Tragedia a Castelmagno (CN): un’auto finisce fuori strada, morto il conducente 24enne e quattro ragazzi tra i 14 e i 17 anni. E’ successo in prossimità del rifugio Maraman, lungo la strada per monte Crocette. Le vittime sono Marco Appendino, 24 anni, Samuele Gribaudo, 14 anni, Nicolò Martini, 17 anni, Elia Martini, 14 anni e Camilla Bessone, 16 anni.
Sulla dinamica dell’incidente gli investigatori non hanno escluso nessuna ipotesi, neppure quella che un animale abbia attraversato all’improvviso la strada, anche se la più probabile sembra essere una banale distrazione.

Di certo, su quel mezzo, un fuoristrada Land Rover Defender 130, potevano viaggiare al massimo sei persone ma a bordo, quando si è rovesciato precipitando lungo il pendio per diversi metri, erano in nove. Tutti in escursione notturna per ammirare, dalla cima del Monte Fauniera, le stelle cadenti della notte di san Lorenzo.
Riportiamo qui sotto l’articolo di Michele Sasso che informa dello sfogo del sindaco di Castelmagno: purtroppo non condividiamo l’opinione del sindaco, per la quale sarebbe bastato un cartello per segnalare la curva e quindi evitare la tragedia. Tutte le vittime conoscevano quei luoghi e quella strada (basta pensare a Nicolò Martini, diplomato “operatore edile”, che già aiutava suo padre ad accudire e portare al pascolo le mucche per produrre il formaggio Castelmagno. Lo sfogo del sindaco, certamente sincero e legittimo, è però un po’ pretestuoso, per far richiamare l’attenzione sul comunque grave problema delle manutenzioni delle strade comunali.
Abbandono e mancanza di risorse
di Michele Sasso
(pubblicato su La Stampa del 13 agosto 2020)
Lo sfogo del sindaco di Castelmagno, Alberto Bianco, è emblematico: «Mi sento responsabile, ma anche impotente. Bastava un cartello che segnalasse la curva, forse non sarebbe successo. Il nostro è un comune di 54 abitanti che ha 25-30 km di strade da tenere in ordine, con pochissimi trasferimenti dallo Stato e mi rendo conto diverse volte che la segnaletica è carente».
Un destino comune di tante amministrazioni di montagna che, oltre alla viabilità ordinaria, hanno un reticolo di mulattiere, strade bianche, piste pastorali e sentieri da gestire. Per il codice della strada sono tutte vie di comunicazione, ma la realtà è ben diversa se passano gli escursionisti, i trattori o gli animali. Solo il Club Alpino Italiano (CAI) si occupa della manutenzione di oltre 60 mila km di sentieri in tutta la Penisola e per le strade bianche si stima una rete altrettanto estesa per mettere in comunicazione piccoli paesi o intere vallate.

«Sono tutte strade carrozzabili senza protezione e forse anche con i cartelli non si evitava la tragedia, durante l’alta stagione ci vuole la chiusura ma mi rendo conto che è una scelta drastica», ragiona Alfredo Gattai, responsabile dei sentieri del CAI.
Nessuna Regione ha un catasto preciso di quante e dove sono e non c’è un modello unico nazionale di classificazione: si va in ordine sparso tra comunità montane e amministrazioni locali. Anche le regioni più virtuose, come Liguria e Piemonte, che hanno messo in cantiere un enorme lavoro di rilevamento hanno però mostrato poca attenzione per questa viabilità spesso unica e obbligatoria per la popolazione residente nei borghi, nelle fattorie e nei poderi isolati.
In passato se ne occupavano le amministrazioni provinciali che avevano la competenza di 132 mila km di strade; ma sono collegamenti spesso “minori”, che fanno notizia solo quando diventano inservibili a causa della manutenzione azzerata dai tagli.

Nel 2014 con l’abolizione delle odiate Province le competenze – e soprattutto le responsabilità – si sono disperse in tanti rigagnoli burocratici e con la sparizione dei fondi si è accelerata l’agonia di queste vie di montagna con poco traffico segnate da uno stillicidio di frane, incuria, crescita della vegetazione e abbandono.
Con lo stop a tante attività imposto dall’emergenza Coronavirus molte di queste vecchie piste sono state definitivamente inghiottite dal verde. Strade bianche è spesso un sinonimo di sassi, buche, polvere, fango e terra. E di una corsa ciclistica sulle sterrate toscane diventata leggenda. Ma sono anche un patrimonio dal punto di vista naturale e paesaggistico. E uno strumento imprescindibile per arrivare alla meta di percorsi turistici alternativi in continua espansione e legati alla riscoperta della ruralità, al cicloturismo, all’enogastronomia, al trekking, al turismo «equestre», ai percorsi «spirituali» e religiosi. Per tutelarle e metterle al riparo dalle aggressioni di moto da cross e fuoristrada che arrivano a quote sempre maggiori, si era mosso anche un gruppo di parlamentari nel 2013 con un disegno di legge ad hoc che prevedeva anche finanziamenti pubblici per la loro manutenzione. Tutto rimasto in un cassetto.

