La traversata delle Dolomiti – 01
(1865: la primavera dell’alpinismo dolomitico)
di William Douglas Freshfield
(pubblicato su itineraalpina.it il 16 novembre 2016 e su Le Alpi Venete 2015-2016)
a cura di Angelo e Maddalena Recalcati
Quella che presentiamo è la prima inedita pubblicazione, in traduzione, di una parte del diario autografo di William Douglas Freshfield tenuto durante la campagna alpina del 1865, compiuta con Francis Fox Tuckett, John Henry Backhouse, George Fox e con le guide François Dévouassoud di Chamonix e Peter Michel di Grindelwald. La parte iniziale della campagna, intitolata da Freshfield “Ten days in the Mountains of Venetia”, costituisce la prima grande traversata alpinistica delle Dolomiti, dal 30 maggio al 6 giugno 1865, da Agordo a San Candido .
Freshfield e Tuckett si erano conosciuti in modo sorprendentemente casuale l’anno prima, il 10 agosto all’imbocco della Val di Mello. Così Freshfield ci descrive il loro incontro: “… proprio mentre l’alba si profilava dietro il Disgrazia, udimmo gente muoversi all’interno delle baite, fatto insolito a quell’ora, e mentre vi passavamo accanto vedemmo uscire dalla porta un paio di pantaloni di flanella che nessuno del posto avrebbe mai potuto indossare. La conferma di una voce inglese non fu certo necessaria per darci la certezza che, in modo tanto inaspettato, stavamo per imbatterci in alcuni nostri compatrioti. Il gruppo risultò composto da F. F. Tuckett e Mr. Brown “di Genova” con le guide Christian Michel di Grindelwald e J. B. Walther di Pontresina, che stavano giusto partendo per attaccare il Disgrazia (1)”. Fu sintonia d’intenti a prima vista e fu naturale che Tuckett vedesse in quel diciannovenne entusiasta e intraprendente un ideale compagno d’avventure esplorative, e lo scelse per la campagna dell’anno successivo, “ la più ricca di successi dell’attività alpinistica di Tuckett” (2).
Nella primavera del 1864 era stato pubblicato il libro di Josias Gilbert e George Cheetham Churchill The Dolomite Mountains. il primo importante libro che descrive l’intera regione dolomitica.Tra i primi lettori vi furono Freshfield e Tuckett e molto probabilmente fu proprio questa lettura a suggerire ad entrambi per il 1865 una “expedition” alpina che iniziasse proprio con una traversata delle Dolomiti. Inoltre lo stesso Tuckett ci dice: “Proprio prima di partire ebbi uno scambio epistolare con Mr. Gilbert (uno degli autori di quel bel libro sulle Dolomiti) che gentilmente mi inviò a Venezia una lunga lettera piena di utili notizie e suggerimenti da molti dei quali traemmo un gran beneficio” (3).
Le Dolomiti erano poco conosciute da entrambi, come allora dalla gran parte degli alpinisti britannici e non. Tuckett dal 3 al 6 agosto 1863 le aveva sì traversate da San Candido a Bolzano passando da Cortina, ma con spirito esclusivamente escursionistico, giusto una presa di contatto con il nuovo ambiente alpestre. Freshfield, nel tratto finale della sua traversata da Thonon a Trento del 1864, era entrato nel cuore delle Dolomiti di Brenta, ma quelle orientali le aveva intraviste solo da lontano. Le Dolomiti erano quindi un terreno ideale per questi due alpinisti nei quali era preminente lo spirito esplorativo che non quello della conquista sportiva, in un anno come il 1865 che, in una certa visione storiografica un po’ schematica, segna la conclusione della “golden age” dell’Alpinismo, ovvero il decennio che ha visto la salita delle più importanti cime delle Alpi. Quelle cime tuttavia erano soprattutto quelle occidentali, poiché in una buona metà dell’arco alpino, quella centrale e orientale, la stagione delle conquiste era solo all’inizio.
Fu una straordinaria galoppata dalle Dolomiti alle montagne della Svizzera centrale, compiuta tra fine maggio e metà luglio, sulla quale Freshfield, durante l’agosto successivo, scrisse un completo resoconto trasportando con la massima cura su tre quaderni le note di taccuino, sicuramente in vista di una successiva pubblicazione, come era avvenuto l’anno precedente dopo la traversata da Thonon a Trento. Il testo fu steso sul foglio di sinistra, lasciando bianco quello di destra per le eventuali correzioni o integrazioni; fu anche rivisto da Tuckett, del quale si notano varie correzioni e aggiunte a matita, siglate F.F.T.
