Metadiario – 214 – La malattia (AG 1997-007)
I giorni a Levanto mi pesavano un po’, confesso. Il caldo, la spiaggia, la mancanza di dialogo con Bibi. Mi sembrava che le mie bambine si divertissero così tanto da non accorgersi neppure se il papà c’era o no. So che non era vero, ma allora mi era forse comodo pensarlo. Mi diedi da fare per modificare la situazione, almeno in parte.
Che cazzo c’entra Loredana Berté?
(quattro giorni al rifugio Vazzoler)
di Luca Visentini
(già pubblicato in Il paese, di Luca Visentini, Luca Visentini Editore)
Mi chiama Gogna da Levanto a Cimolais e mi dice che laggiù si sta rompendo le scatole e mi domanda se per caso ho in programma delle scalate quassù nelle Dolomiti. Gogna che s’interessa ai miei programmi? Gli rispondo di sì, che l’indomani salgo in Civetta con due amici per tre o quattro giornate. Mi chiede allora se ci può raggiungere. Gogna che vuole accompagnarsi a noialtri? Alessandro Gogna, il Felice Gimondi o il Keith Richards dell’alpinismo, una leggenda vivente a spasso per i monti con me e i Ragazzacci? Ne sono soprattutto lusingato, però la faccenda un tantino mi preoccupa. Non già per la nostra, inevitabile, brutta figura. Ché in lui prevale l’uomo sulla competizione, la ricerca sull’esibizione. È che lo so “preciso”, mentre noi azzecchiamo talvolta qualche cima e per lo più siamo votati all’anarchia. Comunque sia, va bene, si combina.

L’indomani dunque c’incontriamo nella Val Corpassa. Lui arriva in piena sindrome da GPS e ha viaggiato con un congegno apposito sull’auto, un viaggio fluido, “costantemente a 120 all’ora”. Tino (Paolo Carcano, NdR) e lo Squiccia (Stefano Squicciarini, NdR) ne sono soggiogati.
(C’è anche Mario Crespan, il disegnatore che è anche socio di Luca nell’impresa di scrivere il monumentale Civetta. Non capisco perché Luca in questo articolo non lo ha mai citato, forse perché è stato con noi solo il primo giorno, NdR).
Saliamo al Vazzoler. Ceniamo dentro. Usciamo dal rifugio. Tino e lo Squiccia estraggono una bottiglia di grappa “Noi e voi”, la più economica, comprata per tremila lire vicino a Fiera di Primolano. Fiera di Primolano? Alessandro obietta. Ma come spiegargli al momento che non sopportiamo più quanti sull’alpe ti indicano a ogni passo un posto, che odiamo la Guséla (del Vescovà) spesso avvistabile e scontatamente additabile, che preferiamo in cammino il silenzio e abbiamo preso l’abitudine di storpiare apposta i nomi quale legittima difesa? Come raccontargli, per esempio, che proprio lo Squiccia nell’ultima gita scialpinistica sul Colbricón ha mandato in confusione un invadente saputello della SAT scambiando la funivia della Marmolada con la Casera Cornetto e il Passo Cereda con la Val Bosco del Belo? Gli offriamo, meglio, un sorso. Tuttavia lui si nega, affermando che sa in che modo va poi a finire. No, lo rassicuriamo, solamente un goccio a testa. Lo sa e sa pure che Tino sta per Vomitino. Svuotiamo, infatti, davanti alla chiesetta, il contenuto.

Il primo giorno in montagna punto alla Torre di Pelsa. Diritto per la normale. Alessandro, invece, vorrebbe un giro prolungato e panoramico. Fotografare più rilievi dei Cantoni di Pelsa. Tino va quindi con lui, per la Croda e il Castello di Pelsa. La Guglia nonché il Tridente. Sempre di Pelsa. Lo Squiccia e io portiamo la corda. Alessandro ancora, ai saluti: – Non hai letto nelle relazioni pubblicate che fuorché 5 metri è soltanto un II grado di difficoltà?
– Sì, per Vincenzo Dal Bianco e Giovanni Angelini, Oscar Kelemina, Giorgio Fontanive.
