Del collegamento sciistico tra la Val d’Ayas e Cervinia si parla da almeno quaranta anni, ma mai come in questo periodo il pericolo di inizio lavori è stato così vivo. A essere minacciato è il meraviglioso vallone delle Cime Bianche, in alta Val d’Ayas. Saint Jacques diventerebbe certamente un gigantesco posteggio di auto e il vallone andrebbe a diventare nient’altro che l’ultimo anello di un carosello senza senso. L’attuale comprensorio del Monterosa Ski è già invasivo a sufficienza, con piste per tutti i livelli e siamo contrari a un ulteriore allargamento. Molti si sono, e da tempo, schierati contro questo progetto. Tanto per fare un piccolo riassunto, per parte nostra, abbiamo affrontato l’argomento con:
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Ma recentemente il novello vincitore del Premio Strega, Paolo Cognetti, è intervenuto con suo scritto che vale assolutamente la pena di riportare per intero.
Veduta estiva del Vallone delle Cime Bianche, sovrastato dal Grand Tournalin
La montagna sfiancata
di Paolo Cognetti
(da Robinson di La Repubblica, 16 luglio 2017)
C’è un ultimo vallone selvaggio ai piedi del Monte Rosa, esiste da sempre e tra poco non esisterà più. Ora che sono lontano, su un treno che attraversa una pianura che non so guardare, posso chiudere gli occhi e ritrovarmi nel paese di Saint-Jacques, in fondo alla Val d’Ayas, dove l’Evançon è ancora torrentizio, tumultuoso, l’acqua grigia e verde di ghiacciaio. Lassù un ponte di tavole attraversa il fiume e una mulattiera sale nel bosco tra le radici dei larici. Supera un albergo d’inizio Novecento, lusso di poeti e regine, chiuso per sempre col suo secolo glorioso; una colonia dai muri in sasso grigio, dove nessun ragazzo da tempo è stato più visto giocare; una stalla in cui i pastori dell’est accudiscono le bestie d’altri. Ma le cose degli uomini non mi commuovono quanto quelle della montagna, s’imprimono con tanta forza nella memoria: poco più su il bosco finisce e il sentiero sbuca in una conca che è un piccolo gioiello segreto. Vedo i pascoli del Pian di Tzére (il modo in cui un torrente rallenta e s’incurva in un prato, le sue anse sabbiose, la parola ruscello a cui si concede, prima che un salto di roccia lo renda di nuovo torrente, acqua bianca di schiuma che precipita giù), la pietraia di grandi lastre piatte che una volta ho risalito col mio amico montanaro, ognuno per la sua strada fino alla cascata (qualcosa ci aveva divisi e quel giorno non parlavamo, camminavamo lontani, forse entrambi speravamo che la montagna risolvesse le cose al posto nostro), il ghiacciaio che in alto sporge dagli strapiombi, bianco lucente sulla roccia nera e marcia, con i blocchi che nel pomeriggio si staccano e si schiantano di sotto (il ritardo del rumore per la distanza: vedere prima il bagliore del ghiaccio che cade, come un lampo, e poi sentire il brontolio del tuono). Ricordi che d’inverno tornano nei miei sogni di città: le torbiere intrise d’acqua di fusione e il sentiero che s’impantana, la montagna che verso i tremila metri è tutta gobbe morbide, morene, avvallamenti. Ho sognato le distese di erioforo in agosto, i fiocchi bianchi che ondeggiano sull’acquitrino come campi di cotone selvatico, e poi il gran lago cupo, nero di nuvole e verde di silice, il verso stridulo dei gracchi nel vento. In riva al lago ho scritto una scena sul mio quaderno, quella in cui Bruno grida alla montagna che lui se ne andrà di lì: l’ho fatto anch’io per sentire come suonava, ho ricevuto l’eco del mio grido e ho visto i camosci fuggire spaventati oltre il colle delle Cime Bianche.