Tuttavia il progetto di una completa edizione di quel manoscritto non fu poi preso in considerazione ad eccezione dell’utilizzo di alcune sue brevi parti. I tre quaderni furono in seguito donati da Freshfield a Henry Fairbanks Montagnier, alpinista americano suo intimo amico e collaboratore, anzi quasi coautore per la biografia di H. B. De Saussure, che valse a Freshfield la laurea honoris causa all’Università di Ginevra, e nella sua ricchissima biblioteca alpina rimase a lungo. Infine, conformemente al motto latino habent sua fata libelli (la libreria parigina dove l’acquistai si intitolava appunto Fata Libelli), il manoscritto nella primavera del 1998 entrò nella mia collezione. Subito ne compresi l’interesse storico e nacque il desiderio di una sua pubblicazione, ma le difficoltà di decifrazione della calligrafia e l’impegno redazionale che si presentava erano scoraggianti. Solo dopo la bella e positiva esperienza della traduzione del primo libro di Freshfield, Across Country. From Thonon to Trent, condotta con mia sorella Maddalena, ritornò il desiderio di affrontare anche il manoscritto, del quale presentiamo la parte relativa alle Dolomiti.
Nel classico volume di Freshfield Italian Alps, edito dieci anni dopo nel 1875, troviamo solo brevi parti riconducibili al manoscritto: la descrizione della prima tappa da Agordo a Primiero e parte della seconda da San Martino di Castrozza a Caprile. Ma qui il testo è in gran parte solo un riassunto di quello del diario che, in corrispondenza di queste tappe, risulta molto “lavorato”. Cancellature, integrazioni, riscrittura di lunghi tratti, e una calligrafia che con gli anni era diventata ancor meno facilmente decifrabile, hanno reso assai laborioso individuare il testo originario. Fortunatamente dalla metà della seconda tappa il manoscritto non era stato rivisto, perché poi Freshfield non ne pubblicò resoconti. Fu immediato rendersi conto che rispetto al testo pubblicato su Italian Alps il manoscritto aveva una maggiore ampiezza e uno stile assai più vivo e interessante, ci siamo perciò proposti di ricostruire la redazione originale, pubblicando anche le note brevi e sintetiche ma assai curiose dell’ “Introductory“, ossia del viaggio da Londra a Venezia.
Oltre all’importanza del documento, vorremmo far notare la freschezza e vivacità delle descrizioni e dei giudizi del diario, che mancano nella revisione fatta per la parte pubblicata dieci anni dopo. Quasi seguendoli passo passo possiamo entrare in modo particolarmente diretto e vivo in quel lontano mondo dei primi pionieri dell’alpinismo, ne possiamo rivivere le aspettative, le emozioni, le abitudini, i comportamenti, lo stupore per le reazioni degli abitanti delle località attraversate, o il clima socio-politico in un anno che è vigilia per la regione veneta di decisivi cambiamenti storici. Grande è la loro meraviglia di fronte a paesaggi e grandiose strutture rocciose, così nuovi per loro che spesso cercano confronti che a noi sembrano bizzarri (con montagne della Norvegia, i passi dell’Oberland Bernese o la spiaggia di Brighton…). Questa traversata per loro è la prima conoscenza di un ambiente che visiteranno di nuovo con importanti successi (Civetta, Vezzana). Ci possiamo anche rendere conto delle difficoltà organizzative e del notevole impegno finanziario che queste “expeditions” comportavano, che quindi erano possibili solo ad appartenenti ad elevate classi sociali, ma a loro agio sia negli hotel di lusso che nei rudi bivacchi. Una preoccupazione che li assillava era quella del cibo.