Sì, senza sorprese. Arrivederci in cresta. In cresta, adesso. Lo Squiccia e io stiamo attaccando il nostro torrazzo sommitale. Sentiamo un richiamo, Alessandro è alle spalle. Ci abbranca in un lampo. Gli serve la corda per recuperare Tino. Lo Squiccia e io aspettiamo. Lo Squiccia contempla e sussurra: – Peeelsa.
– Pelsa?
– Qui tutto è Peeelsa.
– Senti, piuttosto, quando torna la corda riattacca all’istante.
Ritorna la corda. C’è il buon Tino. E c’è Alessandro: – Vorrei sapere cosa ve ne fate di una corda di cento metri?
Lo Squiccia la riprende silenzioso. Impiega un secondo: la taglia a metà con una pietra piatta che batte sopra una pietra aguzza.
– No! No! Dicevo così per dire. E oramai, chi parte?
Guardo lo Squiccia. Lui guarda altrove, verso il cielo totale di Pelsa. Parte Alessandro. Riguardo lo Squiccia.
– Oh, è Gogna!
Su nel camino: – Che grado? È difficile?
– Più che difficile… è straaano.
Ho capito. Il quarto grado superiore dello Squiccia. Raggiungiamo Alessandro e Tino sulla vetta della Torre di Pelsa (variante Castiglioni, NdR). Una vetta importante. Alessandro in centottanta secondi: chioda, butta la doppia, va giù per uno strapiombo. Rientriamo attraverso il Tridente. La Guglia. Il Castello e la Croda. Di Pelsa. Alessandro aiuta anche me. Alessandro: – Per carità, non vorrei offendere i loro primi salitori, ma queste altre quote mi sembrano topograficamente irrilevanti.


Il terzo giorno saliamo tutti assieme la Cima dell’Elefante. Alessandro, in una situazione degna d’Indiana Jones, si emoziona toccando per primo con la sua mano l’estremità della proboscide. Una proboscide di 150 metri! Si affaccia a una bolgia di pilastri, d’inghiottitoi, di buchi neri. Mi avverte: – Luca, Rivelazioni Dolomitiche!
Sopra la Cima dell’Elefante (salita per la parete sud-est, via Videsott-Dal Prà-Rudatis, NdR), lui e Tino ripartono alla volta nuovamente della cresta. Lo Squiccia e io stiamo per inseguirli allorché li vediamo ritornare, lungo una cengia, dal canale nascosto e proposto nelle guide in commercio. Alessandro sentenzia: – Là dietro c’è un salto “invincibile”.
Tira su diritto per la Cima Listolade. Apre forse in mezz’ora una via. Più che difficile, “straaana” (in realtà abbiamo seguito, direi fedelmente, la via Videsott-Dal Prà-Rudatis, NdR). I ragazzi, io medesimo, siamo oramai conquistati. Facciamo le foto. In quella di Alessandro, lo Squiccia compare a sinistra e sullo sfondo di più spalti grandiosi. Nella mia lo stesso Squiccia, rivolto alla Cima delle Mede, sta sulla destra e sembra un soldatino scomposto in due pezzi. Scavalchiamo, inoltre, la Cima delle Mede. Poi, Alessandro trova il tempo addirittura per salire con l’itinerario più impegnativo il Dente della Henrietta.
Il quarto giorno Alessandro e io, soli, visitiamo il Castello della Busazza e doppiamo il Col dei Camòrz. Mi rimprovera, io affaticato, le sigarette. Mi guida sicuro, con dolcezza e premura. Le sue figliole ne hanno fatto un pane. Ci salutiamo, in ultimo, volendoci un gran bene.

E il secondo giorno? Piove. Siamo costretti al rifugio. Per lo Squiccia e Tino, con la birra alla spina sul banco, no problem. E per quanto mi riguarda, benché preferisca l’acquavite, idem. Adoro cazzeggiare. Fumare sul terrazzino, fermare il tempo. Alessandro, viceversa, è impaziente. Propone le carte. Giochiamo per tre, quattro, cinque lunghissime ore. Lo Squiccia, a scopone, tutte le volte che scende dichiara: – Spariglio. Anche quando è diverso. Alessandro s’innervosisce. Così che propongo a un tratto: – Se ci facessimo un bel tè?
Alessandro butta le carte sul tavolo e sbotta: – No! È troppo e tu ora me lo devi spiegare: che cazzo c’entra Loredana Berté?
