La Torre del Settimo Grado
(scritto tra il 1978 e il 1983)
Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)
Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini costruivano e disse: «Ecco, essi sono un popolo solo e hanno tutti un medesimo linguaggio: questo è il principio dell’opera loro. Niente gli impedirà ormai di condurre a termine tutto quello che hanno in mente di fare. Orsù dunque, scendiamo e confondiamo quindi il loro linguaggio, in modo che uno non comprenda il linguaggio del suo vicino (Genesi 11,5.7)».
1972. Per la prima volta viene discussa seriamente la possibilità di un’introduzione del «VII grado». L’analisi di Reinhold Messner nel suo libro omonimo è lucida nelle motivazioni tanto quanto necessariamente ancora confusa nelle prove. Finché è un uomo solo ad affermare qualunque cosa, noi non accettiamo volentieri di acconsentire, prima di tutto perché le sue «verità» ci possono dare fastidio e poi perché in fondo potrebbe avere torto. In sostanza Messner diceva che se fossero stati introdotti nelle valutazioni, accanto alla difficoltà tecnica, i moduli di “eleganza” e di “mezzi usati” e se presso le nuove generazioni di alpinisti fosse continuata la volontaria rinuncia alla superiorità tecnica dell’uomo sulla montagna, anche nelle Alpi sarebbe arrivato il settimo grado. Entrambe le condizioni a distanza di sei anni si sono verificate. Già prima di allora le informazioni avevano cominciato a piovere anche sull’Italia. Può essere utile dare un’occhiata retrospettiva alle vecchie riviste, specialmente quelle anglofone.
La mitica copertina di Mountain n. 56
Mountain, il bel bimestrale inglese, ha spesso pubblicato delle copertine «audaci» e di rottura. Nel novembre 1969, in bianco e nero, ecco Pat Fearnehoug sullo Slot on the Roches. È un primo piano di un arrampicatore sotto a un tetto; egli, con l’assicurazione di un chiodo, pantaloni lunghi, maniche rimboccate, è appeso alla mano destra e sembra voglia abbracciare quello strapiombo così avaro di appigli. Il volto è contratto in una smorfia tale che sembra che Pat voglia attaccarsi anche con i denti. Nel maggio 1970 Pete Minks, che più tardi doveva compiere prodigiose scalate solitarie sulle Alpi, arrampica su The Skull a Cyrnlas, una delle più difficili vie del Galles. Pedule lisce ai piedi, la mano sinistra «pinzata», è in una posizione incredibile. Si vedono già i primi «nuts», quei blocchetti da incastrare nelle fessure che oggi sono in netta preminenza sui chiodi. Maggio 1972: vediamo la bella fessura (da salire con tecnica d’incastro) Crack of Despair, nello Yosemite. Il grado è 5.10. Già allora gli americani ci dicevano che il nostro VI+ era paragonabile al loro 5.9. E passiamo al luglio 1973: la copertina ci porta su un tetto XS (estremamente severo nella scala scozzese). Si vede che l’arrampicatore, John Syrett, ha il piede sinistro, appoggiato con il tallone, all’altezza della mano sinistra. Nel gennaio 1974 la copertina ci riporta nello Yosemite, mentre Chris Vandiver sale la fessura Outer Limits, grado 5.10, la stessa sulla quale recentemente il cineasta Ruedi Homberger ha ripreso Henry Barber con una decina di minuti di filmato che secondo me dovrebbe essere proiettato più spesso in Italia. Barber sale con una compostezza, con un’eleganza tale che si comprende facilmente come per lui (e per altri) il 5.10 sia praticamente un gioco. Nell’agosto 1976 Nick Taylor ci fa impressione mentre «fuoriesce» in libera da un tetto mostruoso, sulla via Country Road (grado 24, in Australia) e nell’agosto 1977 ecco il «massimo»: Ray Jardine supera il tetto della via Separate Reality, nello Yosemite. Questo tetto è perfettamente orizzontale, lungo 6 metri e solcato interamente da una fessura. Incastrando le mani e torcendole, le scarpette appena appoggiate sulle labbra della fessura, presumibilmente a circa 200 metri da terra, l’uomo-ragno si allontana dal fotografo, intercalando nella sua progressione delle «protezioni» nella fessura, per sistemare le quali occorre un notevole dispendio di energia. Sei metri dopo, il punto più difficile: afferrato un appiglio di là dall’orlo (qui è la foto) occorre «volteggiare» in verticale e raddrizzarsi sullo stesso appiglio. Il grado è 5.12, pari a quello che da noi sarebbe il IX!
