La “guida grigia” della Sicilia

La “guida grigia” della Sicilia
di Giuseppe Maurici
(pubblicato in La Pietra dei Sogni, 2014)

Descrivere la situazione arrampicatoria della Sicilia nei primi anni ’80 significa parlare di emozioni vissute in prima persona in compagnia di persone cui mi lega un profondo affetto, a volte un vero e proprio legame di sangue.

L’arrampicata in Sicilia è sempre stata appannaggio di pochi, per la mancanza di ambiente montano che non ha permesso che si formasse una cultura di montagna; questo è tanto più vero parlando di Palermo, la mia città, ma anche paradossalmente la città in cui l’arrampicata siciliana ha mosso i suoi primi passi, dapprima timidi, poi sempre più decisi ad aprirsi a un mondo sconosciuto ma foriero di promesse.

Diversa la situazione a Catania, dove la presenza imponente dell’Etna, ha comunque consentito l’affermarsi di una cultura più montanara rispetto alla Sicilia occidentale; facendo un paragone quanto meno azzardato, si potrebbe dire che la Sicilia occidentale ha avuto nella storia alpinistica siciliana lo stesso ruolo delle Dolomiti nell’evoluzione dell’arrampicata rispetto alle Alpi Occidentali, da un lato la Montagna, dall’altro le pareti.

Le Madonìe

Quando noi abbiamo cominciato, e per noi intendo oltre a me, Roby e Gabriele Manfrè, Marco Bonamini e Giulio Naselli, cui si sono affiancati a fine anni ‘70 altre figure di spicco, come Maurizio Lo Dico, Alessandro Bellavista e Tonino Paladino, era tutta un’avventura fin dall’uscita da casa. Lo stacco tra le generazioni di arrampicatori precedenti e la nostra era inimmaginabile e non si aveva alcuna notizia di quello che i nostri predecessori avevano fatto, né chi fossero i piantatori di quei misteriosi chiodi in cui ci imbattevamo ogni tanto.

Non si parlava di generi di arrampicata free climbing, free solo e altre distinzioni per me poco utili se non a rimarcare differenze e consentire a diversi galli di vivere nello stesso pollaio fingendo di essere i soli.

Tutto era arrampicata che oggi verrebbe definita di avventura, fatta dai pochi muscoli di cui eravamo dotati e dalla testa, e a volte anche questa poco usata.

Il nostro privilegio è stato quello di scalare in ambienti molto simili a quelli che avremmo scoperto poi nei 100 Nuovi Mattini senza aver dovuto lottare col mondo circostante per infrangere una tradizione consolidata, dato che quella era la nostra montagna, dove tutte le vie, poche, finivano su un altopiano e raramente si “conquistava” una cima e quindi ci è stato facile inserirci, almeno culturalmente nel “Nuovo Mattino” e ritrovarci poi negli scritti di Gian Piero Motti (I Falliti e altri) e dello speleologo prestato alla roccia Andrea Gobetti, con la sua frontiera da immaginare e intravedendo altre realtà.

Alla fine degli anni ‘70 già sapevamo che c’era un mondo non più fatto di pantaloni alla zuava e calzettoni rossi ma, oltre i facili stereotipi, il nostro spirito era sempre quello pionieristico di chi inizia qualcosa su un terreno praticamente vergine e senza modelli preesistenti da copiare o emulare, se non un accenno alla ribellione che covava ma non aveva ancora trovato il proprio zenith con le gare di arrampicata.

In questo panorama felice si inserisce la conoscenza con il mondo degli alpinisti, dapprima i romani che arrampicavano in posti simili ai nostri, ma avevano conoscenza della montagna, quella vera, poi per il loro tramite, con il Mezzogiorno di Pietra e il suo autore.

Sulla base dell’accresciuta conoscenza e consapevolezza, si decise, io e Roby, di scrivere la guida grigia, con l’aiuto di Fabrizio Antonioli e la benedizione del rimpianto Gino Buscaini, l’anima prima ancora che la mente delle guide CAI-TCI.

Durante i quasi 20 anni che ci sono voluti per scriverla il mondo, il nostro mondo, ha cominciato a cambiare, dapprima dolcemente, poi con violenza sempre maggiore e al piccolo giro di amici che si incontrava sotto le pareti e ci si misurava si è andata sostituendo una folla di persone che, pur fortissime fisicamente, dimenticava o meglio disconosceva il cammino che, a loro insaputa, li aveva portati a trovarsi alla base di una parete, e compiere gesti identici a quelli di molti altri prima di loro.

Il fil rouge che ci ha guidato fin dall’inizio, me e Roby, nello scrivere la guida è stata la continuità, raccogliere e portare avanti un testimone, con la speranza di poterlo, a nostra volta, trasmettere a qualcun altro e consolidare una tradizione, nel senso alto del termine.

