La rinuncia
(scritto nel 1995)
Facendo i piani per la realizzazione del settimo volume della collana I grandi spazi delle Alpi non avrei mai acconsentito a rinunciare ad una classica visione, già famosa grazie alla bravura del fotografo Ghedina. Dalla Cima d’Ombretta egli aveva ripreso, facendone in seguito una splendida cartolina in bianco e nero, la parete sud della Marmolada, una delle muraglie più alte e più verticali delle Dolomiti: sicuramente la più larga. La Cima d’Ombretta è un osservatorio ideale, di poche centinaia di metri più bassa della Marmolada, distante in giusta proporzione dalla solare bastionata, della quale permette di vedere sia l’estesa parete sud sia la più ristretta ma forse più repulsiva parete sud ovest.
No, non avrei mai potuto rinunciare a quell’immagine che avevo ormai deciso di conquistare come fosse stata una vetta. Più giovane, su quella piccola cartolina mi ero consumato gli occhi: leggevo le relazioni della guida di Ettore Castiglioni e cercavo di vedere gli itinerari che i più grandi alpinisti avevano scolpito sulla parete sud, inseguendo i diedri, i canaloni e le fessure che quella foto mi lasciava indovinare. E intanto sognavo.
La preparazione delle nostre uscite fotografiche assomiglia sempre di più ad una partita a scacchi con la montagna e con le condizioni atmosferiche. Abbiamo regole precise, tempi e budget ridotti. Non è difficile che torniamo a casa con un nulla di fatto. In alpinismo è la stessa cosa, basta considerare che una ritirata da una parete assomiglia ad una fotografia della quale non potremo mai essere soddisfatti.
Voglio proprio parlare di quella rinuncia che precede un insuccesso. Ci si prepara ad un’impresa, se ne valutano i rischi, ci si organizza convenientemente per affrontarli o eluderne una buona parte; poi si va, si lotta, si fatica e magari un attimo prima della meta un fatto imprevisto ci costringe ad una rinuncia necessaria, senza la quale il pericolo sarebbe diventato insostenibile. Questa è la rinuncia-anticamera dell’insuccesso: fa parte del gioco e bisogna accettarla perché è sempre pronta dietro l’angolo a farti lo sgambetto. Negli ultimissimi decenni di exploit alpinistici, qualcuno è riuscito a vendere al pubblico la rinuncia: in tempi in cui comunque il successo sembrava garantito (i famosi no limits) e quindi doveva sempre esserci, la formula della rinuncia è sembrata qualche volta una grande novità.
C’è però un altro tipo di rinuncia, che ha a che fare con la personalizzazione delle nostre azioni, contro una banalità sempre più imperante: la rinuncia come massima espressione di libertà.
Il gioco-alpinismo è in continua evoluzione, ma più di duecento anni di storia ci hanno dimostrato che per essere un gioco creativo, per reggere il passo con le esigenze del terzo millennio che sta arrivando, il gioco deve essere libero. Ogni tentativo di costrizione produce da una parte le grandi imprese ma dall’altra la disobbedienza che servirà a produrre altre belle imprese. In ogni caso ci dev’essere la libertà di scelta, compresa quella di rinunciare a proseguire il gioco.
Tra le attività umane contemporanee sono ben poche quelle che possono ancora permettere questo. La disciplina alpinismo si può contrapporre al gioco-alpinismo, ed è lì che nasce la libertà. Anche la fotografia di montagna si sta avviando sulla strada della rinuncia: per poter creare un nuovo gioco dobbiamo scordarci di filtri, elicotteri e ritocchi al computer.
Così come siamo liberi di usare un attrezzo piuttosto che un altro, siamo liberi di non usarli affatto: così il grande alpinismo ha rinunciato alle corde fisse, alla radio di collegamento, ecc. Rinunce che hanno fatto progredire il gioco.