La copertina di Yosemite Climber, 1979
Questa lunga panoramica ho ritenuto necessaria per dimostrare quanto ciechi si possa essere stati noi «continentali». E non basta. Nel 1975 esce uno splendido libro documentativo: Hard Rock di Ken Wilson, splendide fotografie sulle arrampicate nelle palestre inglesi. Nel 1977 appare Climb! di Bob Godfrey e Dubley Chelton, ambientato sulle montagne del Colorado. Ormai con questo strumento visivo possiamo osservare quasi tutti i movimenti di quegli arrampicatori, la tecnica ci viene a poco a poco svelata, l’obiettivo è sempre puntato sul capo cordata ripreso dall’alto da posizione generalmente un po’ obliqua. L’effetto scenico è prodigioso, ma anche ogni dettaglio (dita, mani, opposizioni, incastri) si evidenzia.
A questo punto si potrebbe obiettare che gli anglosassoni non abbiano ben chiara la distinzione tra montagna, palestra e sassi. Ecco allora che rimbalza in Europa il nuovo termine «bouldering», cioè arrampicare sui massi, slegati, al vero limite atletico dell’uomo. Il libro Master of Rock, di Pat Ament, ci fa vedere John Gill in tutte le maniere, ma una delle foto più «mostruose» lo rappresenta mentre compie la flessione su un dito solo. Recentemente Silvia Metzeltin ci ha riportato su Lo Scarpone che questo esercizio è la condizione base per poter affrontare passaggi di B1, B2 e B3, cioè bouldering 1, 2, 3. Infatti negli USA ormai le graduazioni bouldering e mountain sono separate. B1, B2 e B3 equivarrebbero ai nostri IX, X e XI. Dopo tante immagini e tante parole quindi anche in Italia qualcosa si muove. Eppure la strada è stata lunga. Nel 1974 il CAI Belledo indiceva una tavola rotonda sul VII grado; nel 1976 il Convegno di Alpinismo Moderno di Torino non osava parlarne; solamente nel 1978 la rivista francese La Montagne et Alpinisme (forse tra le estere la più letta in Italia) si è decisa a mettere in copertina un passaggio con i connotati superiori al VI grado.
In Italia la graduazione di VII grado non è ancora accettata ufficialmente da nessuno; ad esempio, le placche in aderenza (VII e VII-) superate in Val di Mello da Antonio Boscacci, di Sondrio. Anche Ivan Guerini e Mario Villa trovarono «freddino» l’ambiente quando proposero un bel VII per il loro Precipizio degli Asteroidi. Lo stesso Guerini corre il rischio di essere inviso a molti quando dichiara (e non v’è nessun motivo per dubitarne) di aver salito la via Cassin alla Torre Costanza senza utilizzare alcun chiodo per la progressione: e questo su un itinerario dove le staffe o almeno l’attaccarsi ai chiodi non erano mai stati messi in discussione.
In Germania, il 3 giugno 1977, Reinhard Karl ed Helmut Kiene superano in sette ore il Fleischbankpfeiler per la Pumprisse, una fessura che quoteranno VII- e VII. In valle dell’Orco, provincia di Torino, i migliori scalatori piemontesi (e non soltanto loro) si erano sempre sbucciate le mani per tentare di ripetere ciò che Mike Kosterlitz (scozzese) aveva fatto nel 1970: salire una fessura di 7 metri su un blocco, chiamato masso Kosterlitz. Solo nel giugno 1978 la prodezza veniva ripetuta da Roberto Bonelli (sotto i miei occhi increduli), dopo che anche questi aveva diluito negli anni i tentativi.
La copertina di Hard Rock, 1974
Ma non voglio proseguire oltre sul sentiero delle citazioni, anche se occorrerebbe spendere una parola sui progressi di Fointainebleau, delle Gole del Verdon, ecc. Ciò che più importava era riconoscere, soprattutto a livello burocratico, non solo il VII grado, ma anche la possibilità di ulteriori sviluppi, già registrati peraltro in America, Gran Bretagna e Australia. Ormai non era più necessario che ci documentassimo, che le difficoltà fossero provate e riprovate. Ormai rimaneva solo da ammettere la prolungata cecità nostra e soprattutto rimaneva da riconoscere che Willo Welzenbach aveva compiuto un errore di principio nel limitare in alto la sua scala.
