La Natura verticale alla luce della libera esplorativa – 2 (2-2)
di Ivan Guerini
(da Annuario CAAI 2006, per gentile concessione)
Gli infissi geotecnici e la difficoltà alterata (metà anni Ottanta)
Nel 1985, mi recai per qualche tempo e un po’ prevenuto a ripetere qualche tracciato a spit, giusto per farmi un’idea del tipo di salita. Se è vero che il progresso tecnico rende la vita indiscutibilmente più comoda, questo proprio non si può dirlo dell’arrampicata a spit che, a livello di capacità soggettiva, è oltremodo impegnativa. Si tratta di una tipologia di salita che, per numero di infissi, consente una progressione esaltante come un giro sull’ottovolante, soddisfacente come il sorriso serrato di una felicità costretta, emozionante, rispetto alla libera, quanto può esserlo l’effetto speciale d’un film rispetto a un fatto vero.
Il futuro dell’arrampicata e dell’alpinismo prospettato e realizzato dai tecnocrati
Dato che i tracciati a spit, al pari dei nuovi itinerari che stavo percorrendo sulle falesie delle Prealpi Lombarde, si svolgevano su roccia, mi venne spontaneo confrontarli: mi domandai cosi «che tipo di difficoltà fosse quella che in mancanza d’infissi non sarebbe magari mai stata salita».
Paragonando le tre forme d’arrampicata praticate negli anni precedenti alla libera esplorativa, avevo considerato che la presenza e la quantità dei mezzi tecnici certamente “indebolivano” la difficoltà, tuttavia nei tracciati a infissi accadeva qualcosa d’ancora più marcato che andava al di là della difficoltà modificata.
La reale differenza non riguardava una presunta slealtà dello spit rispetto alla lealtà del chiodo, proprio perché l’opposta tecnologia di quei mezzi non li rendeva paragonabili. Essa era dovuta all’incidenza che sulla roccia lo spit ha rispetto al chiodo e consisteva nel fatto che chiodi, nut e friend sono mezzi tecnici che si possono inserire soltanto nelle cavità naturali, mentre lo spit è un infisso geotecnico che s’inserisce ovunque.
Questo mi diede la conferma che gli infissi, in rapporto alla roccia, non avevano tanto la funzione di assicurare gli arrampicatori da eventualità incidentali come il rischio di caduta, ma d’eliminare proprio ciò che impedirebbe loro di salire.
Da quella presa di coscienza, scaturì un interrogativo sostanziale: cosa toglieva lo spit alla roccia? Paragonando la diversa incidenza operata dagli itinerari e dai tracciati sulla “compattezza parziale” delle falesie verificai che gli infissi geotecnici trasformavano la difficoltà inalterata in una difficoltà alterata.
Stato di compattezza e natura del difficile (fine anni Ottanta)
Così, dopo due decenni di pareti esplorate, durante i quali gli anni, i mesi, i giorni e le ore erano diventati momenti di pietra percorsi, arriviamo a fine anni Ottanta, punto cruciale e svolta del discorso trattato in queste pagine.
A ben ricordare tutto cominciò nel 1972 quando, ancora adolescente, mi recai a visitare i Calanchi nell’Appennino Tosco-Emiliano assieme a Davide, mio compagno di scuola. Salendo per i loro fianchi cedevoli notai come quel fango compresso fosse costituito in superficie da scaglie cedue essiccate dal calore del sole. Frantumandosi sotto il mio peso, esse accompagnavano ritmicamente i movimenti del corpo impegnato nella salita, come il suono d’un metronomo scandisce quelli d’un danzatore.
Le fragili incrostazioni che si staccavano dalla superficie di quel fango compresso mi fecero notare che la compattezza e la fragilità di quella materia, al pari della sicurezza e dell’insicurezza da esse riflesse nella psiche di chi sale, erano componenti sostanziali di un’unità geologica indivisa come quei gemelli siamesi che non si possono separare. Due anni più tardi, arrampicandomi sulle pareti calcaree inesplorate, alle radici basali delle Grigne, sullo gneiss della Val Pogallo e sul granito a placche particolari dell’ancora misconosciuta Val di Mello, notai che l’inchiodabilità, più che un inconveniente rischioso che limitava la possibilità di progredire, era espressione d’uno stato naturale: la compattezza.