Veduta invernale del Vallone delle Cime Bianche, sovrastato dal Grand Tournalin
Ora tutto questo non esisterà più perché il vallone, che prende nome proprio da quel colle, sarà sacrificato come tutto il Monte Rosa allo sci di discesa. In effetti è un miracolo che esista ancora perché appena al di là, oltre la cresta da cui ho visto i camosci scappare, c’è Cervinia con i suoi impianti e i suoi alberghi, e di qua comincia un comprensorio che unisce Ayas, Gressoney e Alagna: valli che furono un crocevia di lingue e popoli, dove oltre al piemontese e al patois valdostano si parla il titsch dei walser che nel Trecento emigrarono a sud del Monte Rosa in cerca di terre coltivabili. Valli di pastori e contadini che cominciarono ad arricchirsi quando, nel Novecento, la villeggiatura in montagna divenne cosa da signori, e lo sci una moda sempre più popolare. Ora per quei villaggi a duemila metri, accanto alle case di legno e pietra dei walser, passano le piste di due grandi aziende della neve, un’industria turistica da milioni di clienti all’anno, separate solo da questo angolo selvaggio di mondo. Grazie a quella funivia si fonderanno e forse clientela e fatturato cresceranno ancora. Ci credono i politici e gli amministratori locali, ci puntano gli imprenditori, ci sperano i miei amici montanari che hanno un bar o qualche stanza da affittare, o fanno i maestri di sci, o lavorano come operai agli impianti. Questa per me è la parte più dolorosa della storia, perché non c’è un grande nemico, non uno stato o una multinazionale contro cui battermi, ma i miei amici e vicini di casa, il loro lavoro, la loro idea di futuro.
Poi ci sono gli sciatori, che qui da noi sono numeri e nient’altro: ogni giornata di ognuno di loro vale una certa somma, perciò basta contarli quando imboccano la valle e fare il calcolo, e così si sa quanti soldi portano alla montagna. Ma lo sanno gli sciatori come si fa una pista da sci? Io credo di no, perché altrimenti molti di loro non sosterrebbero di amare la montagna mentre la violentano. Una pista si fa così: si prende un versante della montagna che viene disboscato se è un bosco, spietrato se è una pietraia, prosciugato se è un acquitrino; i torrenti vengono deviati o incanalati, le rocce fatte saltare, i buchi riempiti di terra; e si va avanti a scavare, estirpare e spianare finché quel versante della montagna assomiglia soltanto a uno scivolo dritto e senza ostacoli. Poi lo scivolo va innevato, perché è ormai impossibile affrontare l’inverno senza neve artificiale: a monte della pista viene scavato un enorme bacino, riempito con l’acqua dei torrenti d’alta quota e con quella dei fiumi pompata dal fondovalle, e lungo l’intero pendio vengono posate condutture elettriche e idrauliche, per alimentare i cannoni piantati a bordo pista ogni cento metri. Intanto decine di blocchi di cemento vengono interrati; nei blocchi conficcati piloni e tra un pilone e l’altro tirati cavi d’acciaio; all’inizio e alla fine del cavo costruite stazioni di partenza e d’arrivo dotate di motori: questa è la funivia. Mancano solo i bar e i ristoranti lungo il percorso, e una strada per servire tutto quanto. I camion e le ruspe e i fuoristrada. Infine una mattina arrivano gli sciatori, gli amanti della montagna. Davvero non lo sanno? Non vedono che non c’è più un animale né un fiore, non un torrente né un lago né un bosco, e non resta nulla del paesaggio di montagna dove passano loro?
Chi non mi crede o pensa che io stia esagerando faccia un giro intorno al Monte Rosa in estate: sciolta la neve artificiale le piste sembrano autostrade dai perenni cantieri, circondate da rottami, edifici obsoleti, ruderi industriali, devastazioni di cui noi stessi malediciamo i padri.