Finalmente nel novembre 1978 il massimo organismo internazionale, l’UIAA, nell’assemblea generale di Lagonissi (Grecia), ha votato la definitiva ammissione del VII grado. Ma questa lotta non avrebbe alcun senso se la nostra preoccupazione fosse solo quella di classificare, ridurre, schedare. Sarebbe di relativa utilità se tutto questo movimento si congelasse in un nuovo, ben composto e ordinato, ma squallido e poco vivificante criterio per redigere le nuove guide alpinistiche o per brillare meglio in relazioni che tanto più fanno mostra di essere freddamente oggettive quanto più sono esibizionisticamente motivate. Occorre prevedere che questo sia inevitabile, come inevitabile fu l’uso personale, a volte nazionale, che si fece della scala Welzenbach e delle contraddizioni cui essa dava adito. Ma l’ammissione del VII equivale soprattutto al disconoscimento di un limite fisso e questo non può che essere salutare a una società e a degli individui che di limiti di ogni specie ne hanno «piene le tasche». Se Mummery aveva sognato di poter scalare il Nanga Parbat ai suoi tempi, se Winkler salì sulla sua torre, se Bonatti si portò in cima al suo pilastro sul Dru, non è certo perché essi pensassero a un limite fisso. Un limite forse ci sarà, ma forse non sta a noi determinarlo in anticipo. Così come si dice che la Creazione non è ancora finita, allo stesso modo cadono regole e limiti, e senza mai parlare di libertà. Il fascino delle montagne durerà per lo meno finché anche noi esisteremo e, come tutti i simboli che hanno un grosso potere sull’uomo, si manifesta con una serie di trasformazioni: dapprima vi fu la paura, poi l’interesse scientifico, poi un amore con accenti di conquista e di seduzione (cime «conquistate», pareti «attaccate e vinte», montagne «violate»). In seguito l’amore si trasformò lasciando intravvedere un maggiore rispetto per l’amata. Oggi siamo in una delicatissima fase di questo processo che ci porterà a essere una sola cosa con la montagna. Purtroppo il cammino è arduo, lungo e disseminato di piccoli e grandi tabù… e il VII grado è uno di essi.
Evidentemente, per procedere con tranquillità sul VII e arrivare quindi all’VIII e oltre, non occorre solo un intensivo allenamento fisico e specifico. La ginnastica è solo uno dei mezzi. In modo del tutto progressivo, ma non senza dolore, dovrà svanire la paura, con una cosciente rinuncia sempre più ferma all’aggressione alla roccia e al ghiaccio; si farà luce una sempre più imperturbabile fede in una situazione per la quale gli elementi naturali staranno al nostro gioco. Ma là non occorreranno più né gradi né linguaggi: saranno morti e sepolti assieme alla nostra paura di «cadere» dal cielo e in questa amplificazione ci apparirà sempre più possibile il terminare la costruzione della Torre.
Così appariva il mio articolo sulla Rivista della Montagna nel 1978. Voglio osservare che anni fa ero tra quelli che non credevano al settimo grado, infatti al congresso del CAI Belledo del 1974 io per primo avevo parlato di «compressione» della scala Welzenbach. Con ciò non facevo che teorizzare ciò che in pratica succedeva già. Alcune guide alpinistiche (senza voler citare il solito Ettore Castiglioni che per primo ricorse a questo sistema), ad esempio le 69 Vie in Dolomiti della Sezione di Milano del CAI, avrebbero drasticamente declassato alcuni itinerari.
In Alpinismo di ricerca, prima edizione, scrivevo:
“ … Occorre riconoscere che l’introduzione di un settimo grado è una tentazione assai forte, ma erronea. Perché:
1) I progressi tecnici sono minimi e possono essere assorbiti dagli altri gradi intermedi. Anche Domenico Rudatis afferma che «il limite del possibile non è dato dalla cessazione del progresso ma dall’impossibilità di poterlo riconoscere»;
2) Si cadrebbe nell’errore di concedere alla sportività, cioè al gusto del record, il potere di spostare la difficoltà oggettiva dal puro insieme di appigli e appoggi al piano umano.
Ero riluttante ad aprire la scala soprattutto perché ciò non si sarebbe accordato con le mie teorie sul «valore matematico». Poi quando il valore matematico nella mia mente si fu trasformato definitivamente in valore ideale, allora trovai ancora più difficile accettare il settimo, perché avrei dovuto sostituire un’idea con un’altra. Infine, quando i sostegni dell’idea stavano scricchiolando, la sostituzione sempre meno mi appariva un rimedio.