Momento d’arrampicata sulla Falesia (a compattezza parziale) dell’Avorio
Dopo aver percorso un certo numero di pareti sconosciute caratterizzate da settori compatti, scoprii che la difficoltà non era determinata soltanto dalla grandezza o meno delle prese, dalla fatica e dalla delicatezza del sostenersi, come non era soltanto un livello nella graduatoria della scala dell’impegno, ma era formata da “componenti costitutive” che davano forma alla natura della difficoltà.
Fu un’importante presa di coscienza, che di lì a poco mi portò a considerare le proprietà speciali di quel determinato stato della roccia che, amplificando l’attenzione, attivano una sensibilità d’azione più consapevole, con la quale è necessario interagire per circoscrivere l’attitudine a rischiare.
Cosicché la compattezza divenne per me un “volto materico” dalla “voce retroattiva” che, contraendo le mie emozioni, plasmava la disinvoltura in fluidità della sequenza di posizioni fino ad attivare una sorta d’ingegno intuitivo necessario a procedere quando le possibilità d’assicurazione diventavano sporadiche. Aver compreso tutto questo fu per me più importante di qualsiasi difficoltà che avessi potuto superare.
Da qui la scelta di praticare la libera esplorativa senza mezzi che incidono sulla difficoltà inalterata della roccia: esplorare per approfondire l’interazione tra le tipologie di salita e la natura verticale.
La manipolazione della difficoltà inalterata
A metà del decennio Novanta, dopo aver salito in falesia un numero elevato d’itinerari con protezioni in sedi naturali, e altrettanti tracciati a spit, presi atto che i mezzi geotecnici in generale, come i fittoni (1400), gli infissi a espansione (fine 1930), a pressione (1960), lo spit (1982) e i fix (1990) incidevano sulla natura della difficoltà originata dalla compattezza della roccia e quindi non erano tanto “mezzi protettivi” ma piuttosto veri e propri “strumenti ottenitivi”, impiegati per manipolare la natura della difficoltà inalterata riducendola così ad una difficoltà alterata, a misura dei limiti e delle capacità di ognuno.
A questo punto è opportuno riassumere le trasformazioni operate dai mezzi tecnici e geotecnici d’assicurazione nelle differenti tipologie di salita, rispetto allo stato della roccia che origina la difficoltà:
1 – con percorsi in libera integrale (1900) senza mezzi tecnici si sale una difficoltà intatta;
2 – con itinerari in libera attrezzata (1920) da mezzi tecnici si sale una difficoltà modificata;
3 – con itinerari in libera esplorativa (1970) con mezzi in sedi naturali si sale una difficoltà inalterata;
4 – con tracciati di tecno climb (1982) a infissi geotecnici si sale una difficoltà alterata;
5 – con tracciati d’arrampicata sintetica (1985) si sale una difficoltà artefatta.
Momento d’arrampicata sulla Falesia (a compattezza parziale) di Giazzìma
Affrontare o confrontarsi con una difficoltà sminuita
Chissà se gli arrampicatori e gli alpinisti si recano davvero in roccia per superare la difficoltà e per conoscere i propri limiti, o piuttosto, e qualche volta ne ho davvero il dubbio, abbiano scelto di adattarli con qualsiasi mezzo alla propria incapacità di superarli.
Qualche anno fa ho avuto la fortuna di vedere un interessante documentario, in cui un episodio riguardante una studiosa francese di rettili evidenziava bene la differenza tra “affrontare direttamente” o “confrontarsi indirettamente” con la natura.