Abbiamo infine la libertà di scegliere non solo i mezzi ma anche le mete e i modi. Non bisogna aver paura che di rinuncia in rinuncia alla fine sia limitata la stessa azione: ciò in cui crediamo è un approccio più francescano all’alpinismo e alla fotografia di montagna, una depurazione dai guasti provocati dalla continua serie di exploit e di trucchi tecnologici, che in conclusione si riducono a modelli senza forza né convinzione alcuna: senza fantasia.
La rinuncia di cui si vuol parlare qui è una libera provocazione per un bene futuro, non l’ostinata volontà di rimaner legati al passato.
Ed è con questa convinzione che abbiamo rinunciato alla Cima d’Ombretta? Non credo. C’era già stata una prima nevicata, ma ormai anche a tremila metri le poche chiazze di neve non sembravano dar fastidio. Marco e Luisa partono dal rifugio Falier alla luce della pila frontale, proprio come se dovessero andare sulla parete sud, su qualche itinerario così lungo da dover essere iniziato all’alba. L’oscurità del cielo non è stellata come la sera prima quando si sono attardati a parlare un po’ con il custode. C’è nell’aria qualcosa di poco promettente. Le prime luci li vedono al Passo Ombretta e fanno fatica a trovare il bivacco Dal Bianco, invisibile dietro i piccoli rilievi della cresta. Anche la parete è nascosta da un sipario di nebbie agitate da un vento forte e freddo. Raggiunto il poco ospitale rifugio di metallo, tra coperte fetide e sporcizia, Marco e Luisa aspettano due ore per puntiglio; ma poi decidono di tornare indietro. Nei giorni seguenti nevica ancora. E poi ancora. Il programma della Cima d’Ombretta diventa sempre più inattuabile. Decidiamo di fare una fotografia da un altro punto di vista, dal cengione settentrionale del Monte Fop, assai più facilmente raggiungibile. È la rinuncia, quella del primo tipo. Eppure, stranamente, la sconfitta non brucia più di tanto. Marco farà la nuova fotografia con il banco ottico, una fotocamera basculante che gli permetterà di non avere praticamente distorsione prospettica anche con una ripresa da bassa quota. Nessuno ha mai fotografato la parete sud della Marmolada così. Questo ci gratifica e ci allontana definitivamente dalla filosofia della rinuncia costruttiva: per quella non è ancora la volta buona. Ed ecco che sogniamo ancora di salire un giorno, con gli sci ai piedi da Malga Ciapela al rifugio Falier e da lì al Passo Ombretta; e da lì ancora su, fino alla vetta della Cima d’Ombretta, in una radiosa giornata di sole tra i sommessi applausi dello stesso cielo.
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Grande Marcello!!! E lasciami dire ( io che sono parecchio più vecchietto di te) che sono queste cose che ti danno l’entusiasmo di fare.
Cominetti sei il mio eroe!!
C’è anche un lato giocoso, fantasioso, infantile, cazzone, inutile, dell’alpinismo che non va mai dimenticato.
Per me c’è sempre stato solo questo lato e sempre ci sarà! Come Dio secondo il catechismo (per chi ci crede).
Caro Fabio, con la primavera si è un po’ esaurita la “forza propulsiva” , (come si diceva della rivoluzione di Ottobre) dei due giochi di società che hanno tenuto vive le serate rosse e arancioni dell’inverno del nostro scontento : “Indietro Savoia” e “Mago Merlino e il mistero del Fasciopiddino”. Speravo che Gogna sostituisse il nero con quei colori pastello che piacciano tanto alla Regina Elisabetta, o con un verdino NSU Prinz, che fa tanto nostalgia, ma niente da fare. Lui è affezionato al nero Armani, che peraltro si adatta benissimo e in modo elegante ai capelli bianchi e snellisce la figura. Devo dire che la doppia intervista sul Corriere di Reinhold e signora innamorati, con il racconto del broccolaggio sul ponte di Bassano mi ha rimotivato. L’alpinismo, come la vita e ognuno di noi e’ davvero sfaccettato, dalla lotta con l’alpe, all’incontro col sublime, alla gioia primitiva e infantile. Fabio, conserviamo il ragazzo che siamo stati. Il Mago Merlino, con le sue capacità alchemiche ha colto nel segno. Io da tempo rileggo ogni sera qualche pagina di Liala per tenera viva la romantica fanciulla che è viva in me.