Certo, gli enormi dislivelli quotidiani superati comportavano un dispendio di calorie da integrare quotidianamente, ma non sempre era possibile sia riguardo alla quantità che alla qualità dei cibi in una rete di locande ancora impreparate a rispondere alle esigenze del nuovo turismo alpino, e in un mondo alpino dove le abitudini alimentari contrastavano visibilmente con quelle della upper class britannica! Con i conseguenti commenti e critiche che ci appaiono sicuramente supponenti e ingenerosi, che molto probabilmente non avrebbero trovato posto in una edizione a stampa, ma che comunque ci rivelano anche qualche aspetto meno simpatico della personalità di questi “Gentlemen”. Una testimonianza che ci può colpire è quella relativa alla constatazione di un non indifferente inquinamento nelle Alpi un secolo e mezzo fa. Le considerazioni fatte sui fumi e la colorazione delle acque fluviali prima di giungere ad Agordo non ci danno un quadro proprio “bucolico”, come invece siamo portati a pensare fosse a quel tempo. Causa principale era la maggiore diffusione nell’arco alpino delle industrie minerarie che oltre all’inquinamento di acque e aria e ai gravi danni da piogge acide, determinavano diffusi disboscamenti.
Il risultato alpinistico più importante da loro conseguito, oltre alla prima doppia traversata del gruppo delle Pale di San Martino, è la seconda ascensione della Marmolada, e grazie a questo diario ne è emerso qualche non secondario problema storiografico. Tutti, guide, manuali e monografie riportano l’ascensione di Lord Francis Douglas con Pellegrino Pellegrini alla Marmolada di Rocca come avvenuta nel giugno 1865, poche settimane prima delle sua conquista del Cervino e della sua tragica fine il 14 luglio. Fonte di questa notizia è il volume di Pietro Mugna Impressioni e desideri dall’Agordino. Padova 1874, in cui racconta l’incontro ad Agordo con Lord Douglas ed un suo amico “ nel giugno del 1865” e che lo raccomandò a Pellegrini, la guida di Rocca scelta per l’ascensione alla Marmolada. L’archivio della Sezione del CAI di Agordo conserva (4) su un foglio staccato l’attestato di Lord Douglas rilasciato a Pellegrini dopo l’ascensione, purtroppo non datato.
Come potrete qui leggere, questo attestato si trovava nel libro dei viaggiatori alla locanda della Signora Pezzé a Caprile il 2 giugno 1865 e fu da Freshfield letto e citato nel diario. Quindi sicuramente quella data indicata da Mugna non è possibile. Molto probabilmente non lo sarebbe nemmeno quella del maggio 1865: troppo presto per effettuare l’ascensione, poi troppo vicino (pochi giorni) all’arrivo della comitiva Freshfield, e sicuramente Pellegrini e la Pezzé ne avrebbero più esplicitamente parlato. Che senso poi poteva avere per Lord Douglas una spedizione mordi e fuggi nelle lontane Dolomiti solo sulla Marmolada di Rocca, cima da altri già salita varie volte, per poi essere subito dopo, come documentato da Mumm, nell’Oberland Bernese dove valicò il Mönchjoch il 24 giugno e probabilmente prima fu al Wetterhorn (5). E’ molto probabile che l’ascensione di Douglas della Marmolada di Rocca si sia svolta nella stagione estiva del 1864, quando era già in Dolomiti con l’amico Francis Law Latham, con cui effettuò l’ascensione dell’Antelao l’8 settembre. In tal caso questo dotatissimo e sfortunato diciassettenne avrebbe potuto essere il primo salitore della vetta massima, se solo la sua guida avesse avuto più coraggio. Infatti è “Pellegrini eccellente alpinista, e uno che non è conscio del proprio valore, perché avrebbe potuto facilmente salire la più alta punta della Marmolada”, così ha attestato Lord Douglas. Un’altra minore precisazione, riscontrabile ancora dal diario, è che Pellegrini non raggiunse la vetta con la comitiva Freshfield, fermandosi ai piedi del ghiacciaio, contrariamente a quanto scritto da L. Darmstädter (6) e in seguito da altri autori.
La pubblicazione della traduzione di questo diario ci permette di ribadire l’importanza storica di questa prima traversata alpinistica delle Dolomiti spesso nemmeno ricordata, come ad esempio in testi pur recenti che riguardano le Dolomiti di Auronzo, o datata in modo errato, anche in importanti pubblicazioni. In questo caso però il primo responsabile è stato proprio Freshfield e l’errore nasce nella sua primissima redazione del testo di Italian Alps. Infatti nella riduzione del testo del diario, effettuata sul corrispondente foglio a destra, vi scrive 1864 invece di 1865, errore che si propagherà dalla prima edizione di Italian Alps, alle successive, alle traduzioni e a molta saggistica.