Mentre camminava lungo una strada in terra battuta d’una regione indiana, si trovò all’improvviso di fronte a un grosso cobra reale, che si sollevò di fronte a lei come un evento inevitabile da affrontare. La ragazza, rimasta tranquilla davanti al minaccioso serpente, prese a dondolare un foulard fino a placarlo, afferrandolo poi al collo con un gesto fulmineo. Questo esempio mi serve ad affermare che la maggioranza degli arrampicatori, quando scala su vie protette a spit è convinta di confrontarsi con un grado di difficoltà “reale”, proprio come quel cobra. Se si esamina però con attenzione la situazione, è evidente che quando gli spit sono “vicini” il confronto è “indiretto”, come se quel cobra fosse al di là d’uno spesso vetro, mentre quando gli spit sono “lontani” il confronto è “diretto” ma “alterato”, perché a quel cobra abbiamo prima tolto il veleno.
Quando si sale un tracciato a spit vicini “preposizionando” i rinvii, oppure a spit lontani “penzolando” da un resinato all’altro per provare i passaggi o proseguendo in continuità fino alla caduta, e infine riuscendo dopo numerosi tentativi, si è praticamente da secondi anche se si scala da primi – si sta salendo in “arrampicata interrotta” o con “resting aereo”. Si è così smantellata progressivamente l’incognita psicofisica, e anche la “difficoltà obbligata” risulta un “limite ristrutturato” a misura dei forti, sopra la difficoltà realmente obbligata della roccia, quella dove magari ci si può assicurare sul VII ma non sul IX.
I casi che ho citato, fanno riflettere sulla differenza che sussiste tra chi in falesia sale facilmente un difficile tracciato a spit che conosce a menadito e chi, magari sempre in falesia, sale itinerari che non conosce con difficoltà molto minori e con punti di protezione che non sa dove, come e quando potrà inserire.
Ancora Monica Mazzucchi in esplorazione sulle falesie
Per questo, sarebbe corretto definire la “difficoltà lavorata” come “difficoltà sminuita” e chiedersi come sia possibile realizzare una “scala comparata” delle difficoltà (dove il 6b, inteso come grado “sportivo”, dovrebbe corrispondere al VII inteso come grado “alpinistico”, di esplorazione) se – in rapporto allo stato della compattezza che origina la difficoltà – il primo è una “replicazione alterata” del secondo. Da ciò si deduce che né la Scala UIAA né quella francese hanno mai tenuto in considerazione l’importanza sostanziale che ha lo stato naturale della difficoltà.
Ma è pure interessante osservare come la “difficoltà serrata” dei tracciati a infissi ha portato inevitabilmente a considerare “discontinua” la “difficoltà variabile” degli itinerari e quasi dei “sentieri” la “difficoltà sporadica” dei percorsi. Inducendo i praticanti a stimare la natura verticale col “culto della continuità”.
Oggi si afferma che lo spit ha reso tutto più onesto ed evidente rispetto al tempo in cui gli arrampicatori facevano quello che volevano potendo anche barare.
lo non ne sarei così sicuro. Ho invece la sensazione che il fatto d’aver codificato un “confronto mediato” con una “difficoltà sminuita” sia occorso a conferire agli arrampicatori un’illusione di riuscita che rimuove la necessità di affrontare la propria ambiguità: il terrore d’esser smascherati induce poi gli individui a barare per sottrarsi al giudizio storico.
La via del de-grado
Perché voler considerare chi s’arrampica così drasticamente diviso dalla natura della roccia, se su di lei egli si reca proprio per superare i propri limiti? Probabilmente, il “limite di difficoltà” ancora oggi insuperato non si trova sulla roccia ma riguarda i “limiti dei punti di vista”.
I “limiti dei punti di vista” che i tecno climber hanno della roccia, mi hanno sempre lasciato amareggiato per il loro modo di considerarla, sconcertato per la confusione d’idee piene di contraddizioni, e avvilito per le conseguenze che ne derivano.