Ok, io mi mangio le parole. Ho persino la erre milanese. Ma perché Tino e lo Squiccia non vengono in mio soccorso e fingono di studiare le linee di arrampicata tratteggiate sulle immagini esposte nel locale? Non staranno magari memorizzando le varie cavolate sortite in questi giorni onde usarle per degli infiniti tormentoni con Alessandro, qualora diventassimo dei buoni compagni? Fortuna che nella circostanza il cielo si riapre all’improvviso e corriamo tutti fuori, dispersi nei boschi e per i pascoli di Pelsa, a fotografare.
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A fine agosto 1997 iniziò la lunga serie di lavori a Compiano, nell’Appennino Parmense. Luca Santini aveva fatto sodalizio definitivo con Luca Marcora e la loro attività formativa aveva preso piede. Diluite in qualche anno, però, io partecipai a decine di queste sessioni outdoor. Saranno almeno 500 i dirigenti di Mediaset che accompagnai e circa 250 quelli di Banca Intesa.

L’uscita tipo consisteva nello seguire una prassi che si era definita con i primi esperimenti. Io mi alzavo ben prima degli altri e andavo, ancora prima di colazione, a verificare che il percorso di orienteering fosse in ordine. Tutti i segnali al loro posto, poi mi arrampicavo su un albero (sempre lo stesso) per apporvi un fazzoletto che i partecipanti avrebbero dovuto trovare e recuperare ingegnandosi. Mettevo anche una corda fissa su un dirupo in un bosco. Dopo colazione, il gruppo veniva diviso in due o tre squadre, accompagnate da almeno un istruttore e un formatore. Le partenze erano sfalsate, l’intento della prima squadra era di non farsi raggiungere dalla seconda e viceversa. C’era un quaderno di via che occorreva interpretare, c’era la dotazione di bussola e altimetro. Lo scopo di questa specie di competizione era ovviamente il lavoro di gruppo e l’investigazione dei vari meccanismi che si creano al suo interno (fiducia, gestione, carisma, potere, sottomissione). Il più spesso la disciplina spontanea riusciva a tacitare ribellioni e disaccordi. Ma qualche volta si verificavano litigi aperti, spassosi quanto istruttivi. L’escursione durava più o meno tre ore e l’arrivo era in una cascina abbandonata dove lo staff di Marcora provvedeva ad allestire un generoso picnic. Prima però c’era il rito del cosiddetto feedback, a squadre riunite, dove i formatori analizzavano ciò che era successo di notevole, interrogando, interpretando i silenzi, facendo meditare sugli errori e sugli atteggiamenti aggressivi, oppure non collaborativi, sempre fonte di ritardi ed errori.
A pancia piena ci si trasferiva in auto a Compiano e al suo bellissimo castello dove era in programma la calata verticale di 22 metri dalla torre di nord-est fino al prato. Ormai ogni gesto era canonizzato nel preparare l’ancoraggio, le imbragature e le corde; come pure standard era ciò che dicevo a tutti prima della prova. Coinvolgevo il gruppo nella verifica che imbrago e nodo sul partecipante di turno fossero controllati non solo da me. Pochissimi (direi una percentuale ininfluente) erano quelli che avevano già avuto un’esperienza del genere. In cima alla torre, in uno spazio coperto e tondo, il gruppo assisteva alle gesta del primo che si offriva. Il poverino doveva salire sul davanzale dell’ampia finestra (senza vetri) e da lì affidare il suo peso e le sue paure alla mia corda. L’esitazione maggiore si verificava nel momento del distacco dal davanzale. Le donne erano numericamente sempre inferiori agli uomini, ma quanto a volontà e determinazione li superavano. Su 25 partecipanti ce n’erano sempre due o tre che affermavano con sicurezza che da lassù sarebbero scesi solo con le scale, come erano saliti. Il gruppo, assieme a me, insisteva per il successo totale e le battute d’incoraggiamento aiutavano. Alla fine era in genere solo uno che rinunciava, quasi mai donna.


