Per merito della logica, della supremazia del razionalismo, della scienza analitica, della fisica classica, siamo individui separati dal cosmo e dall’infinito. Così non ci avvediamo dell’orrore di fondo di cui siamo preda.
La mappa non è il territorio
di Lorenzo Merlo
(ekarrrt – 29 marzo 2023)
Capita, per strada, di chiedere informazioni sul posto a qualcuno. Gli mostri sulla mappa dove vorresti andare, lui l’afferra e inizia a farla girare, poi si ferma e guarda ancora il disegno e quindi, lasciandola perdere, indica cosa fare usando braccia e occhi e parole della sua lingua, per concludere con “non puoi sbagliare”.
La spiegazione si rivela poi del tutto insufficiente e il non puoi sbagliare mostra qualche difetto di verità. Stranamente, la storia si ripete nella maggioranza delle occasioni simili e anche il suo culmine conclusivo e rassicurante tende a non realizzarsi mai.
Tuttavia, è altrettanto certo che il nostro consulente d’occasione non era in malafede, tutt’altro. Voleva davvero darci una mano per raggiungere la nostra meta.
Viene da chiedersi come mai accade con tanta maggiore frequenza rispetto alla quantità di ripetizione dell’esperienza, come mai a parti invertite il risultato tendenzialmente non cambia, e anche come mai la medesima infruttuosa comunicazione si realizza, sebbene in forma differente, nella maggioranza degli scambi relazionali.
Cerca, cerca, la risposta si trova. Ognuno di noi, in ogni affermazione – anche non verbale – si riferisce a una mappa mentale, tanto arbitraria e autopoietica, quanto necessaria. In quella mappa si muove a suo agio, tutto gli è chiaro. In ogni interlocuzione interpersonale non ha difficoltà ad impiegarla. Ha però meraviglia quando qualcuno dimostra di non aver compreso quelle affermazioni.
Una sorpresa che fa capo all’idea che una buona dialettica contenga comunicazione. E anche a quella che l’altro disponga del nostro medesimo universo. È il fideistico decanto dell’idolatria del razionalismo, prostrazione al feticcio di un’idea meccanicistica dell’uomo. E anche l’ottuso impiego di se stessi come unità di misura di tutto. Posizioni in cui vive forte e chiara la totale inconsapevolezza che siamo universi differenti, salvo che in minute circostanze ben delineate, con poche regole condivise – chiamiamole circostanze amministrative. Un’inconsapevolezza che ci impone di identificarci con il nostro giudizio, scambiandolo così come onesta descrizione della realtà, tanto da concepirla come oggettiva. Ma è un’identificazione che nasconde e impone una radicale separazione dall’altro. Che sancisce la propria mappa come valida per tutti. Che genera un mondo a base conflittuale, differente rispetto a quello che scaturirebbe dalla presa di coscienza che la realtà è nella relazione e che, quindi, non avvedersene ci tiene nella trappola della caverna di Platone. La verità non è mai per tutti quella che appare a noi.
Se un russo chiedesse a un giornalista medio italiano di spiegare le ragioni del conflitto in corso, otterremmo risposte che nulla hanno a che vedere con la verità russa della guerra. Gli strumenti dell’odierno giornalista medio non sono adatti ad aprire la scatola della verità russa. In questo caso, siamo nel ti piace vincere facile. Ma ugualmente accade in ogni relazione. Basti ricordare la quantità di equivoci e relativi disappunti, se non colpevolizzazioni date e ricevute, per renderlo evidente.
Presa coscienza del fatto che non possiamo fare a meno d’impiegare le costellazioni della nostra mappa per dire dove si trova la via, abbiamo il necessario per riconoscere che, così tutti facendo, troviamo l’origine dell’equivoco e del suo inetto fratello non può sbagliare.