Le nostre montagne e il senso del limite
di Paolo Cognetti
(pubblicato su La Stampa del 13 agosto 2020)
Quello delle strade bianche è un altro capitolo del tema sul difficile rapporto tra attività umane e paesaggio di montagna. Noi che andiamo a camminare in genere non le amiamo: le evitiamo, le lasciamo appena possibile e facciamo dell’ironia su quei cittadini da sterrata, che chissà perché preferiscono una carreggiata polverosa a un bel sentiero che sale nel bosco, e incrociare fuoristrada invece che caprioli.
Le strade di montagna non servono o non dovrebbero servire il turismo e i camminatori. Servono gli alpeggi, gli impianti di risalita e i rifugi, sono strade di servizio al lavoro: se un’economia dell’alpeggio esiste ancora, con il bestiame che d’estate viene trasferito in alta quota per produrre latte e formaggio, è perché ormai da molti anni la maggior parte degli alpeggi in attività è raggiunta da una strada. Gli altri sono stati quasi tutti abbandonati, né del resto sarebbe pensabile pretendere da un allevatore, oggi, di fare il suo lavoro a piedi (c’è chi eroicamente lo fa, ma questo è un altro discorso). Chi vede la montagna come spazio di libertà, e io sono tra questi, ha sempre detestato il lugubre cartello «vietato calpestare i prati». Ma chi la montagna ha imparato a guardarla con occhio disincantato sa anche che quei prati non sono un paesaggio selvatico, nel senso di incontaminato dall’uomo. Sono un paesaggio agricolo, sono campi falciati, pascolati, concimati e talvolta irrigati da un paziente lavoro umano: allora ha senso il divieto, la strada, il trattore.

Allo stesso modo, per i puristi come me, il vero rifugio alpino è quello che non ha mai visto un’automobile: però ho amici rifugisti e ho capito quanto costa, in termini economici e ambientali, portare spesa e rifiuti a spalla o in elicottero, invece che in fuoristrada. Ho anche visto le strade bianche nella stagione del disgelo, quando sui sentieri si incontra poca gente. Quasi tutte hanno tratti sotto valanga, in primavera sono dissestate dalla neve e dalle acque che le trasformano in letti di torrenti. Sembrano rustiche stradine ma mantenerle costa, i comuni lo sanno bene. Sono investimenti fatti perché in montagna si continui a lavorare. Per cui come sempre, quando si parla di paesaggio, ci vorrebbero equilibrio e senso del limite, responsabilità e amore per il territorio.
Non si può mettere una sbarra o un vigile a sorvegliare ogni strada. Siamo noi a dover capire chi le può usare, perché va verso casa sua o al suo lavoro: tutti gli altri, in montagna, dovrebbero andarci sulle proprie gambe. Questo è l’unico principio in grado di proteggere quel fragile equilibrio.
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Le strade bianche della mia infanzia sono quelle tra le colline marchigiane, ai piedi dei monti Sibillini. Fatte di sassolini, la breccia (con due B, dalle mie parti). Queste sinuose vie univano vici (villaggi contadini o pastorali) e paesini, che ne potevano vantare il nome, tra loro.
Erano strade per il carro trainato dai buoi, con il fieno da trasportare dai campi; erano la via del gregge fino al sentiero che poi saliva in alto; le strade dove ci si in camminava per andare da amici o parenti, con sempre qualcosa nel panno avvoltolato da portare, o per il passeggio di notte, sotto la luna, al solo lume dell’astro e delle sigarette, dove famiglie e bambini vocianti riempivano il buio di risate e strilli.
Erano strade dove sentivi solo lo scalpiccio crocchiante dei tuoi passi. E che si riempivano di ruscelli e fanghiglia, al tamburellante suono dei temporali. Ogni tanto un eventi! Un’auto, una 500 o una 600, strombazzanti e cariche all’inverosimile, di persone, bambini, animali, sgasavano impazienti dietro il trattore con su il contadino sghignazzante e per un giorno padrone del mondo.
Quel mondo non c’è più.
Sicurezza e modernità ne hanno imposto allargamento e asfalto. Oggi ci corrono i SUV di chi ha le seconde case. E non è gente che ti sorride o ti saluta se ti incontra sulla strada.
I panni avvoltolati con un dono, non li porta più nessuno.