Mi sa che il nostro Pasini, con queste storie, stia ritrovando un po’ dei bollori dell’antica giovinezza perduta…
Roberto, tieni alta la bandiera!
Sempre interessanti quelli che inventano slogan e li attribuiscono ad altri inclusie le similitudini. Comunque sì, intervento di molta vicinanza… a Liala.
Alberto, non appena la rubrica “Bivacchi e Bollori” inizierà potrai farlo 🙂
grazie Roberto.
E sullo spogliarello potrei raccontare qualcosa, ma… lasciamo perde.
Grandissimo Alberto. Solo il marmo apuano può esprimere tanta umanità. Non a caso gli scultori lo hanno sempre apprezzato per esprimere la bellezza dei corpi e l’intensità dei sentimenti. La tua storia mi ha suggerito la proposta di una nuova rubrica per il blog : Bivacchi e Bollori, dedicata alla dimensione erotico/sentimentale dell’alpinismo, allietata ovviamente da apposite clip musicali eseguite dal maestro Cominetti. Potrebbe alleggerire l’ansia che suscitano le visioni apocalittiche che aleggiano in Totem e Tabu, scandite dal grido ritmato e minaccioso, come ai vecchi tempi, “Fascistapiddino! morirai col tuo vaccino! “ L’Orrore, L’Orrore, come diceva il colonnello Kurz, alla fine del fiume. Che vicinanza.
Vero!
nel 1988 tentammo il Nose. Sorpresi dalla notte con il mio amico Gianluca bivaccamo, attaccati a qualche frends con le gambe nelle staffe, un tiro sotto il comodo terrazzo di El Cap Tower. Fu una notte scomodissima e lunghissima, la mattina dopo eravamo cotti. Scendemmo e non fu semplice. Nonostante avessimmo ancora giorni sufficienti non avemmo la forza di riprovarci.
Così andammo a vedere qualche spogliarello a Las Vegas.
Caro Simone, a volte il parlare di Morte, di Conquista, di Lotta e via con le maiuscole mi diventa un po’ noioso. C’è anche un lato giocoso, fantasioso, infantile, cazzone, inutile, dell’alpinismo che non va mai dimenticato. In fondo è un gioco, pericoloso, ma sempre un gioco. Non c’è ogni volta bisogno di mobilitare i pilastri della saggezza e del sapere. Non è mica il calcio. Attività questa davvero cruciale per l’umanità, per la quale val la pena davvero mettere in gioco la vita. PS. Messner ha confermato con questa mossa di accorta gestione del dilemma rischio/rinuncia il suo potere attrattivo a largo spettro anche al di fuori della comunità alpinistica. Almeno si parla di matrimoni e non di funerali. Sarebbe bello rovesciare il rapporto anche in questo settore
: “Quattro matrimoni e un funerale” e per favore niente “Signore delle Cime”. Dicono porti male.
Che succede Pasini…ti piacerebbe andare a caccia di belle quarantenni? Messner fa sempre il guru ma è da un po’ che pensa al suo portafogli, cementifica montagne e si gode la vita. Poi, come per tutti coloro che nel loro campo si sono distinti…tutto gli viene perdonato. Vedi l’ ammirazione di un fedele sabaudo per il discutibile avvocato!!
Non è sempre questione di morire o rinunciare. È vero che non c’è romanzo/storia di montagna che non parli di Amore e Morte. Da sempre ingredienti di sicuro effetto sulle vendite. Ma ogni tanto un po’ di leggerezza nella cronaca alpinistica riportata dai giornali non guasta. Un po’ di rosa, invece del solito macabro nero che piace al grande pubblico. Perché rinunciare al sogno d’amore con la giovane fanciulla (per lui ovviamente) avrà detto anche il grande Messner all’alba dei 77 anni, ancora e sempre impegnato nella conquista dell’Alpe, memore degli insegnamenti di Sella, spesso criticati ma mai dimenticati. Noi non possiamo che inchinarci di fronte alla grandezza, con revenza e non celata invidia. In alto i cuori. La speranza non muore mai, anche per i poveri dilettanti, tapascioni e merenderos.