Naturalmente la traversata delle Dolomiti è stata solo l’inizio di quella intensa estate; seguì una visita disturbata dal maltempo nei gruppi del Gross Glockner e del GrossVenediger. Favoriti in seguito dal beltempo, colsero invece importanti prime nello Zillerthal (Mösele), Stubai e Oetzthal (Pfaffenschneide, Wildspitze, Weisskugel). Quindi nel Gruppo Ortles Cevedale si assicurarono la prima traversata dell’Ortler Pass, e le prime ascensioni della Punta San Matteo e del Tresero (29 giugno). Due giorni dopo da Molveno effettuarono la traversata della Bocca di Brenta, clamorosamente mancata l’anno prima, messi fuori strada da una sedicente guida! Il 3 luglio fu la volta della seconda ascensione dell’Adamello con la prima traversata in Valcamonica. A questa fa seguito il 6 la prima salita del Piz Varuna, nel gruppo del Bernina, il 7 la traversata del Passo di Mello fino ai Bagni di Masino e il giorno dopo la prima traversata del Passo di Bondo.
Gli ultimi giorni furono ostacolati dal maltempo e la loro ultima vetta fu il Piz Urlaun, il giorno11, quasi un omaggio al pioniere Padre Placidus à Spescha che l’aveva salita nel 1793 e da allora non più visitata. Il 13 luglio la comitiva si sciolse. C’è quasi un significato simbolico in questo particolare giorno: è la vigilia della conquista del Cervino che viene generalmente considerata come l’impresa che chiude una fase storica dell’alpinismo, la cosiddetta età d’oro, quella della conquista delle vette per la via più facile. Il giorno ancora dopo l’impresa della via al Monte Bianco per lo Sperone della Brenva apriva un’altra fase: quella di scegliere un itinerario di salita consapevoli che non è il più facile, ma più bello e nuovo! Ma per le Dolomiti e gran parte delle Alpi Centrali si era ancora al tempo dei pionieri esploratori come Tuckett e Freshfield.
Prologo
Giovedì, 18 maggio 1865
Da Londra a Parigi in treno, una traversata a Boulogne tranquilla e veloce di h 1.40 col traghetto in coincidenza con la marea. A Parigi alle 8.15 di sera. Preso alloggio all’Hotel du Louvre e in serata passeggiata lungo i Champs Élysées, con sosta nei café chantants all’aperto. Notte serena e molto affollata. Passa un pastore inglese in compagnia di due parenti molto anziane con eccentrici cappellini di stoppa di lino. La compagnia suscita commenti “Quelles sont drôles ces Anglaises” (7).
Venerdì, 19 maggio
Arriva Tuckett con Fox e Backhouse con il primo treno. Visita al Louvre, nel pomeriggio giro in carrozza al Bois de Boulogne e incrociato l’imperatrice. Salita all’Arc de l’Etoile dominante una magnifica veduta di Parigi. Bella giornata. La sera partenza con l’espresso per Vienna.
Sabato, 20 maggio
In treno. Alba sui Vosgi. Aggirata Strasburgo con la sua cattedrale e varcato il Reno a Kehl. Nidi di cicogne e dei loro piccoli sui comignoli. Ai piedi delle colline della Foresta Nera e giù verso Stoccarda, piccola e allegra capitale dagli ippocastani rossi. Attraverso la verdeggiante valle del Neckar e su per una stretta gola a un altipiano; discesa a Ulm e al Danubio. Poi attraverso la strana pianura Bavarese con i suoi limitati orizzonti di boschi, intervallati e intaccati da verdi stagni torbosi, fino a che gli alberi lasciano il posto ad Augsburg e alla lontana veduta delle Alpi del Vorarlberg. Arrivo a Monaco alle 7.30 della sera. Pessimo ristorante salvo la birra. A mezzanotte a Salisburgo. Un gentile doganiere non ispeziona i bagagli. Forse ai suoi occhi gli alpenstock servivano come testimoni per scopi del tutto innocui. Molto bene!