Il 27 settembre, assieme a Davide Dian e Federico Raiser, andammo nel Vallone di Noaschetta per fare fotografie. Ma questa volta non per I Grandi Spazi delle Alpi, bensì per un libro sul Canavese che Priuli aveva intenzione di pubblicare. Salimmo lungamente fino all’Alpe La Bruna, dove ci adattammo a pernottare in qualche modo. La mattina dopo salimmo al Becco dell’Alpetto 2801 m per riprendere il versante meridionale del Gran Paradiso nella sua totalità. Sempre nell’ambito di quel lavoro, il giorno dopo Federico ed io (senza Davide) salimmo al bivacco Pier Mario Davito. Dopo una cena frugale e una breve notte, ancora prima dell’alba salimmo alla Punta della Rossa 2707 m, ottimo balcone panoramico sulla Punta Gialin, sul Monveso di Forzo e sulla Torre di Lavina.

Da Milano, il 5 ottobre mi avviai da solo verso la Val Vigezzo. Non avevo le idee per nulla chiare, volevo una cima panoramica del versante destro idrografico di quella valle che non conoscevo assolutamente se non dopo un programma definito alla veloce sulla carta topografica. Trovai quei luoghi molto complicati, direi quasi per nulla accoglienti, con sentieri ostili che potevano fare concorrenza alle opposte montagne che davano sulla val Grande. Alla fine, purtroppo in condizioni fotografiche non ideali, terminai la mia giornata in vetta alla Quota 1950 m c. del Monte Mater, raggiunta da nord.
Altra escursione solitaria, ma come al solito con pesante carico fotografico sulle spalle, la feci il 14 ottobre. Salii da Settimo Vittone il più alto possibile con l’automobile (Alpe Carema 1500 m c.), poi mi avviai verso la vetta del Bec de Nona 2085 m, sul suo versante meridionale, allo scopo di fotografare le montagne vicine nell’ambito del programmato libro Canavese 360°.
Il 26 ottobre finalmente un po’ di arrampicata. Con Riccardo Bezzo, Giovanni Alfieri e Roberto Corsi salimmo la prima parte (sul cosiddetto Scudo) della via Destinazione Paradiso alla Cima alle Coste in Valle del Sarca. Il 3 giugno 1995 Tiberio Quecchia, Dario Ballerini, Claudio Stefani, Francesco Prati e Franco Culazzu avevano concluso la grandiosa apertura di Destinazione Paradiso, quella che diventerà, tra le vie moderne, la più bella della parete est di Cima alle Coste. Attrezzata nella prima parte sullo Scudo in modo sportivo, ad oggi se ne sono registrate centinaia di ripetizioni, mentre la seconda sezione, tra Oasi di Pace e Sole nascente, con chiodatura a fix ma da integrare, non ha avuto altrettanta fortuna, pur meritandola.
La sera del 14 novembre 1997 ero a Gemona in Friuli per una mia conferenza organizzata dal locale CAI. Fu una serata molto piacevole, perché arricchita dalla presenza di tanti ragazzi giovani con i quali ebbi modo di trascorrere tempo fino alle ore piccole. Potevo farlo perché ero d’accordo con Luca Visentini di passare la notte a casa sua: potevo arrivare a qualunque ora… Perciò, confidando nel fatto che a una cert’ora anche le pattuglie più agguerrite se ne vanno a dormire, cominciai il mio viaggio notturno, arrivando a Cimolais a un’ora improponibile. Dopo i saluti, con Luca non perdemmo tempo: lui tornò in camera sua, ed io mi abbandonai vestito sul letto.
La mattina dopo, svegliandomi verso le 10, ebbi la brutta sorpresa di notare in me tutti i classici sintomi di un malessere che ogni due o tre anni mi prendeva: dolori diffusi in tutto il corpo e febbre più o meno a 38°. C’ero abituato e avevo sperimentato tutti gli antinfiammatori possibili: l’unico che miracolosamente mi faceva immediatamente stare meglio era l’Aulin. Ma questa volta sembrava anche peggio del solito, la febbre era ben oltre i 38°, ero debolissimo e stavo abbastanza male. Premurosamente Luca si precipitò non so in quale farmacia di quale paese a procurarmi le adorate pastiglie di Aulin. Tornò trionfante, ma dopo un bel po’. Io ero rimasto a letto senza neppure voglia di una colazione. Trangugiai due compresse, fiducioso. E difatti verso le 15 stavo appena un po’ meglio perché i dolori erano attutiti. Però, febbricitante, continuavo a non stare in piedi.
