Metadiario – 175 – La primavera dello sci (AG 1994-003)
(scritto nel dicembre 1994)
Da qualche decina d’anni lo scialpinismo ha fatto boom: non appena la stagione favorevole inizia, i rifugi delle zone più belle e famose si riempiono e vivono quasi una seconda estate. Per questo è necessario prenotarsi in tempo, in certi casi già l’anno precedente, oppure prepararsi a bivacchi che possono essere anche scomodi. Alcuni hanno risolto il problema anticipando la stagione sciistica, salendo quando i rifugi son chiusi e pernottando nei locali invernali di cui molti sono dotati. A questa soluzione sono però costretti anche coloro che non hanno prenotato in tempo.
Alessandro Gogna al rifugio Benevolo (Val di Rhêmes), 28 aprile 1994. Foto: Marco Milani.
E’ il 22 aprile 1994 quando saliamo al rifugio Benevolo, Paolo Cerruti, Marco Milani ed io. Autentico punto di riferimento per alpinisti fuori stagione, il rifugio invernale si presenta con tutta la sua nuda semplicità. Pochi metri quadrati, pochi posti letto, quasi mai senza luce e gas, a volte umido, puzzolente e freddo, altre volte, come al rifugio Benevolo, ben organizzato e coibentato. Vi si giunge quasi sempre di sera, sudati, al freddo e stanchi; subito si scatena la caccia a qualche mozzicone di candela che scalda e fa luce. Si cercano le migliori coperte, si prepara il giaciglio e si mette a scaldare qualcosa sul fornello. Fuori è già notte, anche se sono le cinque di sera. Quattro chiacchere, due cucchiaiate e tanta nostalgia di un grappino o del vino che, per evitare peso eccessivo, è stato stoicamente lasciato a valle. Poi subito a letto, raggomitolati nelle coperte spesso umide, in attesa del nuovo giorno ancora lontanissimo che giunge come una liberazione.
Se chiedete ai passanti cosa sono i rifugi alpini, quelli daranno risposte diverse. Ancora più diverse se si cambia la nazionalità dell’intervistato, quindi la sua cultura generale in fatto di “montagna”. Le risposte sono fantasie sull’architettura, ipotesi su caldo, freddo, neve, caminetto, guardiano, servizi igienici, voglia di solitudine, magari divagazioni sui baretti accanto alle piste di sci dove ti servono il brodo e il wurstel.
Dal rifugio Benevolo verso Punta Lavassey (Val di Rhêmes). Foto: Marco Milani.
Ciascuno di questi individui ha risposto correttamente e ha descritto almeno un rifugio alpino che veramente esiste. Tante sono le varietà e le realtà diverse.
Il rifugio Benevolo, nell’alta Val di Rhêmes, si presenta con una costruzione assai gradevole, è utile per la sua posizione, è moderno per come è gestito. Aperto da marzo a fine settembre, può ospitare 80 persone, dispone di telefono e servizi e, d’estate, è solo a poco più di un’ora di cammino dal posteggio delle auto.
I custodi, Mario Ogliengo e Luisa Dusi, conducono un esercizio in alta quota e in isolamento da tanti anni con immutato entusiasmo. È come avere un alberghetto, ma con molti problemi in più, dall’approvvigionamento alla difficoltà delle piccole riparazioni.
La nostra telefonata aveva chiarito che il rifugio era, come sempre, pieno: ma che un posto per Marco Milani, Paolo Cerruti e me lo si sarebbe trovato…
Calziamo gli sci direttamente al posteggio e, dopo un paio di chilometri scivolati veloci quasi in piano, i tratti di salita al rifugio ci costringono a toglierli in qualche punto. Lo scioglimento delle nevi non permette una marcia uniforme, il sole ha già lavorato alcuni pendii meglio esposti e l’erba con i primi bucaneve fa capolino in mezzo allo scrosciare dei ruscelletti di fusione.
Dalla Punta Lavassey (alta Val di Rhêmes): da sinistra, Roc del Fond, Punta Calabre, Punta Quart Dessus e (appena visibile) Punta Tsanteleina. Al centro, Granta Parei, Becca della Traversière, Punta Bassac, Grande Traversière. Foto: Marco Milani
Dietro una curva appare il rifugio che, appoggiato su una prominenza rocciosa, fa la guardia alla parte superiore della valle, qui abbastanza stretta. Le luci non sono ancora accese, il cielo si sta scurendo, c’immaginiamo i profumi della cena e l’incontro con i nostri amici.
Con un bellissimo sorriso i custodi, nel pieno della confusione delle tavolate, riescono a dedicarci qualche minuto, a domandarci come va e cosa vogliamo fare di preciso. Ci sono ottanta persone che lavorano di forchetta, si devono fare due turni, ma sembrano tutti gradevolmente stanchi e soddisfatti. Risate ovunque, chiacchierano fitto di non so cosa, forse dei programmi del giorno dopo. Uomini grandi e grossi con la barba brizzolata, donne minute in salopette, intellettuali con gli occhialini e lo sguardo da topo. Per tutti, una settimana al Benevolo è un grande obiettivo, specialmente per gli appassionati di lingua tedesca. Anche i francofoni conoscono questa valle e le sue splendide gite per le escursioni primaverili con gli sci, ma sono in netta minoranza. Gli italiani, poi, li vedi quasi solo al sabato e alla domenica: per loro il Benevolo non è la Mecca di una usuale settimana di scialpinismo. Stretti dialetti teutonici, ricchi di consonanti, sovrastano gli altri idiomi e la birra scorre, in alcune tavolate, a ondate di piena schiumeggiante.