Domenica, 21 maggio
Di primo mattino sulle montagne del Salzkammergut ancora striate di neve. Nostri compagni di viaggio un ufficiale austriaco e una ragazza svizzera che non avevano altri occhi se non per il bosco viennese; belle colline verdeggianti. Raggiunta Vienna al mattino alle 9.30 (37 ore da Parigi). Città molto affollata per le corse. Difficoltà a trovare una sistemazione, rimaneva il “Kaiserin Elizabet”. Uscita in serata a passeggiare al Prater, per tre miglia attraverso lo scenario naturale del parco fino all’ippodromo. Grande corsa a ostacoli. Piccolo galoppo preliminare in cui i cavalli rifiutano l’ostacolo e si preparano alla gara. L’imperatore e l’imperatrice ci passano vicini e si torna in albergo. Vetture eleganti, diligenze ben equipaggiate. Passanti dall’aspetto ordinato, le loro mogli come una brigata di governanti tedesche in libertà per il giorno festivo.
Lunedì, 22 maggio
Visita alla galleria Liechtenstein: alcuni bei quadri ma in generale secondari. Biblioteca Imperiale, Galleria del Belvedere. In serata a Schönbrunn. Dalla Gloriette bel panorama della città, ecc. Pasticcerie lussuose e affollate da ufficiali e da alcuni viennesi eleganti. Molto bello.
Martedì, 23 maggio
Visita all’Ambras armour (8), una bizzarra visiera a forma di becco d’aquila, enorme armatura e trofei turchi. Belvedere. Tiziano, Rubens, molto belli. Al piano superiore magnifici Durer. Nel pomeriggio compere. Ai giardini pubblici concerto all’aperto di Strauss. Opera oltre le 22, canta la Signora Artot (9). Molto bello.
Mercoledì, 24 maggio
Da Vienna a Graz. Si fiancheggiano le colline fino a Mödling, poi cominciano le montagne. Il treno inizia ad arrampicarsi con curve sui pendii, si infila tra rocce e aggira burroni finché raggiunge la stazione più elevata. Ragazze e fiori. Discesa dolce verso la Stiria tra valli boscose. Case con tetti enormi e giganteschi fienili.
Un parco simile a una scenografia a grande scala, colline boscose alte più di 4000 piedi. Arrivo a Graz, città ordinata con una pittoresca piazza del mercato. Salita sulla collina rivestita di viti e di acacie. Alla sua sommità il Castello-rivale di Salisburgo, che culmina con alcune torri pittoresche. Attraverso un sentiero a tornanti, che offre magnifiche vedute, si giunge in luoghi solitari, adatti ad una giovane coppia in luna di miele. Dalla terrazza più alta si osserva un panorama superbo della città sottostante, che giace su una piccola pianura circondata su ogni lato dalle colline e attraversata dalle lucenti acque del fiume Mur. In distanza si distendono le ultime catene alpine dalle forme ardite e di una bellezza ancora varia. Le località venivano indicate da una sentinella veterana che puntava la sua spada come una bacchetta. Trovato in albergo dello champagne prodotto sul posto, un vino dolce; una calda notte seguita a una magnifica giornata.
Mercoledì, 25 maggio
Alla stazione di primo mattino. Attraverso una regione collinosa fino ad Cilli dove ci fermiamo per il pranzo. Poi lungo le rive della Sava attraverso una stretta gola molto pittoresca, dalla quale il treno esce sulla pianura di Lubiana, dominata a destra dall’Oistriza Spitze, una massiccia montagna con la sommità nevosa. Attraversato un viadotto molto alto. Lunga discesa tra foreste di abeti, paesaggio selvaggio. Alle 4.30 del pomeriggio raggiunta Adelsberg (10), piccolo villaggio sul pendio di un poco elevato gruppo di alture in un paesaggio montano desolato. Percorso un miglio e mezzo fino all’entrata della grotta. Un lungo passaggio conduce al primo salone, da cui una successione di ambienti collegati da un labirintico corridoio porta nel cuore della montagna.
La attraversammo per sei miglia nell’oscurità, ma non esplorammo l’intera caverna. Le stalattiti erano meravigliose: colonne, altari, pulpiti e ogni altra cosa che si volesse immaginare la si poteva scoprire con un piccolo sforzo di fantasia. L’uso del magnesio si era dimostrato di gran successo, una piccola quantità di magnesio illuminava tutte le candele di un “grosse Beleuchtung” (11). Nelle acque delle grotte abita un pesce senza occhi, il Proteus anguinus, i cui esemplari sono venduti in bottiglia. Emergendo dall’oscurità ci imbattemmo in un magnifico spettacolo: un temporale era lì lì per finire, il cielo avvampava della luce del tramonto ed era attraversato da uno stupendo doppio arcobaleno. Dovemmo correre per prendere l’espresso che ci portò a Trieste alle nove di sera. Cena in albergo e imbarco a mezzanotte.