E così ci siamo andati a cercare i guai seguendo le tracce lasciate da Umberto Capotùmmino sullo Schiavo, dove lui ha tracciato vie di rara bellezza, o di Gino Soldà e Fosco Maraini, pionieri dello sviluppo dell’arrampicata e delle scuole di roccia in Sicilia e di altri, siciliani e non.

Accanto a questo, l’esplorazione delle nostre pareti, prima di tutto quelle domestiche del Monte Pellegrino, così vicino e così poco conosciuto ai più, per poi ampliare gli orizzonti a San Vito e tutto il trapanese.

Ma, a causa di quei cambiamenti cui accennavo prima, più il lavoro andava avanti, più si affermavano le nuove tendenze, che solo Roby, per la sua innata bravura e il suo carisma, avrebbe saputo guidare verso un felice punto d’incontro.

La sua morte ha spezzato questo lavoro, tagliando anche i legami che univano le due anime dell’arrampicata, da un lato quella oggi definita “trad” (che brutto termine) dall’altro quella sportiva. «L’arrampicata è una disciplina che ci permette di confrontarci con noi stessi e le nostre paure, conoscere il nostro corpo e i nostri limiti… … Tutto questo ha un senso se viene svolto in piena sicurezza…”. Questo è un frammento di una mail che è giunta in questi giorni agli arrampicatori locali, per chiedere di contribuire a richiodare alcune falesie e nella quale io colgo un’evidente contraddizione: non si possono conoscere i propri limiti se non c’è il dubbio, l’incertezza. Una volta era così e per me continua a esserlo.

La Guida CAI-TCI è poi uscita nel 2001 e nel finirla si è voluto tenere conto di entrambe le anime, dando tuttavia la prevalenza a quella alpinistica. Di quel momento conservo due ricordi che voglio condividere: il primo è lo stupore di uno scalatore palermitano degli anni ’50, Luigi Di Giorgio, quando, spinto dalla curiosità, ha voluto sapere che ne fosse delle scalate in Sicilia, lui che aveva smesso dopo la laurea per andare a lavorare a Roma e si è commosso nel vedersi conosciuto e riconosciuto da parte nostra come uno di noi e nello scoprire che le sue vie esistevano ancora; il secondo, ancor più prezioso perché chi lo ha scritto non c’è più, ed era un grande, è una lettera che Fosco Maraini mi ha scritto dopo l’uscita della guida, corredata da alcune sue foto originali di scalate e scalatori siciliani degli anni ’40. Nella lettera Maraini scrive: “Le parrà di ricevere una missiva dall’oltretomba” e ancora “grazie per le benevole menzioni”; per me questa sua lettera, così come l’incontro con Luigi Di Giorgio sono stati il chiudersi del cerchio.

E allora la Guida Grigia è stata la possibilità di riannodare le fila di un discorso avviato da altri e poi dimenticato, per essere infine recuperato alla memoria alla fine di un percorso durato oltre 70 anni di arrampicata e che ha visto tante persone, più o meno famose, succedersi e affiancarsi nel percorrerlo e svilupparlo, diventandone tutti protagonisti, presenti e passati.

Oggi, quando la memoria è breve e tende a dimenticare o ignorare le tracce preesistenti, arrivando a cancellarle pur di affermare il proprio ego, è importante che ci si ricordi di chi prima di noi ha cominciato a tracciare la strada lungo la quale ci muoviamo e questo è il senso dello scrivere.

Giuseppe Maurici è nato a Palermo il 25 agosto 1960.

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La “guida grigia” della Sicilia ultima modifica: 2022-05-10T05:31:00+02:00 da GognaBlog

13 pensieri su “La “guida grigia” della Sicilia”

  1. 13
    Fabio Bertoncelli says:

    Propongo di nominare Luca vecchio scarpone ad honorem, con consegna di diploma e medaglia dalle mani di Alessandro Gogna, primo solitario sullo Sperone Walker a ventidue anni nel 1968, con vecchi scarponi.
    Alla faccia delle tutine.

  2. 12
    luca mozzati says:

    Aggiungo ai bei ricordi citati da chi ha scritto la guida che tra 1970 e 1972 ero un ragazzino in vacanza a Santa Ctistina. Mio papà arrampicava con le guide e gli è capitato di condividere le sue avventure con un ragazzo che veniva dalla Sicilia, in 500, e nella 500 dormiva pure, per risparmiare i soldi per pagare le guide suddette. Tra gli altri Ludwig Moroder, Giovanni Senoner, Enrico Pederiva (portatore molto statico più che guida) e altri di cui non ricordo i nomi. L’ardito siciliano riuscì nell’ambitissima ed estrema, ai tempi, Comici al Salame, dove invece mio padre ebbe uno spaventoso incidente, per caduta di una delle guide, ma questa storia non c’entra con la Sicilia. Magari Maurici può risalire al nome di questo ragazzo, piccolo di dimensioni (non ci sarebbe stato nella 500) ma grande di sogni.
    Detto tra noi, per vivacizzare un po’ questo post che è stato definito da “vecchi scarponi”, preferisco la retorica alla Rey/Lammer (cit. Cominetti) che le tutine mentali carboidrate e palestrate di tanti falesisti odierni. Anagaficamente temo di essere tra i suddetti vecchi, ma le prime pedule le ho comprate a Courmayeur nel 1975, e non erano molti ad averle al tempo. Ricordo a questo proposito una diatriba col gestore del rifugio Gamba, ma non entro nei particolari per la decenza