È solo a quel punto che si inverte la rotta. Come prima si credeva di comunicare parlando, ora si sa che parlare non contiene comunicazione, se non nei suddetti campi chiusi, tecnici, amministrativi. Un cambio che comporta anche altro, tra cui la sostituzione dell’affermazione con l’ascolto.
Sarà proprio quest’ultimo ad alzare il rischio di riconoscere l’universo del prossimo e, contemporaneamente, a far partire un’intelligenza nuova, quella utile per riconoscere la mappa altrui, per rispettare le sue affermazioni, per cercare in noi il tempo e il modo utile a creare un contatto.
È quanto si fa in certi ambiti didattici, la cui grafica non è più rappresentabile da una freccia che, scoccata dal docente, si dirige retta verso il discente, ma da una circolare, indispensabile all’emittente per rimodulare l’affermazione non intesa dal ricevente.
Verrà allora il tempo in cui si cesserà di dare consigli, di credere nei pieni poteri della logica, di appellarsi all’idolatria del cosiddetto buon senso, come se fosse un cristallo puro identico in tutti gli universi che siamo. Un tempo in cui i probiviri e i delatori, allineati e coperti dietro i feticci materiali della conoscenza, perderanno il loro ordinario abuso di potere. Sarà il tempo in cui si capirà che dire “ovvio” è arrivare ultimi a comprendere che, fuori dai campetti di gioco dei saperi cognitivi, c’è il mondo e nessuna ovvietà. Restringere l’infinito entro scatolette della conoscenza analitica è uniformare gli universi ad una sola mappa. È l’inconsapevolezza che qualunque territorio di cui si voglia parlare prima deve essere ridotto a mappa, e che ciò verrà fatto secondo la propria capacità di disegnarla.
Sarà il tempo buono per percepire che c’è altro oltre alla propria mappetta imbrattata di scientismo e buoni propositi. Fino a che diverrà chiara la mappa di quei ciarlatani che citavano l’amore, non la laurea.
Nota al titolo
La mappa non è il territorio è una formula di Alfred Korzybski (1879-1950), filosofo e matematico polacco, più volte ripresa testualmente da Gregory Bateson, Paul Watzlawick, altri, e implicitamente da tutta la ricerca sviluppata dalla Scuola di Palo Alto.
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Giuseppe, grazie per i tuoi commenti.
Io credo nell’esistenza di una comunità scientifica indipendente, cioè non asservita alla carriera e al profitto. Però per fare ricerca ci vogliono finanziamenti, e questi in genere vengono attribuiti a chi fa un tipo di ricerca dai facili (perché collaudati) risvolti pratici. Per esempio, tornando al discorso su tumori e mutazioni, oggi la tecnica per identificare mutazioni, testarle e poi eventualmente sviluppare farmaci che interferiscano con esse (ma non necessariamente saranno curativi) è ben sviluppata e quindi la ricerca continua in questa direzione e si tralasciano altre teorie che richiedono ancora studi di base, con applicazioni meno evidenti.
Per quanto riguarda i campi morfogenici, si possono misurare (lo si fa in embriologia per esempio); nel caso di un organismo già formato, lo studio è più complesso ma fattibile e infatti c’è chi se ne occupa, ma occorrerebbe un impegno su più vasta scala (questa almeno è la mia opinione).
Penso che bisognerebbe avere una prospettiva più ampia, essere più collaborativi e non usare la ricerca solo come mezzo di affermazione personale.
Il bello della scienza è che non può mentire a sé stessa, le persone possono rallentare o contrastare certe scelte di studio ma ci sarà sempre qualcuno che ci crederà, perché il bello degli esseri umani è la curiosità e il desiderio di esplorare e conoscere.
Grazie per la risposta, Agnese. Molto interessante.
Non penso, comunque, che la scienza – intesa in senso lato – si ponga particolari problemi nell’accettare altre visioni, ma forse sarebbe meglio dire teorie, o modelli, diversi da quelli convenzionali, purché verificabili/falsificabili attraverso il metodo sperimentale.