Ora, lo scambio per i montanari è chiaro. I soldi dello sci e del cemento, o l’integrità dal valore incerto del paesaggio di montagna? È almeno dagli anni Venti del Novecento che sulle Alpi abbiamo scelto: da un secolo preferiamo i soldi, seguendo un modello economico che bada al presente e trascura il futuro, perché ormai sappiamo tutti — questa è la differenza tra noi e i pionieri, loro potevano essere in buona fede e noi no — che tra altri cent’anni la vera ricchezza non saranno le piste che abbiamo costruito, ma la montagna che abbiamo lasciata intatta. Ne ho la prova ogni volta che accompagno nei luoghi del mio romanzo i giornalisti stranieri, esterrefatti che nel cuore dell’Europa possa esistere un mondo selvaggio di tale bellezza, e sono certo che verrebbero in tanti ad ammirarlo, se fosse un parco. Lo dico con affetto ai miei amici montanari: fermatevi, pensate ai figli. L’integrità di quel vallone per loro varrà mille volte di più di qualsiasi pista costruirete, quella è la vera eredità che gli spetta, il patrimonio che gli state portando via: vorranno sapere che cos’era un torrente, un lago, una distesa di erioforo, che rumore faceva un blocco di ghiaccio quando cadeva dallo strapiombo per schiantarsi sulle rocce. Da quei figli non sarete ricordati come portatori di prosperità e progresso, sarete ricordati come i distruttori. Chiedetevi se è questa la memoria di voi che volete lasciare.
Paolo Cognetti è l’autore di Le otto montagne (Einaudi, 2016) e con questo libro si è aggiudicato il Premio Strega 2017. Per informazioni su Paolo Cognetti, vedi wikipedia.
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“Alla faccia del Cognetti vado a sciare mangio bene nei rifugi e mi diverto.”
Divertiti, divertiti, fin che puoi…
Quando avrete finito di sbancare le montagne a suon di buldozzer e cementificato tutto, sono sicuro che personaggi come te, non avranno problemi per trovare un’altro divertimento.
Forse, per un po’ di antropoligia da trattoria, ci si può permettere di classificarci – noi, genere umano – anche tra chi nel mangiar bene e divertirsi trova i suoi culmini e chi li cerca ben altrove.
Su Cognetti, stendiamo un velo pietoso, radical chic arrogante e maleducato, portafoglio a destra cuore a sinistra. Vive negli Usa e scende da noi a pontificare. Se non fosse per gli sciatori le montagne sarebbero morte. Gli stessi montanari dovrebbero cacciarlo. Il libro è solo un’operazione commerciale, vale nulla e lo stesso strega ormai si sa è solo una questione politica. Il Cognetti della montagna non ha capito nulla. Poi si sa è furbo , ma anche stolto, si compra una casa in mezzo alle piste a Estoul sopra Brusson e poi si lamenta del rumore dei gatti. PATETICO.
Alla faccia del Cognetti vado a sciare mangio bene nei rifugi e mi diverto.
Anche io resto basito dalle risposte di Paolo a Marco, soprattutto la prima che esprime esclusivamente maleducazione è supponenza. In ogni caso Paolo si è sempre tenuto ben lontano dal merito Delle questioni poste, ben documentate, da Marco.
Tutta la mia solidarietà a Marco.
Aggiungo che se questo è l’uomo Paolo ritengo del tutto inutile leggerne qualsiasi scritto.
NEWS
Capitano10 agosto 2017 18:31
Marco, non si capisce davvero da dove arrivi il tuo astio. Ho scritto di una persona che ammiro, della sua vita e della sua morte, e tu mi inondi il blog di commenti prolissi e ripetitivi su quanto tuo padre e tanti altri partigiani meritino, secondo te, più ammirazione e rispetto di Castiglioni. Mi pare che ci sia qualcosa di personale. Tanto rispetto anche per tuo padre e tutti gli altri: ricevuto, basta, grazie. Continuo a voler bene a Castiglioni, “contrabbandiere di uomini e fontine”, probabilmente mi sento come lui.
