La montagna discreta
(scritto nel 1999)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Il 28 dicembre 1478, una lunga colonna di truppe milanesi, circa 8.000 uomini, superati i ponti della Biaschina e di Pollegio sui due rami del Ticino di Blénio, cominciava ad inoltrarsi nella piana, a tratti paludosa, di Pollegio. La loro missione era semplice: devastare, rovinare, saccheggiare e spopolare la Val Leventina, allo scopo di impedire future incursioni nel Ducato di Milano da parte dei leventinesi che, assieme a quelli di Uri, avevano creato non pochi problemi. Sull’onda della neonata confederazione svizzera, gli abitanti di Uri già dal XIV secolo cercavano di attestarsi a sud del Gottardo. E nella seconda metà del XV secolo, al di là di alcuni cavilli giuridici, la cosa era fatta: la Val Leventina era in loro mani. Gli abitanti si erano ben adattati ai nuovi dominatori, che continuavano però a spingersi più a sud ancora. Bellinzona era la meta, la chiave di tutte le valli ticinesi. Le cose erano complicate dai dazi, dalle regole sul passaggio delle Alpi, dalla raccolta castagne. Dopo avere respinto un assedio a Bellinzona, i milanesi decisero di farla finita. La spedizione punitiva era però raccogliticcia, con poca voglia di combattere. Mezzo metro di neve fresca rallentava uomini e cavalli. I milanesi caddero in un’imboscata dei pochi difensori (600 tra confederati e valligiani), ed ebbero parecchie centinaia di perdite, tra caduti in combattimento e annegati in quel Ticino in cui cercavano scampo. Quella fuga precipitosa il Ducato di Milano la pagò con un graduale abbandono: all’inizio del XVI secolo tutto l’attuale cantone era sotto il controllo dei confederati.

Percorrendo l’autostrada svizzera che porta al tunnel del Gottardo si capisce facilmente quanto sia grande il territorio della Valle Leventina, così vicina all’Italia, grazie alle veloci vie di comunicazione, ma allo stesso tempo ignorata dai nostrani frequentatori della montagna. In effetti mancano cime dalle sagome slanciate o massicci imponenti; si tratta di una montagna discreta che di certo non possiede la vocazione per divenire un giorno frequentata e alla moda. In questo tipo di montagne nulla è ovvio, spesso gli angoli più belli vanno cercati con attenzione, ma allo stesso tempo la soddisfazione che ne deriverà sarà amplificata dal piacere dalla scoperta.
Pizzo del Prévat, Pizzo Campo Téncia, Punta Cristallina sono gioiellini nascosti, invisibili a chi percorre in tutta fretta l’autostrada; eppure, una dozzina di chilometri prima di entrare nel traforo del Gottardo, slanciati spigoli di roccia offrono belle arrampicate, e alcune belle montagne sono ideali per chi vuole trascorrere una giornata in tranquillità, senza doversi misurare con gradi elevati e in un paesaggio rilassante e non sempre facile da raggiungere. E il territorio del Canton Ticino presenta sempre dislivelli importanti.
Le Alpi Ticinesi sono tra le meno conosciute in assoluto. Gli stessi abitanti, assai legati alla loro terra per cultura e tradizioni, ne conoscono solo piccole parti, come in genere tutti i montanari che sanno zolla per zolla la loro valle ma che poco sanno in prima persona delle valli vicine. E di valli e montagne le Alpi Ticinesi ne hanno parecchie.

A parte la zona della Mesolcina, io stesso conoscevo poco di questa geografia così vicina a dove abito, e quel poco lo dovevo alle pubblicazioni di un ticinese doc. Nessuno meglio di Giuseppe Brenna conosce le Alpi Ticinesi e la Mesolcina. Trent’anni di vagabondaggi al puro scopo di conoscere, di sapere quei misteri che la montagna ti suggerisce ad ogni passo, lo hanno colmato di una grande esperienza. Il suo libro più bello è Montagne del Ticino, dove ha riversato in immagini e in poche ma ben scelte parole la sua sterminata confidenza con montagne per la maggior parte dimenticate, con territori selvaggi o inselvatichiti. Il risultato fu un atlante di emozioni, una geografia con il potere di non rimanere ferma tra le pagine ma di suscitare brividi profondi in coloro che sono, per usare parole sue, «ricchi di spirito, umiltà e stupore».
Più volte mi è capitato, nei miei vagabondaggi cantonali o a scopo fotografico oppure alpinistico, di soffermarmi per poco nei pressi di qualche baita rimessa a nuovo, a volte molto in alto nei pascoli sopra i 2000 metri, a volte a quota inferiore. Al ritorno dalle ascensioni, o anche durante la salita, ci fermavamo per un breve spuntino. Quando non era ancora stagione né di alpeggio né di soggiorno estivo, le baite in genere erano chiuse.

Ed era ancora una volta Brenna a tornarmi in mente. Con il suo secondo libro Cascine, aveva raffigurato ancora la montagna ticinese, ma questa volta in modo più crepuscolare, come se la visione di tutte quelle baite abbandonate o sperdute avesse soffocato con la sua mesta realtà di solitudine la gioiosa visione di queste montagne così belle. Un album di immagini senz’altro tempo che quello al di fuori del presente, immagini corredate da brevi citazioni di letteratura alpina, con un’impressione di semplice rinuncia, senza la spettacolarità cui oggi siamo abituati.
Sull’onda di queste impressioni, riandavo con il pensiero alle migliaia di baite alpine che avevo visto, che mi avevano ospitato o protetto. Un censimento mentale dei miei ricordi, veloce ma accurato. La nostalgia a volte è seguita dalla disperazione, come nel libro di Brenna. Forse è l’assenza totale della presenza di passanti nel quadro dell’immagine che acuisce l’abbandono alpigiano che ci fu, nonostante l’esteriore stato di ordine della costruzione.

Quando infatti le costruzioni sono integre o restaurate appare il grande rispetto che si deve al lavoro umano, ma si acuisce quel senso di solitudine che nei tratti sempre più scarni ed essenziali di una situazione appare sempre più disperato.
Sentivo dentro di me richiamare quell’appello che Erminio Ferrari fece nella presentazione del volume di Brenna, perché non ci si dimentichi di aver preso un appuntamento: «… mi è capitato di appoggiarmi a qualcuna delle pietre così bene allineate di certe cascine di questo libro… Tirando il fiato all’apice di una salita, o abbandonando la fretta di una discesa, come arrivato ad un appuntamento che solo in quell’istante ricordavo di avere preso».
Ma quanti appuntamenti dobbiamo prendere? Se rifletto sui passaggi d’esperienza che mi sono stati necessari per giungere a poter pensare «saggiamente», trovo le contraddizioni più esagerate, gli episodi più negativi. Ed ora chi mi garantisce che le certezze raggiunte siano quelle più valide? Non è forse vero che ho definito queste convinzioni tappa per tappa, chilometro dopo chilometro, appuntamento dopo appuntamento? E chi dice che l’arrivo sia più giusto e più importante delle tappe intermedie?
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