo senza alcun futuro. Nel maggio 1999 fu finalmente pubblicata la guida Mesolcina-Spluga, dopo 17 anni di gestazione. Qui sotto la dedica che chiesi ad Angelo sulla mia copia.
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Bergheil.
Sono tanti anni che spero di visitare le magnifiche valli al confine con l’Austria e di salire qualcuna di quelle cime. L’ambiente naturale, per fortuna, è rimasto quasi integro e l’atmosfera che si respira è ancora quella di una volta.
Il racconto del “nostro” Alessandro mi ha invogliato ancor di piú.
Una gita scialpinistica dopo due sole settimane da un’operazione al menisco? Bene!
O male?
Bello e utile, soprattutto per le tutine mordi e fuggi che di norma non si fermano in malghe o rifugi e non conoscono le delizie primaverili dello scialpinismo classico.