marco vegetti10 agosto 2017 22:01
Eppure sei uno scrittore, dovresti anche leggere… Non c’è nulla di personale: ma invece molto di storico. Non è nemmeno fare un paragone, è solo ricordare che c’è chi è stato a guardare e chi invece ha fatto. La differenza, credo, è molta. E comunque, come dicevo all’inizio, non una parola sui fatti che cito, sulle stesse frasi di Castiglioni, sulle affermazioni che fa e su cosa più gli interessasse ben al di là del bene dell’Italia. A lui, scusami tanto leggiti Castiglioni, interessava la riapertura della Scuola militare di Aosta e la pubblicazione delle sue (stupende) Guide. Tutto qui.
Caro Fabio, in effetti mi sarei aspettato di tutto, non questo modo supponente e barbaro, degno non di un quarantenne scrittore e “amante” della montagna. Così davvero mi pare un ragazzino viziato e arrogante. E, ahimé, ben poco umile… Forse il successo dà alla testa…
Bah…
Grazie!
Sono esterrefatto per le parole di Cognetti. Mai mi sarei aspettato tanta maleducazione del tutto fuori luogo, tanta arroganza insopportabile, tanta superbia. Il ragazzo si è montato la testa oppure è sempre stato cosí?
Caro Marco, avevo già letto settimane fa il tuo intervento, che mi aveva colpito perché rivelava conoscenza dei fatti e analisi, ed era fuori dal coro del conformismo.
E avevo pure notato la mancanza di risposta da parte di Cognetti. Ora ne capisco il motivo. Hai la mia solidarietà.
Io invece ho imparato chi sia Cognetti e me starò ben alla larga. Lascio a lui i suoi libri.
So che è lungo, ma trovo interessante la “risposta di Cognetti…
Marco Vegetti, 27 aprile 2017
Caro Paolo, permettimi un’altra lettura della vicenda Castiglioni…
L’enigma Ettore Castiglioni
Ettore Castiglioni, 1908-1944, milanese di famiglia ricca anche se nato in Trentino, fu indubbiamente uno dei più grandi alpinisti italiani a cavallo tra il 1930 e il 1940: più di 200 prime salite, alcune veramente eccezionali per il periodo dell’alpinismo in questione, disseminate lungo tutto l’arco alpino …
Colto, scrive per le mitiche “Guide dei Monti d’Italia” edite da Touring Club e Club Alpino Italiano alcune delle migliori guide alpinistiche, ancor oggi valide: Dolomiti di Brenta, Pale di San Martino, Alpi Feltrine, Odle/Sella/Marmolada, Alpi Carniche. Tra i suoi compagni alcuni dei colleghi più stimati dell’epoca: Celso Gilberti, Vitale Bramani, Bruno Detassis, quest’ultimo il suo compagno ideale, forte, conoscitore del Brenta come pochi, taciturno come lui. Nel 1937 Castiglioni partecipa anche alla “sfortunata” spedizione di Aldo Bonacossa in Patagonia (la meta stabilita, il mitico Fitz Roy in Patagonia, non sarà salito).
L’Italia è in guerra dal 1940 e due anni dopo sarà richiamato da sottotenente come istruttore alla Scuola Militare Alpina di Aosta: è lì che si trova l’8 settembre, il giorno dell’armistizio, il giorno che segna la svolta nella storia d’Italia e nella vicenda privata di Castiglioni.
Ed è dagli avvenimenti che ebbero inizio quel fatidico giorno che comincia la costruzione del “mito” Ettore Castiglioni, oggi presentato come “alpinista e partigiano” da varie biografie, articoli, commemorazioni, post sul web.
Ma qualcosa, per me, modesto alpinista, ma immodesto conoscitore della Storia di quegli anni grazie alle conoscenze del mio babbo partigiano combattente, funzionario di ANPI e PCI e ben addentro alle cose di quegli anni, e per quasi un decennio bibliotecario presso l’INSMLI a Milano e poi per 12 al CAI milanese, non “suona” affatto bene.