Mario, che è guida alpina, conosce tutte le altre guide: la sua gentilezza e voglia di comunicare vanno oltre l’affabilità del buon padrone di casa. Con loro parla, in francese o in tedesco limitato, delle settimane che farà con i suoi clienti, in Svizzera o in Savoia. Mi confida che dopo alcune settimane di lavoro così intenso non riesce più a tenere quel ritmo infernale e deve allontanarsi, lasciando tutto nelle mani dell’equipe così accortamente selezionata negli anni. E comunque Luisa sa perfettamente cosa deve fare, ancora più concreta ed efficiente.
Così, mentre mi parla dei problemi che hanno nel gestire quella folla quotidiana, Mario continua a servire boccali di birra e bicchierini di grappa a quelli che intanto hanno fatto onore a tutte le portate. Poi viene anche il nostro turno: era ora, avevamo proprio una gran fame di fronte a quel masticare e bere.
Paolo Cerruti e il suo cane Axel in vetta alla Punta di Lavassey, 28 aprile 1994. Foto: Marco Milani
Appena sparecchiati i tavoli, ci viene annunciato che un gruppo di austriaci farà uno spettacolino. Per mezzora li vediamo armeggiare con un lenzuolo, con un po’ di frutta e alcune posate. Poi gli attori prendono posto nel silenzio generale. Appartengono al gruppo che ha tracannato di più e lo si vede. Dei due mimi, il primo ci mostra solo il volto rubizzo e furbo, il secondo è piazzato dietro di lui e lo cinge in maniera tale che le sue braccia, fuoriuscenti dal lenzuolo che copre il primo a mo’ di tovagliolo, sembrano quelle di quest’ultimo, rimpicciolite e goffe. Due braccine deformi, ma dotate di straordinaria gestualità e mimica comunicativa. La storia è assai semplice, si riduce alla rappresentazione del pasto, con tutte le espressioni che un normale ghiottone può assumere quando si accorge di non poter più controllare le proprie mani: braccia che diventano la buona coscienza della moderazione.
Alle prime risate, segue improvviso un fragore eccitato: la sala intera ride esplosivamente, divertendosi di gusto ad una comicità così semplice, genuina, ad una bravura così ammiccante. Dieci minuti indimenticabili, non raccontabili perché per definizione il mimo è nemico della parola.
Alle ventidue, tutti a nanna. I più traballanti si attardano al banco a bere ancora alcolici con Mario, cui ogni volta tocca sottrarsi all’invito senza offendere nessuno. C’è sempre il suscettibile che s’adombra se non si beve con lui. Poi anche loro s’avviano rumorosamente alle camerate.
L’equipe del rifugio pulisce in breve i tavoli, rivolta le sedie, spazza il pavimento di legno e apparecchia infine la colazione per la mattina dopo, che sarà anch’essa in due turni, a seconda degli orari di partenza delle comitive. Intanto siamo invitati da Luisa in cucina, perché è il compleanno del loro piccolo Mattia. Una crostata fatta con arte e con amore conclude in bellezza questa magnifica serata. Dopo aver libato per l’ultima volta, usciamo nella notte a fotografare il rifugio alla luce della luna; poi, insonnoliti, guadagniamo la nostra stanzetta. Ci alzeremo tra i primi.
Sulla Punta Lavassey (Val di Rhêmes). Foto: Marco Milani.
La mattina dopo saliamo alla panoramica Punta Lavassey 2772 m, ma la meteo non ci aiuta: non riusciamo, per via di troppe nuvole, a fotografare il mondo che ci circonda. Dopo pochi giorni (27 e 28 aprile) abbiamo l’opportunità di tornare al Benevolo e alla Punta Lavassey. Svolgiamo il lavoro disponendo di tutto il tempo necessario e con calma. Scesi al rifugio, ci avviamo a valle, decisi a proseguire il lavoro da un’altra parte. Forse siamo un po’ stanchi, forse il carico sulla schiena è davvero eccessivo. Scendiamo piano, non abbiamo fretta e ci piace pensare che le cose stanno andando bene. Marco, nel riprendere la discesa dopo una breve sosta su un campetto di neve in lievissima pendenza, effettua una voltata da fermo e, non si sa come, cade in avanti. Sento un urlo, Marco è a terra, geme per il dolore e non osa muoversi. Entrambi capiamo bene che questa volta è partita la caviglia. Senza muoverlo più di tanto lo sistemo con la testa sullo zaino, gli tolgo con precauzione lo scarpone. Il gonfiore è già evidente e il dolore continuo e in aumento non lascia dubbi.
Ricalzo le pelli di foca e risalgo per duecento metri al rifugio per telefonare all’elisoccorso. Appena il tempo di farmi fare una borraccia di tè, poi scendo veloce da Marco. Beviamo qualche sorso e proviamo rabbia per i nostri programmi mancati: la tranquillità della situazione (è bel tempo, l’elicottero sta arrivando, l’assicurazione è valida) non favorisce affatto la rassegnazione e la serenità. Se ci fosse qualche paura (arriveranno a prendermi, riusciremo a cavarcela?) saremmo meno nervosi.
L’elicottero atterra a pochi metri, scendono il medico e la guida alpina, gli irrigidiscono provvisoriamente la gamba. Ci rivedremo all’ospedale di Aosta. Per Marco si riparlerà di camminare su un sentiero tra una cinquantina di giorni.
Molti mesi dopo, ai primi di dicembre, Marco, Popi, Mario e Luisa s’incaricano di concludere la campagna nell’alta Val di Rhêmes. Il rifugio è chiuso, ma il locale invernale è accogliente. Salgono la Punta Calabre e il giorno dopo il Colle Basei.
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