Venerdì, 26 maggio
Mattinata splendida. Da togliere il fiato l’entrata a Venezia con le Dolomiti sullo sfondo. Opinioni sui neri di una signora americana a bordo del battello (12) e su una bella ballata popolare: “Si arricciava i capelli in modo così stretto da non poter chiudere gli occhi” della quale lei diceva “le parole sono semplici, ma insolite e carine”. Attracco presso la Piazzetta alle 8 e alloggio al Danieli. Visita a San Marco, alle Belle Arti, alle chiese dei Gesuiti, del Redentore e di San Giorgio Maggiore.
Sabato, 27 maggio
Magnifica. Tuckett non sta bene. Difficoltà dal farmacista. Un medico italiano compie il miracolo. Visita alle vetrerie di Murano (le Dolomiti meravigliosamente limpide all’orizzonte nord), a San Giovanni e Paolo, al Palazzo Ducale, a San Zaccaria, alla Chiesa Greca e gelati al Florian.
Domenica, 28 maggio
Andati alla Chiesa Inglese, passeggiato in Piazza San Marco. Osservato la distribuzione del cibo ai piccioni, disponendosi i volatili su due file. Visita a Santa Maria dei Frari e andati alla stazione per incontrare le guide, Peter Michel di Grindelwald e François Devouassoud di Chamonix. Il direttore d’albergo, sorpreso, chiede a Devouassoud se parla francese, “oui monsieur, quelque fois” e lo fa sentire come a casa. Chiusi i bauli, preparati gli zaini e pronti a partire verso le montagne. In Piazza la banda austriaca.
Dieci giorni nelle montagne venete
30 maggio – 6 giugno 1865, la prima traversata alpinistica delle Dolomiti
Lunedì, 29 maggio
Per quanto piacevole fosse stato il nostro soggiorno a Venezia, cominciammo a sentire che per noi era tempo di affrontare la montagna e il suo mondo, se volevamo iniziare la nostra traversata in una forma fisica adeguata. Giorno dopo giorno le catene frastagliate delle Dolomiti mostravano le loro balze innevate al di sopra della laguna, quasi volessero attirarci ad esplorare i loro angoli nascosti. Ora che il momento era arrivato eravamo tutti desiderosi di accettare la sfida che ci lanciavano. Il nostro obiettivo per il primo giorno era di arrivare almeno a Belluno. In effetti dovevamo partire da Venezia con il treno delle 10 per Conegliano, da dove avremmo proseguito in carrozza. Dopo una prima colazione di buon’ora ed una visita di congedo a San Marco, radunammo i nostri bagagli nella hall, saldammo il conto e alle 9 circa fummo pronti a partire. Le piccozze e i rotoli di corda offrirono abbondante materia di meraviglia e di congetture al personale di servizio dell’albergo, che assisteva a bocca aperta e occhi sbarrati, guardandoli con malcelato stupore. Alla fine tutti i bagagli vennero caricati a bordo di una gondola, ma non prima che diventassimo l’incolpevole motivo della perdita di flemma di un “pater-familiae” inglese. Pover’uomo! Il domestico gli aveva detto che la sua gondola era all’ingresso, ma quando scese trovò la nostra piena di bagagli, mentre per lui ci fu un ritardo di 5 minuti. Da ciò il suo scoppio di rabbia e il rifiuto a capirne le ragioni, perché un tal potente personaggio non lo si doveva far aspettare.
Lasciato quest’ultimo nostro compatriota, ancora per un bel po’ non riuscimmo a spiegarci come mai a Venezia due gondole non potessero attraccare all’ingresso contemporaneamente come facilmente lo possono due carrozze a Londra. A veloci colpi di remo arrivammo alla stazione. Qui avemmo una lunga trattativa per la necessaria ispezione doganale prima di poter spedire il bagaglio a Trafoi, perché Venezia è porto franco e tutte le merci vengono sottoposte a ispezione prima di avere il benestare per la terraferma. Dapprima ci fu detto che con il baule dovevamo lasciare le sue chiavi, ma con un po’ di insistenza e una visita al capo della dogana avemmo subito l’ispezione e ci fu promesso che il baule sarebbe stato spedito immediatamente. Il treno ci allontanò velocemente dai palazzi sorgenti dalle acque, attraverso il lungo ponte sulla laguna fino alle rive paludose della terraferma pullulanti di fortini e terrapieni. Girando verso nord sulla linea di Trieste, attraversammo una pianura fertile solcata da canali coperti da ninfee per due ore e mezzo, finché si arrivò alla stazione di Conegliano dove scendemmo.