A differenza di molti suoi colleghi ufficiali di Aosta, che vorrebbero portare i loro uomini armati al Piccolo San Bernardo per fermare le colonne tedesche che entrano nella Valle, Castiglioni porta invece una dozzina dei suoi alle malghe del Berio, con l’intento, dichiarato, di contrabbandare fontina in Svizzera, fare soldi e passare il periodo turbolento.
Ma è stato il buon Saverio Tutino, nipote del Castiglioni, a celebrarne per primo l’ “antifascismo”, ricordando di quando, lui ragazzino, lo zio lo portava in Grigna ad arrampicare e da lassù gridava “Abbasso il Duce”, senza però alcun testimone.
Ma basta ri-leggere le parole dello stesso Castiglioni (riportate in vari punti del mio scritto) per nutrire seri dubbi su questa sua “dimensione patriottica e antifascista”…
Molte volte mi sono chiesto perché Castiglioni non abbia fatto delle scelte di parte, visto che in Valle d’Aosta ne aveva la possibilità: non mancavano in Valle le brigate partigiane, di ogni colore e fin da metà settembre 1943, a cui la sua esperienza militare e alpinistica avrebbe fatto comodo… Altri alpinisti di grande fama, penso a Cassin a Tissi a Vinci per citarne qualcuno soltanto, non si limitarono a espatriare qualche fuggiasco ma presero parte alla Guerra di Liberazione attivamente.
A Castiglioni non mancavano né la cultura né i mezzi, e a quanto si sostiene neppure la convinzione politica per fare questa scelta né tanto meno le conoscenze nel fronte antifascista. Non la fece e, non me ne vogliate, preferì contrabbandare fontina e uomini, nonostante la brigata di Emile Chanoux avesse combattuto sanguinosamente proprio sotto il Berio, a Valpelline…
Quanto poi ai numeri dei fuggiaschi aiutati, anche qui qualcosa non torna… Per
i giornali svizzeri che ne han parlato in occasione del convegno di Salecina (2007) si
trattava di un centinaio, la maggior parte ebrei in fuga dalle persecuzioni fasciste; dalla biografia scritta da M.A. Ferrari “Il vuoto alle spalle” parrebbero una decina… La differenza non è da poco!
In ogni caso sembra sempre trattarsi solo di persone facoltose: in fondo lo stesso Einaudi era un ricco industriale badogliano, messo a capo dell’Università di Torino dopo il 25 luglio, simbolo dunque di conservatorismo e continuità del Regno d’Italia, non certo di lotta politica e antifascista.
Ma al di là di queste considerazioni e del fatto che dalla biografia di Ferrari (pagina 29) sembra che l’interesse principale di Castiglioni fosse quello di raccimolare soldi per passare tranquillamente l’inverno fino alla primavera (patriottico davvero!), appare molto strano che Castiglioni non sia stato nominato “giusto” dalla Comunità ebraica: in fondo nell’elenco italiano appaiono centinaia di sconosciuti che misero in salvo anche una sola vita.
Possibile che tutti quelli che furono salvati da Castiglioni, a partire dall’avvocato torinese Bier, non abbiano mai avuto una parola per lui all’interno della Comunità ebraica italiana (“I Giusti d’Italia. I non ebrei che salvarono gli ebrei 1943-1945” Yad Vashem, 2006)?
Altra stranezza difficile da comprendere è l’altezzosità distaccata di Castiglioni che a gennaio 1943 (dal volume “Il giorno delle Mesules” tratto dai suoi stessi diari) nella Milano sotto i bombardamenti scrive: “Distruzioni e incendi mi lasciavano quasi indifferente, come cose già pienamente previste e scontate. Solo vedendo bruciare il Palazzo Silvestri in Corso Venezia provai una stretta al cuore e una profonda amarezza per la perdita di un gioiello artistico, che nessuno potrà mai sostituire” e pensa solo ad andarsene a gustare la casa di campagna a Tregnago.