Il grande problema era che a quel punto avrei potuto salire in macchina e puntare verso Milano solo se non avessi in programma un’altra serata nella non lontana Trichiana, tra Belluno e Feltre. Non se ne parlava neppure di disdire l’impegno…
Perciò passai ancora qualche ora amorevolmente assistito, ma alla fine dovetti partire. A Luca dovetti mentire sulle mie condizioni, perché si era offerto di accompagnarmi. Giunsi a Trichiana verso le 18.30, come da appuntamento. Preparai il proiettore e con gli organizzatori andai a cena. Dissi loro che non stavo bene e che non avevo appetito: mangiai poco o niente. Alle 21 iniziai il mio programma che conclusi davvero a fatica, anche perché ero molto più preoccupato che al mattino: un malessere così non l’avevo mai sperimentato. Firmai qualche libro che il pubblico mi aveva comprato, declinai l’invito di andare a bere una birra e mi misi in auto verso le 23.30, deciso ad arrivare a casa mia a Milano.
Ma, con il passare dei minuti, le cose andavano sempre peggio. A Primolano stavo per svenire, mi domandavo se era ancora il caso di proseguire alla guida. Dalle parti di Valstagna mi dovetti precipitosamente fermare in un’area poco illuminata a lato della strada per vomitare e dare libero sfogo ad un attacco di violenta diarrea. Risalii in auto debolissimo, fiducioso che magari la liberazione corporea mi avrebbe giovato. Ma mi bastarono pochi chilometri, neppure arrivato a Bassano, per capire che purtroppo c’era ben altro che un’indisposizione alimentare. Ormai guidavo, per prudenza, lentissimo. Superai la circonvallazione di Bassano, passai accanto a Marostica: il mio obiettivo era Dueville, cioè l’autostrada. Non speravo neppure più di migliorare, ciò che desideravo era una progressione in autostrada che senz’altro mi sembrava più facile e meno pericolosa che in una statale. Non ho più ricordi così netti di quel percorso, il tratto per raggiungere l’A4 mi sembrò eterno ma a quel punto avevo preso una decisione: arrivare alla stazione di servizio di Vicenza Ovest, posteggiare e chiedere aiuto a qualcuno per chiamarmi un’autoambulanza. Data l’ora (probabilmente le due) non c’era in giro quasi nessuno. All’autogrill preferii una specie di shop che era lì accanto, illuminato e con un ragazzotto che trafficava.
Entrai barcollando, salutai e dissi che avevo necessità che qualcuno chiamasse l’ambulanza. Stavo per svenire lì sulla sedia ma ricordo che il ragazzo fu efficiente. Dopo una mezz’oretta mi ritrovai sdraiato: a sirene spiegate mi stavano portando all’ospedale di Vicenza. Ricordo che il volontario che mi era accanto mi disse qualcosa del tipo: “ma perché ti sei ridotto così”, alludendo probabilmente a qualche droga, visto che di certo non puzzavo di alcol…
Non gli risposi neppure e praticamente svenni. Mi risvegliai parzialmente al pronto soccorso, poi fu buio completo.
Verso le 7 della mattina del 16 mi risvegliai in un lindo lettuccio: accanto a me c’era un’infermiera carina che, da me interrogata, mi disse che la mia era una bella polmonite doppia. Stavo meglio, non so cosa mi avessero dato o fatto. Telefonai a casa e ancora in giornata Bibi e Simone vennero a prendermi. Firmato tutto ciò che dovevo firmare, mi misi in macchina con loro. Giunti all’autogrill, Simone scese e si mise alla guida della mia auto.
A Milano era già stato preparato il mio ricovero immediato all’ospedale Sacco, noto centro di eccellenza per la diagnosi, il trattamento e la ricerca su BPCO, asma bronchiale ed enfisema polmonare. Lì era primario di cardiologia il marito di Uli, la cugina di Bibi: la cosa ovviamente aiutò.
