Introduzione a La montagna non ride e non piange di Marco Berti, Solferino, Milano, 2024, 208 pagg. ISBN 9788828213413
Ci sono tanti alpinismi quanti sono gli alpinisti e ci sono tanti modi di raccontare le proprie esperienze quanti sono coloro che le hanno vissute. Per questo, dopo una vita dedicata alla montagna e alle sue letture, sono ancora qui a spiare se c’è qualcuno che “sente” come me, se c’è qualcuno che con i suoi racconti mi fa sognare tutto ciò che mi è sfuggito oppure ho appena intravvisto. Qualcuno che non si loda, che indica senza insegnare, qualcuno che non fa come Narciso innamorato della sua immagine, qualcuno che non è divorato dall’invidia, qualcuno che, “in là con gli anni, non viva i giovani come un nemico, senza capire che loro sono l’entusiasmante oggi del nostro ieri”.
Ebbene, ogni tanto questa mia ricerca è premiata. Marco definisce l’alpinismo “esercizio fisico e strumento per un percorso introspettivo che, con obbligata sincerità e trasparenza, ti porta nel più profondo dell’intimo”.
Marco poi chiarisce la montagna in quattro righe indimenticabili: “edificio naturale composto da roccia, neve e ghiaccio, prati e fiori. Spazio senza vita che per una certa retorica illusione riceve anima e voce. Luogo che non decide se essere seducente o assassino perché non ha pulsioni, non può averle”. E aggiunge: “la montagna non ride e non piange perché ha il pregio di non essere umana”.
E’ vero, non c’è nulla di umano nell’essenza della montagna. Siamo noi che le attribuiamo continuamente qualità, compiendo un’operazione a senso unico che però, nella sua insensatezza, spiega il perché non ne possiamo fare a meno.
Andare in montagna è come specchiarsi in una meravigliosa superficie riflettente che però non ci restituisce, come fa con Narciso, la nostra immagine: ci mostra, con maggiore o minore chiarezza e immediatezza, quello che abbiamo dentro e che dunque non vediamo. Uno specchio assai strano, affascinante, perché promette di farti conoscere e lo mantiene, specie se vai a pericolare su qualche parete ripida.
Per riconoscere le immagini che la montagna ci restituisce occorre però un certo allenamento. Non è una lingua che s’impara subito: la conoscevamo da piccoli, ma l’abbiamo dimenticata, ce lo spiega bene Marco nel capitolo in cui racconta di veder giocare i bambini con una madre che, addetta allo smartphone, è tagliata fuori da quel linguaggio.
Leggere Marco è ritrovarsi, riga dopo riga, a riflettere su quanto si è già visto e su quanto in certo qual modo lui lo abbia rivestito dell’immediatezza del semplice imporsi. Sono momenti che hanno l’andamento di una danza in mezzo a luci stroboscopiche, o a flash intermittenti ma sempre diversi, dove tu nel tempo musicale e nel controtempo ti aspetti sempre (e trovi) la nota geniale, che ti spiazza, “attendendo sempre il capitolo che segue senza poterlo immaginare”.
Ma ogni tanto il lettore s’interrompe perché riconosce perfettamente certi momenti e si dice “ecco, questo l’ho vissuto anch’io”, oppure “questo l’ho sentito anch’io”.
Mica male, per uno che afferma “il mio scalare una montagna è talmente intimo da esserne geloso”!
La trama è molto esile, ma adatta alle sfumature che sono la parte essenziale. Prima di percorrere in solitaria, e dopo 44 anni, una via da lui stesso aperta con Gianni, l’amico che non c’è ed è morto in montagna, l’autore incontra un altro suo amico, Leo, che non vedeva da tanto tempo.
– Strano, trovarti qui – esclama Marco davanti a Leo: modo tutto proprio dell’autore per introdurre quello che sarà un suo vero e proprio viaggio, la solitaria prevista per il giorno dopo, come se il viaggiatore, novello Dante, avesse bisogno di un Virgilio cui fare riferimento.
Marco ci offre il suo aprirsi a Leo non in un unico capitolo, ma lo diluisce nel corso del libro. In un bar, dopo la timidezza iniziale, mentre l’amico ascolta nel baccano prodotto da alcuni cacciatori che vantano platealmente le proprie imprese, scopriamo i perché di tanto sensibile allontanamento di due che una volta erano veramente amici.