Forse non s’era accorto che c’era una guerra da ormai tre anni?
E dopo l’8 settembre, nonostante un gruppo di ufficiali e soldati della Scuola di Aosta voglia andare ad occupare il Piccolo San Bernardo e molti scappino in Francia, sul diventare partigiano si riferisce al “fare il bandito”, termine proprio dei nazisti (il famoso e famigerato “Achtung banditen”). O ancora, rientrato in Italia dopo la prima prigionia in Svizzera, nonostante il disastro dell’8 settembre pensa tranquillamente a come riaprire la Scuola di Aosta sotto l’egida del CAI fascista. E ciò nonostante rimanga disgustato dai suoi colleghi ufficiali passati nella RSI, pensa alla vigliaccheria del rimaner adagiati nella calma beata (da “Il giorno delle Mesules”) ma nulla fa per cambiare la sua propria vicenda, anzi, rimane proprio nella beata calma della malga al Berio!
Peggio, va a Milano a protestare perché il CAI ancora non ha pubblicato la sua guida dei monti d’Italia (CAI, allora Centro Alpinistico Italiano, presidente Manaresi, sottosegretario alla Guerra di Mussolini… patriottico, il nostro, vero?).
Conosce uomini importanti, conosce badogliani, conosce antifascisti, ma pensa ad andare a Como per sentire un concerto, ad andare a Cortina a sciare e a fare Capodanno, a farsi portare, nella Milano in guerra , un pianoforte per suonare, e ancora, a sognare non un’Italia nuova libera diversa, ma la propria egoistica
soddisfazione…
Bruno Detassis era internato in Germania, Riccardo Cassin fondava la brigata “Cacciatori delle Grigne”, Alfonso Vinci comandava una “Brigata Garibaldi” in Valtellina così come il cattolico Tissi in Veneto…
Di Castiglioni non si parla nei saggi sulla Resistenza in Valle d’Aosta, non ne parla Emile Chanoux nei suoi corposi diari, non un cenno negli archivi del CLN o CVL, non una citazione tra i “Giusti tra le nazioni”, non una nelle carte di Einaudi o nella sua monumentale autobiografia, né nelle memorie e nei documenti delle missioni alleate in Italia, non un accenno nei National Archives inglesi di Kew Gardens, desecretati.
Zero, mai una citazione, neppure di sfuggita, mai.
Qualcosa non torna…
Troppe parole costruite intorno ad altre parole…
Recentemente, sulla rivista ALP si raggiungeva il ridicolo, in questa ricostruzione campata sui forse, i ma, i probabilmente. Castiglioni fugge dal luogo di detenzione in Svizzera alle 5 del mattino ma alle 5.30 aveva lasciato l’Albergo Kulm, al margine del paese, dove si ferma, alle 5 del mattino!, dove entra e dove cerca (?!) le chiavi della Capanna del Forno.
Cito l’articolo: “… forse non poté o non volle sottostare alle formalità obbligatorie per ritirarle, cioé non volle compilare il registro e non poté nemmeno pagare i 5 franchi…”
Ovviamente il ridicolo sta nel fatto che non viene in mente che la porta dell’Albergo potesse essere chiusa data l’ora e nel caso fosse stata aperta ci sarebbe stato un portiere di notte… (e forse riempire moduli o pagare i 5 franchi a un fuggitivo manco viene in mente!)
Portiere che, ovviamente, non avrebbe fatto una piega vedendo una persona, non cliente dello stesso Albergo, in mutande e ciabatte e con una coperta addosso, che cercava o gli chiedeva le chiavi di un rifugio a 2600 metri.
Ha dell’incredibile e del ridicolo: conoscendo un pochettino gli svizzeri, costui avrebbe immediatamente chiamato i gendarmi, altro che far finta di nulla!