Rimasi in ospedale per quattro giorni, anche se dopo due ovviamente già io pensavo che avrei potuto smammare. Ma lo staff curante fu molto fermo e dovetti adeguarmi. Quando poi mi dimisero lo fecero con mille raccomandazioni. In casa mi proibirono di recarmi a Faenza, per il 28 novembre, a causa di un’altra conferenza. Gli organizzatori non furono molto contenti, ma alla fine accettarono che Marco Milani mi sostituisse (per un compenso pari a zero) nella presentazione di Montagne usate o vissute?, la mia serata a tema ambientale.
Il 12 dicembre, altra serata in programma, a Montecchio Precalcino (ancora in provincia di Vicenza!). Il punto era che per il giorno dopo era previsto il trasferimento a Frascati, per un’altra conferenza. Perciò chiesi a Marco di accompagnarmi, anzi di guidare per tutto il tempo il VW Transporter di cui la Edizioni Melograno si era dotata.
Se i miei medici avessero visto, però, come passammo la notte tra il 12 e il 13… Faceva abbastanza freddo: in furgone, nel saccopiuma, meditavo se stavo facendo bene o male. Il giorno dopo ce la prendemmo comoda e arrivammo a Frascati, accolti dall’amico Massimo Marcheggiani, nel tardo pomeriggio.


Potevo dire di sentirmi davvero bene, ormai era passato quasi un mese da quell’orrenda notte. Decisi che il giorno dopo potevamo andare ad arrampicare a Gaeta. Trascorsa la notte a casa di qualcuno, partimmo alla volta di Gaeta: era con noi anche Fabrizio Antonioli. E fu con lui che salii, tutto sommato bene, la combinazione delle due vie Hellzapoppin’ e Tra il dire e il fare.
Dunque ormai era finita, tutto stava tornando come prima. Però qualcosa era successo: nelle lunghe ore di ospedale erano parecchie le domande che mi si affollavano alla mente. Perché ero andato così vicino alla morte? Cosa mi si voleva suggerire con quella brutta e pericolosa malattia? Che cosa dovevo cambiare di me stesso per andare incontro alla mia voce interiore? Quanto influiva l’inespresso malessere che si era infrapposto tra Bibi e me? Perché non ne parlavamo?
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Caro Alessandro, se pur in ritardo, voglio ringraziarti per questo articolo. È stato con un tuffo al cuore che ho trovato la foto di Luca e Mario, quella che io ho scattato sugli scalini di casa nostra a Carbonera. Grazie per averlo ricordato e per averci fatto rileggere quel divertente racconto di Luca di quel giorno al Vazzoler.
Ricordo bene che Mario me ne aveva fatto la cronaca, divertito.
Sono molto felice che le nostre vite si siano sfiorate e abbiamo potuto condividere alcuni momenti, per me le per Mario, molto preziosi.
Il tuo Metadiario è sempre affascinante, perché racconta una vita non solo di alpinismo, ma anche umana e famigliare. Grazie di volerla condividere con noi.
Oggi è il quarantatreesimo anniversario della mia salita del Canalone N della Cima Vermiglio.
Ieri è stato il quarantaduesimo anniversario della mia salita della parete N dell’Uja di Ciamarella.
Piú che anniversari, sono commemorazioni.
Tempus fugit.
@ 1
Colgo un cenno di filosofia esistenziale nel commento di Carlone, uomo materialista almeno dagli anni Novanta del secolo scorso.*
Che il nostro Krovellik si stia convertendo sulla via di Damasco? 😀 😀 😀
Se cosí stanno davvero le cose, allora ti dico: “Bravo, Carlo!”.
* Prima, quando se ne andava all’avventura lungo la traversata della Corsica, non era cosí. Era uno spirito libero e sognatore che vagava per i monti.
Carlo, rimembri ancora / quel tempo della vita mortale / quando beltà tua splendea / e tu il limitare di gioventú salivi?
Con abile maestria del giallista consumato, proprio nelle frasi finali Gogna sa tenere viva la suspence nel lettore, che “vorrebbe” già sapere cosa succederà nel capitolo successivo, quindi lo attende con avidità e ci si butterà sopra appena sarà pubblicato… Già, peccato che si tratti di vita vissuta e non di fiction e chi vive davvero gli episodi, se li porta dentro con cicatrici molto più profonde di quelle dei protagonisti di un libro. Alla fin fine per un lettore non c’è nulla di più sorprendente e di più affascinante della vita “vera”.