  3. 11
    Alberto Benassi says:

    «L’arrampicata è una disciplina che ci permette di confrontarci con noi stessi e le nostre paure, conoscere il nostro corpo e i nostri limiti… … Tutto questo ha un senso se viene svolto in piena sicurezza…”. Questo è un frammento di una mail che è giunta in questi giorni agli arrampicatori locali, per chiedere di contribuire a richiodare alcune falesie e nella quale io colgo un’evidente contraddizione: non si possono conoscere i propri limiti se non c’è il dubbio, l’incertezza. Una volta era così e per me continua a esserlo.

    più che una evidente contraddizione è la condanna a morte dello spirito avventuroso dell’arrampicata.

  4. 10
    daniele piccini says:

    Marcello, prendo atto, ma l’articolo parla di storia più che di luoghi, i luoghi sono il contesto.

  5. 9

    Daniele, rileggiti il commento 1 e vedrai che non è del tutto come sostieni.

  6. 8
    daniele piccini says:

    Nessun commernto è pertinente con questo bellissimo e lucidissimo articolo, alla fin fine parlate sempre di voi, tra voi

  7. 7
    Alberto Benassi says:

    Però ho arrampicato sul Gran Sasso. Signor Cominetti, le basta per non bocciarmi come vecio scarpun? 😂😂😂

    Una 20 ina di vie al Gran Sasso possono bastare? 😂

  8. 6
    Carlo Crovella says:

    Non necessariamente è l’argomento (più o meno tradizionale) del giorno a ispirare o non ispirare il desiderio di lasciare dei commenti. Alcuni miei conoscenti, caianissimi e vacchioscarponissimi (perfino più di me), leggono quotidianamente il Gogna Blog, ma lo approcciano come se fosse una tradizionale rivista di montagna e quindi non lasciano mai commenti per principio, neppure quando l’articolo riguarda temi classicissimi, come alpinismo o scialpinismo o escursionismo ecc. Immagino che capiti a molti lettori, anzi a sensazione credo che siano la maggioranza. Dico questo per tutela degli autori che magari ci “restano male” a verificare pochi commenti ai loro testi…

  9. 5

    Provocare funziona.
    E poi ho detto che “le eccezioni non mancano”.

  10. 4
    Carlo Crovella says:

    Io sono un caiano vecchioscarpone, ma ciò nonostante posseggo da decenni la copia di Mezzogiorno di Pietra con dedica di Gogna e ne ho tratto ispirazione per diverse belle arrampicate in Sardegna. In Sicilia non ho arrampicato, ma non si può fare tutto nella vita, non c’è tempo a sufficienza per tutto. Da bravo buogia-nen torinese, ho così tante cose a portata di mano che… tuttavia questa mia filosofia non mi impedisce di apprezzare i libri dedicati a territori lontani o addirittura molto lontani.

  11. 3
    Fabio Bertoncelli says:

    Ho sbagliato le faccine per Marcello.
    Quelle esatte sono queste qui: 😜😜😜.

  12. 2
    Fabio Bertoncelli says:

    Perché fare mille chilometri quando con 80 arrivo alla Pietra di Bismantova, con 300 sulle Dolomiti, con 350 nelle Alpi Carniche, con 400 in Valle d’Aosta e nelle Alpi Marittime, con 500 nel Vallese? Per di piú Berlusconi non mi ha neppure costruito il ponte sullo Stretto, per cui dovrei essere traghettato da Scilla a Cariddi.
     
    Però ho arrampicato sul Gran Sasso. Signor Cominetti, le basta per non bocciarmi come vecio scarpun? 😂😂😂

  13. 1

    Il mezzogiorno di pietra ha sempre avuto poco fascino per i veciuscarpùn, da cui la scarsità di commenti sul blog, che è evidentemente frequentato da una maggioranza di questo tipo.
    Eppure le rocce meridionali riservano un terreno che per certi versi è più ricco di quello alpino. 
    Gli arrampicatori dell’ultima generazione, cioè quelli esenti da eroismi stile Rey/Lammer, affollano le falesie del sud trovandole giustamente molto belle e immerse in contesti splendidi e accessibili, ma l’alpinista caiano in genere le snobba ritenendole di serie B.
    Non per polemica ma solo per evidenza di fatti generalizzati. Ovvio che le eccezioni non mancano.

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