Evidentemente, le fantasiose ricostruzioni devono proseguire per dare alla storia un “tono”. E continuano persino fantasticando sul biglietto trovato addosso al povero Castiglioni quando fu ritrovato morto assiderato sul Ghiacciaio del Forno: contiene dei nomi che, ovviamente, secondo alcuni, erano i suoi contatti in Svizzera, persone legate ai Servizi segreti inglesi o all’OSS americana o al Comitato di Liberazione Nazionale italiano. Peccato che quei nomi non compaiano altro che su quei foglietti! Nessuno di loro si trova in alcun documento storico, a parte il fatto che allora, nessuno, e sottolineo NESSUNO, avrebbe mai portato in tasca, in una missione clandestina, i nomi dei suoi contatti: molti son morti, spesso dopo atroci torture per non aver fatto un nome dei propri “complici”, figuriamoci se avevano costoro un biglietto in tasca, con tanto di nomi ed indirizzi!
D’altra parte, pur avendo contattato tutti gli autori di articoli rivelazioni e biografie e spiegato loro i miei dubbi, non ho mai ricevuto una che sia una risposta, a parte quella di chi sta (ma ormai siamo all’uscita) girato un film su Ettore Castiglioni e che, letto un mio post su Mountcity.it ha pensato bene di chiedermi ragione delle mie affermazioni sottolineandomi per altro di non aver voluto, nel film, prendere una o l’altra “versione” per buone ma lasciando in qualche modo aperta la questione.
Sgomberiamo il campo: mai sostenuto che E.C. fosse fascista e tanto meno che non fosse un grande alpinista! Ma, per onestà, neanche il “partigiano” che hanno dipinto. Fare il partigiano, con la stizza da borghese quale era (come ho scritto) lo considerava lui stesso come “fare il bandito”. La sua scelta fu tirare a campare e aspettare. Contrabbandando fontina e uomini. Questo fece. Forse altri suoi commilitoni fecero diversamente, ma ricordati che gli ufficiali come lui, nella sua caserma, volevano combattere i tedeschi… 800.000 Internati Militari Italiani mi pare abbiano fatto una scelta ben più pericolosa della sua. E, basta guardare storie e nomi, anche gente altolocato, borghesi come lui, fecero una scelta: combattere per cacciare i nazisti e abbattere il fascismo. Lui invece va a Milano (dopo l’8 settembre!) dal CAI fascista perché la sua Guida non era ancora stata pubblicata… Come se il fascismo fosse solo esercito e guerra e non potere e luoghi di potere! A me pare soprattutto, molto “castiglionicentrico”. Tutto quello che ho scritto qui sopra non ha mai trovato una smentita (da Cognetti neanche un rigo…).
Paolo Cognetti, 31 luglio 2017
Ciao Marco,
intanto: questa è casa mia, non un forum pubblico di discussione, e non vieni qui a provocare né a pretendere risposte che io non ti devo.
Il gioco del “chi è stato più partigiano di chi” lo rifiuto in partenza: ci sono state diverse Resistenze, Castiglioni ha portato avanti la sua e ha pagato con la morte. Per questo vergognati, e in ogni caso liberaci dalla tua acredine, grazie (se vai avanti su questi toni ti caccio io).
marco vegetti 10 agosto 2017 17:46
Caro Paolo, certo che questa è casa tua. Io non ho fatto altro che dire la mia mia sul tuo pezzo. Di questo dovrei vergognarmi? Perché mai?