(Ad esempio: il campo morfogenico è osservabile (misurabile) ? In che modo ? I suoi eventuali effetti sui tessuti sono osservabili ? Sono riproducibili ?)
Questo, almeno, in teoria.
Che, nella pratica, la comunità scientifica è comunque composta da esseri umani. Con tutte le imperfezioni e distorsioni che ne derivano.
Ciao Giuseppe, mi riferisco per esempio ai modelli riduzionistici per spiegare malattie come il cancro, cioè quei modelli che si basano sulle mutazioni genetiche di singole cellule considerate fondatrici di una neoplasia senza considerare altre possibilità. Quali? Per esempio, gli effetti del contesto sulle singole cellule, la possibile esistenza di “campi” morfogenici che influenzano il comportamento di un tessuto (analogamente a quanto si osserva nello sviluppo embrionale o nei casi di rigenerazione) e che sono regolati anche da segnali a distanza. Per esempio, il sistema nervoso potrebbe influenzare a distanza il comportamento di un tessuto.
Qualcuno ne parla, ma la visione accettata e in continuo sviluppo non cambia, e si continua a investire su un modello (quello riduzionistico, appunto) che ha dei chiari limiti, ignorando altre prospettive.
È chiaro che i risultati ottenibili cambiando punto di vista potrebbero portare a nuove possibilità terapeutiche.
Un altro esempio è dato dagli effetti quantici sui meccanismi biologici. Nonostante siano stati postulati da decenni, non sono ancora studiati a fondo perché questo tipo di ricerca non riceve finanziamenti. Ora, non posso dire che questi tipi di studi descriverebbero meglio di quelli “convenzionali” i sistemi che si osservano (anche se lo sospetto, almeno in molti casi), ma penso che dovrebbero essere fatti, quantomeno per testare le ipotesi che propongono.
“Resta il fatto che la scienza […] non si preoccupi generalmente di valutare e accettare come possibili altre visioni che considerano la dinamicità dei fenomeni studiati e il fatto che, per tanti aspetti, restano sconosciuti”
Ciao Agnese, non ho capito bene cosa intendi con la frase su riportata.
Vorresti espandere questo concetto ? (Eventualmente con qualche esempio).
Grazie in anticipo,
Giuseppe
Ciao Grazia, sono d’accordo che la realtà sia soggettivamente interpretabile e che la scienza sia l’insieme delle discipline che studiano l’osservabile e misurabile_ senza, però, in genere, tenere conto dell’effetto dell’ osservatore sul fenomeno osservato.
Resta il fatto che la scienza-così intesa- proponga interpretazioni basate sui modelli (limitati) che costruisce e non si preoccupi generalmente di valutare e accettare come possibili altre visioni che considerano la dinamicità dei fenomeni studiati e il fatto che, per tanti aspetti, restano sconosciuti.
Buonasera Agnese,
credo sia fondamentale rivedere la definizione di “scienza” e anche quella di cosa sia la realtà.
La scienza, per me, è l’insieme di tutte le discipline che si fondano sull’osservazione e non una sola. E la realtà è una dimensione soggettiva.
La scienza costruisce modelli, li studia e ne traspone i risultati al mondo reale. I modelli, in quanto tali, hanno dei limiti, e quindi anche la loro applicazione alla realtà. Questo di solito non è fatto presente a chi, non occupandosi di scienza, ascolta, osserva o si limita a ricevere passivamente gli effetti di questa applicazione, e, peggio ancora, viene in genere dimenticato dagli stessi scienziati. Le interpretazioni vengono spacciate per verità ultime.
In senso lato, questo succede in ogni campo ogni qualvolta si segua o si voglia imporre una propria “logica”, un proprio modello, senza, pateticamente, rendersi conto della sua disarmante incompletezza.
“È il fideistico decanto dell’idolatria del razionalismo, prostrazione al feticcio di un’idea meccanicistica dell’uomo.” Non ho capito nulla ma trovo fantastica questa frase.