Scopriamo come Marco abbia seguito “il profondo bisogno di vivere e non sopravvivere” e come Leo invece abbia preso altre strade. Scopriremo solo alla fine l’episodio che ha determinato il divaricarsi di due destini: dei quali, quello dell’autore, gravato dalla colpa di aver cercato di riempire i propri vuoti. Colpa a rischio di diventare sempre più greve, se ascoltiamo Lady Gaga quando ci chiede “Or do you need more?”.
Non potevano mancare, nel racconto, elementi di garbato suspense che sposano l’avventura con il percorso interiore, dove lo specchio della montagna ha più potere riflessivo. L’adrenalina, quando non ricercata, favorisce questo processo.
“La montagna, ancora una volta, nel suo silenzio e nella sua elementare severità, mi aveva accompagnato dove era giusto andare” conclude Marco.
Dunque, assoluzione. Perché desiderare di vivere non costituisce reato. Ma un tribunale che abbia quest’autorità esiste solo dentro a noi stessi, al contempo giudici e accusati (per lo più di egoismo). Volendo figurare a tutti i costi questa corte suprema, potremmo assimilarla alla montagna, che diventa quindi Regina della nostra anima.
9
Preciso: il mio commento era relativo alla persona sponsorizzata e non ad Alessandro Gogna
Tanti saluti
E’ il racconto più stupido ed insensato che abbia mai letto…C’era una festa? Percepisco un qualcosa ispirato dall’ubriachezza e dall’idiozia.
Mi stupisco di così pochi commenti per un articolo che ho trovato così interessante e stimolante.
Il nostro ospite, in questo articolo e nella prefazione ha a mio avviso dosato sapientemente le parole con una capacità che non posso che invidiare.
Non so se cercherò il libro, ma le parole che ho letto mi hanno fatto sognare e riflettere ricordandomi alcune riflessioni fatte dal mio comodo divano, dal quale temporaneamente guardo le montagne o con fare distaccato leggo le “imprese” di qualche amico, non provando relativamente alle salite descritte, empatia o voglia di imitarlo
Chissà se nel libro il protagonista si pone alla ricerca di comprendere cosa lo spinga, cosa l’abbia spinto ad andare “lassù”, se abbia trovato una risposta e se questa gli sia piaciuta
Fabio, neppure il blog è d’accordo con te! 🙂
——— IL MISTERO ———
Perché a me, invece delle faccine sghignazzanti, spuntano tanti punti interrogativi e al Vegetti no?
Che sia un gombloddo?
Marco, non fare il finto tonto! ????????????
Io mi riferivo – e tu lo sai bene – all’insostenibile pesantezza dell’essere.
E se da qualche parte c’è un po’ di caldino e in altre c’è vita per pochi istanti, il nocciolo della questione per noi rimane puro e vergine come lo era nella notte dei tempi, quando scendemmo dagli alberi: il mistero del mondo e la precarietà dell’essere.
Cosí è (se vi pare). E anche se non vi pare.
Fabio, proprio freddo non saprei… Vai vicino al sole o a un’altra stella e ne parliamo 😀
Sono d accordo più o meno con Fabio Bertoncelli, tranne sul assunto che non c,è posto per l uomo, in qualche maniera siamo scaturiti dalla stessa sorgente che ha fatto tutto quello che ci circonda, e per forza di cose ne facciamo parte.
Credo, Fabio, che gli unici luoghi adatti agli umani siano quelli in cui riescono a vivere in armonia con ciò che li circonda.
Io, per esempio, vivo sulle pendici dell’Etna in una grande proprietà con il bosco e penso d’esserne degna custode.
Tout est dans la façon de voir les choses,
et chacun est différent.
La montagna è un luogo vasto e freddo, i pianeti sono un luogo vasto e freddo, l’universo è un luogo vasto e freddo. Non c’è posto per l’uomo, se non in qualche angolo oscuro e per pochi istanti nell’eternità.
Grazia, tu non sei d’accordo, vero?
P.S. Spero di sbagliarmi…
Proprio non riesco a vedere la montagna, e qualunque altro luogo, come uno spazio senza vita privo di pulsioni. E’ indubbio che tendiamo a caricare luoghi, oggetti, esseri viventi e situazioni con le nostri sentimenti ed energie, ma a mio vedere ognuno di loro ha una vita propria, al di là di noi umani, che può essere raggiunta solo quando ci si ricorda d’essere tutt’uno con il luogo stesso, l’oggetto, la situazione, l’altro.