Ho 61 anni, ho lavorato per dieci anni alla Fondazione Feltrinelli,altri dieci all’Istituto Storico per la Storia del Movimenti di Liberazione in Italia (quello che conserva le carte del CVL e del CLNAI), poi dodici nella Biblioteca del Club Alpino Italiano. Si, mi permetto di saperne un po’, di aver letto molto e di aver molto ascoltato mio padre, partigiano combattente, funzionario del PCI, Vice-presidente dell’ANPI provinciale di Milano, presidente della Sezione Clerici dell’ANPI sempre a Milano. Ha 92 anni e ho avuto 40 anni per ascoltarlo e conoscere molto del periodo di cui si parla. Dovrei vergognarmi del fatto di avere acquisito conoscenza? E grazie a quella conoscenza acquisita conoscere la Storia? Io pongo dubbi, non insulto nessuno, tra l’altro basati su una ricerca storica, non su altro. Anzi, a volte, come avrai letto, addirittura sulle parole dello stesso Castiglioni. Ci sono state molte Resistenze? Lo so benissimo. Ma erano Resistenze. Quella di Castiglioni era semplicemente un modo di “tirare avanti” (lo dice lui stesso). Nel mondo di allora, credimi lo conosco bene, c’erano molte scelte possibili da fare. La differenza sta solo nel semplice fatto che chi ha combattuto ha fatto la sua parte nel liberare il nostro Paese da fascismo e nazismo, gli altri, hanno solo aspettato, chi il futuro, chi gli Alleati. Una cosa mi preme: lascia stare la morte di Castiglioni per favore. Nulla ha a che fare con la morte di più di centomila giovani italiani che, magari con un moschetto 91 in mano, sono morti combattendo. Mio padre è salito in montagna a 18 anni, ne è sceso diciotto mesi dopo. Ha visto, lui sì, morire affianco a lui ragazzini che credevano, checché il mainstream ne dica, a una cosa sola: LIBERTA’, PACE, LAVORO.
Vergognarmi di che, caro Paolo?
ciao Marco.
Ho letto la tua meravigliosa “pappardella”.
Forse più che risponderti ne ha solo dovuto prendere atto.
Vediamo prossimamente se ne terrà conto.
Complimenti competenti.
forse capiranno dopo, quando non avranno più nulla da saccheggiare . Ma sarà troppo tardi.
Purtroppo non riescono a vedere, nell’integrità dell’ambiente naturale, la ricchezza che hanno. Sono convinti che ricchezza vada a braccetto con calcestruzzo.
purtroppo da chi ha già perpetrato tutto il danno che è stato arrecato al circondario del monterosa valdostano non ci si può aspettare una tregua proprio ora davanti all’ultimo lembo da saccheggiare…se non hanno capito prima difficilmente capiranno ora…
Io su Cognetti ho messo da tempo una X…
Su “Robinson” di Repubblica (ben prima dello Strega ma forse già in odore di…) e sul suo blog ( https://paolocognetti.blogspot.it/2017/04/il-giorno-delle-mesules.html?showComment=1494524794741#c7507392008378277289 ) ha scritto delle cvose su Ettore Castiglioni. Avevo prontamente ribattuto, chiedendogli lumi, ma pur rispondendo ad altri si è guardato bene dal farlo. Questo nonostante i commenti su quel pezzo fossero tre o quattro.
Beh, a me chi non risponde non piace a prescindere. Punto.
Figuriamoci ora che è assurto a “voce profonda della montagna”…
tutto vero e giusto ma ora spero che Cognetti non divenga per la montagna quello che è diventato a suo tempo Saviano per la mafia.
A questo punto – incredibile ma vero – non mi rimane altro che parteggiare, con tanta amarezza, per il riscaldamento globale! Il che, detto da un amante dei ghiacciai e delle Alpi Occidentali, è paradossale.
Galletti e la stragrande maggioranza dei politici italiani non hanno codici morali: contano soltanto il potere, il denaro e le ruberie. Che cosa gli importa di come sarà ridotto l’ambiente in futuro?
L’innalzamento delle temperature e le sempre piú scarse nevicate invernali stanno facendo scomparire a poco a poco lo sci di pista sull’Appennino Tosco-Emiliano, quasi dappertutto in perenne perdita economica e con costante diminuzione di fatturato e di sciatori. Ebbene, si continuano a foraggiare le stazioni sciistiche con demenziali finanziamenti a fondo perduto.
Non si concepisce neppure la possibilità di un turismo diverso, piú rispettoso e persino piú gratificante.
speriamo che lo legga anche il Ministro Galletti. Ma lo capirebbe?
Sì, è tempo di un manifesto.