La cittadina si estendeva su un pendio della collina, il primo rilievo delle montagne retrostanti e dalla ferrovia mostrava un aspetto molto pittoresco. Fuori dalla stazione trovammo una carrozza in attesa di viaggiatori. Il suo cocchiere saputo il nostro percorso, si mostrò desideroso di portarci fino a Belluno. Ma la carrozza era così massiccia e con l’interno così angusto che con qualche pretesto declinammo la proposta. Ci fu poi suggerita una sostituzione più agile e la trattativa si concluse. Mentre la nuova carrozza veniva approntata, facemmo colazione nella locanda, un alberghetto di provincia alquanto rustico, dove probabilmente nessun inglese era mai stato vista prima. Alle 2 e 30 del pomeriggio lasciammo Conegliano e ci inoltrammo per alcune miglia su una strada polverosa e monotona. Mentre ci si avvicinava a Serravalle le colline si elevavano davanti a noi come a sbarrarci la via. La stessa cittadina era situata in modo molto suggestivo in uno stretto passaggio dove anticamente una muraglia tuttora esistente, ma ormai in rovina, sbarrava l’accesso alle montagne.
Il dominio di Venezia si manifestava pienamente nelle architetture simili a quelle dei palazzi del Canal Grande e con il leone di San Marco, segno del suo potere, in ogni piccola piazza ed è la decorazione preferita sopra le porte d’ingresso delle città e sui balconi. Giunti infine al termine della lunga strada isolata e passati sotto la collina fortificata che si sporge fino a chiudere il passaggio, ci trovammo a salire una piccola valle che penetrava nel cuore delle Prealpi, una linea di rilievi orografici minori situata a ridosso delle più elevate Alpi. La regione era ricca di boschi e circondata da alture di pari altezza; superava di gran lunga in bellezza le montagne della Scozia. Dopo aver risalito un ripido pendio, la strada costeggia un laghetto, il primo di una serie che occupa una sequela di bacini separati da considerevoli dislivelli, coi quali la valle si innalza notevolmente. Dopo aver aggirato il fianco della collina ad una altezza rilevante sopra l’ultimo di questi laghetti, che accrescono di molto la bellezza del paesaggio, si raggiunge il crinale che forma lo spartiacque con il Piave, e l’occhio cade su una vasta conca in parte occupata da un luccicante specchio d’acqua, il Lago di Santa Croce, il cui deflusso si getta nel Piave.
Lo sfondo del panorama di grande estensione è formato da montagne di carattere prettamente dolomitico. Dopo un quarto d’ora di discesa raggiungemmo il villaggio di Santa Croce dove i nostri cavalli furono rifocillati, mentre Fox ed io proseguimmo per due miglia sulla riva del lago che è di considerevole ampiezza. La sua estremità è molto paludosa e ciò nonostante vi sono numerose casupole ove si conduce un’esistenza insalubre. Traversammo in seguito un territorio ondulato, riccamente coltivato dove spesse siepi, simili a quelle inglesi, fiancheggiavano la strada. Sotto una di queste ci riparammo da un acquazzone in attesa della carrozza che subito ci raccolse. Il bacino del Piave si apriva ora di fronte a noi, una valle profondamente infossata che si inoltrava lontano tra montagne dall’aspetto spoglio e arido e, all’ombra della sera, abbastanza cupe da essere adatte ad una illustrazione dantesca, come quelle che Gustave Doré ama disegnare.