Ricordo che nel recente passato c’era chi si è domandato perché «si sono accettate senza problemi le corde in nylon, ma la stessa cosa non accade con gli spit?» Ma cosa c’entra il miglioramento del materiale tecnico con l’intervento del materiale su roccia? Sono due cose diverse, perché la prima riguarda effettivamente il progresso tecnico, la seconda “considera tecnicamente” la natura verticale.
Ricordo molti altri che, per descrivere pareti, hanno spesso impiegato la parola “roccia cattiva” per indicarne le caratteristiche d’instabilità. In realtà essi rivelano solo come un punto di vista “esteticamente deformato” da un’idea di fondo di “bello e pulito” inevitabilmente porti a dare un giudizio spregiativo della natura verticale.
Il giorno delle prime ascensioni del Sass Négher (1977)
Ricordo altri ancora che hanno ritenuto l’attrezzatura di pareti come Sassella, Sirta e Sasso Remenno un modo di salvaguardarle. Eppure quando si attrezza interamente una parete con infissi permanenti e applicazioni di resina non si tutela ma si determina semmai la “certezza di percorrenza”, rivelando come questo modo di “bonificare” sia in realtà una “idea d’epurazione” dalle componenti naturali contrastanti gli obbiettivi di sistemazione.
Come ho già avuto modo di riportare nell’articolo Rispettare gli habitat verticali pubblicato su Lo Scarpone n. 9 (settembre 2006) e nel sito Internet d’arrampicata Lario Climb, il lavoro di disgaggio del Sass Négher è stato ritenuto nientemeno che didattico, con valenze culturali, addirittura di tutela pubblica e ambientale, un elenco di valori esattamente opposto a com’è stata trattata la natura verticale di quella parete. Per via dei rari ancoraggi lasciati come testimonianze storiche di passaggio lungo gli itinerari, si poteva pensare che gli autori di quell’operazione (che hanno comunque lasciato sul campo stick, chiazze di resina e tentativi di foratura) non fossero informati dell’esistenza di quelle vie.
Recentemente però, sulla Scogliera di Plasmateria, che cade a picco sulle acque del lago di Lecco accanto alla Punta di Morcate (dov’era già stata resinata e ri-nominata la difficile Casalingofrenìa) sono stati attrezzati a infissi tutti gli itinerari saliti assieme a M. Garavaglia nel luglio 1987 (ne cito cinque: il Diedro No-Gara, Tegulaitìs, Estasi Scultorea, Tarcisio Fazzini, Clessidrathlon), nonostante la presenza evidente di qualche chiodo e di diversi anelli di corda sulle clessidre. In questo caso proprio non si può affermare che gli itinerari non erano visibili.
Tutto ciò dimostra l’incapacità, da parte degli attrezzatori, di considerare la “valenza culturale” degli itinerari storici pre-esistenti e soprattutto quella riguardante la natura verticale delle falesie.
Inevitabilmente penso alle considerazioni di Gian Piero Motti nella sua ultima monografia su Caprie, nel periodo precedente al suo suicidio, che mi parvero naufragare nella disperazione, in balìa dell’impossibilità d’approdare dai “flutti della storia” alla “terra ferma del mondo naturale”. Punto di partenza e arrivo dell’attività, delle vicende e della vita stessa.
Valorizzare evitando di degradare
Perché mai gli infissi geotecnici dovrebbero essere considerati strumenti così negativi? Ho l’impressione che molti arrampicatori non si rendano ancora conto di ciò che ha comportato la loro applicazione dilagante.
Basta analizzare per sommi capi la storia dell’arrampicata per accorgersi che il passaggio intercorso da alpinismo tradizionale (1900) e arrampicata libera (1920) ad alpinismo attrezzato (1982) e arrampicata sportiva (1985) ha condotto a quella tipologia di salita, praticata di rado a partire dai primi anni Novanta, che si serve di tacche scavate, asperità resinate, sassi (e più raramente prese sintetiche) applicati sulla roccia e che per questo può essere considerata arrampicata de-gradata.
Prospettive per il futuro delle pareti di fondovalle e media montagna?