La Grande Torre di Babele, Pieter Bruegel il Vecchio, 1563
Perché accettare il settimo quando potremmo eliminare tutti i gradi? Ma fotografie, relazioni e risultati finirono per convincermi. Oggi la situazione si evolve a velocità incredibile. In America, Inghilterra, Francia, Svizzera, Germania e Australia si sta correndo. Si è al 5.13, si parla di 5.14. Siamo cioè quasi arrivati all’undicesimo in scala UIAA!
Nel numero di aprile 1980 della rivista tedesca Alpinismus, Ron Kauk, John Bachar, Toni Yaniro, Jim Collins, Ray Jardine e Bill Price sono definiti gli unici sei uomini al mondo capaci di andare oltre al 5.12. In Germania emerge Wolfgang Güllich, in Francia Patrick Berhault ed altri, sempre più le riviste di tutto il mondo si occupano di arrampicata pura dando spazio a dettagliate notizie sul chiodo più o sul chiodo meno, cosa due anni fa impensabile.
Dapprima con esitazione, poi con discrezione, anch’io ho voluto provare, mi sono calato in un mondo così diverso da quello dell’alpinismo classico credendo che per me fosse ormai troppo tardi. È stato utile, perché ora non mi sento più impaziente di costruire la Torre, perché non c’è alcuna torre da costruire, anzi, ciò che è stato costruito occorre distruggere. La Torre è una costruzione della nostra mente, non l’ho mai veramente creduta e non mi vergogno di aver spinto altri a crederci. Non apporrò più alcun mattone affinché l’Idea si consolidi.
Nell’estate 1979 Toni Yaniro superò un tetto orizzontale di 12 metri in arrampicata libera, sull’assolato granito dello Sugar Loaf, in California. Attualmente è il massimo, nessuno è finora riuscito a ripetere l’impresa e si parla di 5.14. Il nome che Yaniro diede a quella via è Grand Illusion. Quale nome potrebbe rappresentare meglio ciò che anch’io sento? Domani ci sarà un tetto di 24 metri e l’illusione sarà ancora più grande, la soddisfazione per ciò che si ritiene «progresso misurabile» sfuggirà sempre più. Perché altrimenti Toni Yaniro avrebbe deciso quel nome?
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Copertine Storiche..! e Lettura..molto interessante….! C.Saluti..!
Secondo me, per sapere dove andrà l’alpinismo basta vedere cosa e come viene fatto alpinismo oggi, tenendo conto che ogni nazionalità dice la sua.
Da noi direi che lo si sta pensando da almeno venti anni, salvo quei pochi che lo fanno. 🙂
L'”oggi” e la “delicatissima fase” sono a mio parere riferite all’evoluzione dell’alpinismo.
All’epoca la riduzione sportiva oggi pervadente non era sospettata. Concatenazioni e velocità incluse.
Temeva, sperava, auspicava, vedeva, sentiva che la tenacia e la tecnica lasciate sole, senza simbiosi con la montagna, senza liberazione da sé stessi, l’alpinismo non avrebbe tenuti alti i suoi valori esplorativi.
Trovo affascinante come sia necessario essere pronti a cambiare e ricambiare idea… E come prima di accettare la nuova realtà del VII grado si sia fatto di tutto per spiegare ciò che sembrava inspiegabile, anche cercando di comprimere le scale! Invece di lasciarle libere di evolversi.
Credo poi che le nuove generazioni di arrampicatori/alpinisti facciano fatica a capire questa dinamica (possiamo chiamarla dinamica storico-culturale?)… Tanto siamo abituati oggi a vedere progressi velocissimi! Sentir parlare di compressione di scala ora sembra assurdo.
Infine mi chiedo a proposito di
ma oggi la tendenza è voler diventare una cosa sola con l’arrampicata o col grado, cioè con un numero punto?
Prima la relazione era passionale.
Alessandro penserei si riferisse ad un passo evolutivo nel quale soggetto e oggetto si ricompongono come avviene nella vera conoscenza.
“Oggi siamo in una delicatissima fase di questo processo che ci porterà a essere una sola cosa con la montagna.”
Si, magari!
…certo che come profeta non hai mai brillato, neh Capo?
certo che è storica, è Ray Jardine.
Lustratevi gli occhi: la fotografia all’inizio è storica!