Il mio socio giovane Francesco Salvaterra ha condensato in poche parole il senso della rinuncia in un articolo pubblicato per intero anche qui su:
https://www.alessandrogogna.com/la-patagonia-e/
Comunque la frase cui mi riferisco è questa:
La Patagonia è la felicità e soddisfazione di calcare con i piedi il punto più alto di una montagna o la frustrazione mista al senso di sollievo che ti pervade quando invece decidi che è meglio scendere, quando getti la spugna per paura, e quando, il giorno dopo, ti ritrovi al sicuro con i piedi sotto la tavola di un bar e ti domandi se sei sceso perché andava fatto o perché sei un cagasotto, però di fatto, se puoi domandartelo è perché sei ancora vivo.
L’alpinismo che avrei dovuto praticare mi avrebbe disgustato e allora ho rinunciato all’alpinismo, anche se quello, per me, non era alpinismo. Alpinismo come mezzo o come fine?
La rinuncia fa parte del gioco come provarci. Rinunciare costa, ma in ballo c’è qualcosa di ancora più costoso. Se si ha la capacità di rinunciare, si può ritornare, ma poi bisogna avere la capacità di riprovare. Non sempre la si ha. A volte rinunciare nasconde una scusa, si racconta che si è rinunciato perchè non c’erano le condizioni giuste della montagna, quando in realtà, eravamo noi che non avevamo il carattere, la forza giusta e sufficiente per andare avanti. Allora si rinuncia ma si raccontano palle agli altri e sopratutto a noi stessi. In certe situazioni, comunque non credo si possa rinunciare , e l’unica possibilità passa attraverso l’alto.
La rinuncia è una possibilità e in quanto tale è da vedere come opzione altamente positiva.
Se non si è disposti a rinunciare non lo si è neppure a provarci.
Non sarò un grande alpinista e quindi non mi vergogno di aver rinunciato diverse volte. E per banale fifa.
Non mi prendo in giro lassù e mi mi riconosco per quel che sono, in onestà.
Succubi del dominio dell’ego la rinnuncia costa. In gloria, fittizia o concreta, in tacche sulla piccozza, in dignità perduta, in vegogna, in menzogna rimediativa.
Ma il costo maggiore è energetico. La rinuncia diviene forza che distrae dal necessario per creare la miglior sicurezza, per mantenere la creatività per le migliori scelte ancora da compiere.
Emancipati dal quel dominio la rinuncia è una specie di bellezza. Una bellezza che sta nell’essersi riconsociuti, nell’essere giunti al punto di non prendersi più in giro, di mostrarsi per quello che si é, non più che si vorrebbe.
Scritto nel 1995 è il valore aggiunto.
Nei ricordi la rinuncia, in qualsiasi “campo”, brucia piu’ di una impresa filata via liscia…e dimenticata. Forse non ci si dibatte troppo sopra perche’ c’e’ ancora una sorta di tabu’ o di pudore.
Anche a me interessa questo tema. Peccato che gli altri non siano intervenuti. Poteva essere un bel dibattito.
Il tema della rinuncia è molto interessante, e si potrebbe applicare ad ogni aspetto della vita, e qui è descritto molto bene
Anche percorrendo una “banale” ferrata che non passerà alla storia, a volte occorre rinunciare per cause “banali”.Un cavo tranciato da caduta sassi o sepolto da strato di neve ghiacciata..o maltempo improvviso ..o constatazione di inadeguatezze di attrezzatura o condizioni fisiche..e neppure occasione o possibilita’ di fotografare, piu’che altro occupati a non farsi del male.