Ai fautori dello spit questo mezzo è apparso una possibilità efficace per realizzare una “sicurezza assoluta” che avrebbe definitivamente sconfitto la “possibilità di rischiare” in modo da permettere all’arrampicata di compiere uno “scatto evolutivo” rispetto al “progresso sulle difficoltà”.
Tuttavia non si è tenuto conto che l’impiego codificato e poi sempre più diffuso dello spit avrebbe attivato un processo incidentale caratterizzato da ripercussioni relazionali e conseguenze ambientali tali da causare una regressione culturale in rapporto alla natura verticale.
A partire dall’utilizzo dello spit, molti si sono sentiti coinvolti, provocati o in dovere di dire la loro, ognuno con le proprie convinzioni, col proprio livello di chiarezza, giustificandone in genere l’impiego indiscriminato. Come ho già detto, questo ha portato a sostituire nella mentalità della maggioranza degli arrampicatori l’idea di “scoprire per valorizzare” con l’idea di “attrezzare per affermarsi”.
Il fatto di utilizzare la medesima tipologia di attrezzatura su rocce differenti ha poi un effetto omologante sulle caratteristiche della geodiversità che di conseguenza elimina, nella percezione degli arrampicatori, la funzione specifica che i litotipi hanno in rapporto al salire, inducendoli ad agire pensando il meno possibile e trasportando il degrado culturale in quello ambientale.
Indipendentemente da quanto possano essere informati coloro che attrezzano falesie con l’impiego di mezzi che incidono sulle componenti naturali della roccia, essi hanno comunque sviluppato una mentalità che li porta a non considerare saliti o salibili determinati settori. Ecco perché, pur trovando tracce di passaggio, in tanti casi hanno dimostrato di non avere un approccio corretto con i percorsi e gli itinerari realizzati in precedenza.
Ci si deve rendere conto che una grande parete alpina non vale di più di 10, 100, 1000 piccole falesie, poiché queste ultime sono caratterizzate da un ecosistema più delicato, dove sussistono caratteristiche geomorfologiche più deteriorabili, oltre al fatto che vi stazionano specie animali e vegetali che in ambienti glaciali non ci sono.
Se è vero che gli addetti ai lavori considerano la roccia e gli itinerari pre-esistenti uno strumento del loro mestiere, non dovrebbero comunque intervenire con una tipologia di sistemazione a impatto sui micro habitat verticali, poiché questi non appartengono al loro modo di ragionare ma a tutti.
Certe falesie vanno frequentate sporadicamente e in punta di piedi, nel rispetto della specificità delle loro caratteristiche e componenti, ricordando sempre che il mondo è grande e non va chiuso in una visione ristretta, in quanto ogni sua parte è collegata alle altre e, per essere preservata, richiede lungimiranza da parte di ciascuno di noi.
Il fatto che in montagna ognuno abbia la libertà di prodursi come meglio crede è legittimo, questo però non presuppone il diritto di “fare quello che ci pare”.
Se è vero però che ripristinare ciò che di un luogo va perduto, come vecchi sentieri o alpeggi in rovina, in giusta misura e non dovunque, può far parte di un discorso di salvaguardia del patrimonio storico e ambientale, riflettendo sul significato autentico della “valorizzazione” ci si accorge che non si può farlo smantellando, estirpando, diserbando e resinando senza ritegno le componenti costitutive della natura verticale. Proprio per questo è necessario fornire esempi di relazione formativa per valorizzare evitando di degradare.
La via del de-grado pienamente realizzata sul Muro della Perla e su quaranta dei numerosi itinerari precedentemente saliti lungo i settori della Falesia di Fiumelatte
Un’attività esplorativa come testimonianza propositiva
Perché mai, per quasi quarant’anni, ho mantenuto il riserbo sulla gran parte di zone che ho esplorato? Se ne fossi stato geloso, a fine anni Settanta non avrei mai evidenziato la particolarità della Val di Mello, né mai avrei rivelato vent’anni dopo l’esplorazione avvenuta sugli speroni della Val Pogallo e le pareti montuose dell’alta Val Grande.
Scorcio sulla Falesia dell’Avorio, dove negli anni ’80 furono saliti in libera esplorativa (con mezzi tecnici d’assicurazione in sedi naturali) numerosi itinerari (113 fondamentali) da 30 a 350 m dal V al IX
Dopo il decennio Ottanta pubblicai alcune monografie esplorative (Dalla parte delle pareti, Sasso di Dascio, Cima delle Dune) sulle pagine della Rivista della Montagna, rivolte principalmente alla conoscenza e alla frequentazione consapevole della natura verticale, probabilmente le prime a essere concepite in quel senso, dato che il parere degli ambientalisti mi pareva più concentrato sulla tutela dell’avifauna che in loro nidifica che alle componenti specifiche della roccia. La ragione per cui non scrissi più nulla in seguito è dovuta al fatto che nel periodo in cui terminavo d’esplorare quelle zone, stava decollando la tecno climb a infissi che comportava un evidente impatto tecnologico sulla roccia. Come esploratore dell’ingente quantità di strutture esistenti mi sentivo responsabile della loro divulgazione perché l’affollamento invasivo le avrebbe certamente alterate fino a trasformarle da ecosistemi verticali a “parco giochi”.
Per il fatto che il Gioco Arrampicata della Val di Mello era stato interpretato come un modo per “Prendersi Gioco della Roccia”, considerai che i tempi non erano maturi e ritenni che fosse più importante continuare ad esplorare, anziché opporre alla “ideologia del trapano” contenuti che sarebbero stati certamente considerati polemici e prettamente introspettivi.
Sulla sommità del Pilastro d’Argento pensai…
Le Zone No spit
Nel 1999, in occasione della pubblicazione del libro sulla Val Grande e Val Pogallo, ho proposto per quelle zone il logo Zone No Spit, un concetto di salvaguardia della consapevolezza per l’identità geostorica dell’ecosistema verticale, affinché questo non sia più vissuto col punto di vista tipico di un “ottica museale” ma percepito per le qualità delle sue componenti costitutive.
Pertanto, se in questi anni sono stati attrezzati sulle falesie di Lombardia un’ingente quantità di tracciati di tecno climb a infissi geotecnici dalle difficoltà alterate, allora è necessario preservare anche la testimonianza storica delle centinaia tra falesie, rupi e speroni da me esplorati nelle Prealpi e nelle Alpi Lombarde, in compagnia d’amici dal 1977 al 1997, con itinerari compiuti in libera esplorativa (con mezzi tecnici di protezione in sedi naturali) senza aver inciso sullo stato di compattezza delle difficoltà inalterate dal IV al IX.
Ricordo ancora ciò che pensai il giorno in cui raggiunsi la sommità del Pilastro d’Argento, una gigantesca stele che svetta come una lapide opaca in uno dei luoghi più remoti delle Alpi Retiche, parete di montagna che aveva le medesime caratteristiche delle fiancate di fondovalle: un conto è servirsi della roccia per ottenere risultati, cosa ben diversa è servirsi dell’arrampicata per conoscere la natura verticale e se stessi tramite lei.
Nel 1999 Ivan Guerini ha concepito il marchio ZONE NO SPIT (o NO SPIT ZONE), per la preservazione della Natura Verticale. Ivan si adopera perché questo marchio sia “storicizzato”, perché legato sapientemente alle pareti percorse e ancora da percorrere.
Si ritiene che anche questo post a sua firma debba riportare questo logo, nella speranza che stimoli una maggiore apertura di coscienza al riguardo della Natura verticale.
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Forse il voler portare “dovunque” l’arrampicata è stata la causa del
de-grado.
Ma è interessante vedere come le persone facciano contente le persone
de-gradate .
Se ne scrive e se ne parla tantissimo e si fanno anche tanti films e tante foto.
Assolutamente condivisibile.
Grazie Ivan