Lungo questa valle austera si snoda la strada di Ampezzo, verso Cortina e la Val Pusteria. Subito dopo aver attraversato il fiume per un alto ponte a Capo di Ponte, lasciammo la strada principale e seguimmo in discesa il corso del Piave a circa sei miglia da Belluno. Un lungo viale di pioppi perfettamente rettilineo costituiva l’accesso alla città, che raggiungemmo proprio mentre l’oscurità subentrava al crepuscolo e le stelle cominciavano a spuntare negli squarci tra le nuvole temporalesche. Eravamo diretti a un albergo senza pretese ma molto pulito con alcunché da obiettare, dove la finestra della mia camera dava su un esempio di giardinaggio ornamentale, simile a quelli di un parco suburbano. Venimmo a sapere che per Agordo c’erano tre ore e mezza di strada e ordinammo una carrozza per le quattro del mattino, sperando che con una partenza mattiniera si realizzasse il nostro intento di raggiungere Primiero per un qualche passo da individuare alla testata della Valle di San Lucano.
Martedì, 30 maggio
Un luminoso mattino ci diede il benvenuto e aggiunse allegria alla nostra prima partenza molto mattiniera. Prima del sorgere del sole la carrozza era alla porta e, sistemato il nostro scarso bagaglio sul tetto, ci inoltrammo per le strette vie che presto lasciammo dietro di noi per passare su larghi viali. Belluno è una città estesa, con una cattedrale, un vescovo e alcuni palazzi pretenziosi sul tipo di quelli veneziani. E’ ben adagiata su un’altura sopra il fiume, nel centro della larga valle del Piave. Nel complesso mi colpì come la di gran lunga meglio vivibile città italiana prealpina e sarebbe una eccellente base per escursioni nelle Dolomiti meridionali. La strada attraversava una campagna che alternava frutteti e prati tra i quali erano sparse belle case coloniche. Il paesaggio circostante era di una brillante freschezza, splendente al sole del mattino e i pendii di un verde vivace, gli alti alberi frondosi e le cime slanciate sullo sfondo mi ricordavano molto i paesaggi che gli antichi maestri così spesso raffiguravano nei quadri di Madonne.
Dopo circa un’ora di viaggio raggiungemmo le rive del Cordevole che erompe da una stretta apertura nella catena settentrionale; sull’opposta riva notammo enormi tumuli, forse antiche morene. La strada seguiva la riva del fiume e di lì a poco varcava il portale d’ingresso alle montagne, la lunga gola che forma la parte inferiore della Valle di Agordo. Il fiume scorreva tumultuoso e spumeggiante in un letto roccioso, alti dirupi si susseguivano su entrambi i lati e ad ogni curva della gola si affacciavano aguzze cime dall’aspetto selvaggio. Dalla catena orientale il sole del mattino inondava di luce dorata e vibrava i suoi dardi luminosi negli ombrosi recessi della gola, conferendo bellezza ad uno scenario che durante una tempesta sarebbe stato sì grandioso ma tetro. I torrenti che fuoriuscivano dai dirupi alla nostra destra si erano scavati sorprendenti brecce; ne passammo parecchie di queste spaccature, più simili alle aperture di un tetro canale di scolo che allo sbocco di tranquilli ruscelli. In seguito la strada attraversava il fiume con un ponte provvisorio, proprio oltre il quale degli operai stavano costruendone uno più solido.
Qui la gola giunge al suo punto più stretto, e lisce pareti di roccia si alzano parecchie centinaia di piedi sulle opposte rive del fiume, dalle quali sgorgano numerose ricche sorgenti. Dopo aver attraversato altri due ponti in angoli molto pittoreschi e viaggiato per due ore dentro questa magnifica gola, che quanto a fascino ha poche rivali nelle Alpi, le montagne sembrarono arretrare per fare spazio alle miniere di rame di Fucine, un agglomerato di costruzioni assai poco romantiche, dai cui camini uscivano colonne di fumo nero. Fu curioso notare il cambiamento del colore del fiume a monte della fabbrica: dapprima l’acqua aveva un colore rosso scuro, poi era dell’azzurro trasparente che un torrente di montagna dovrebbe avere, ma che troppo raramente ha, anche nelle Alpi svizzere. La strada supera una breve ripida salita e riattraversa il fiume sulla riva sinistra nei pressi di un piccolo villaggio e quindi entra in una larga e aperta valle che accoglie la cittadina di Agordo, capoluogo del distretto.
E’ magnificamente situata nel mezzo di praterie in declivio oltre le quali si alzano i ripidi contrafforti meridionali del Monte Civetta e le ancor più imponenti balze delle Pale di San Lucano. Qui il fatto di essere lontani dal classico ambiente evocante lo spirito romantico, ci veniva di nuovo richiamato dallo stile degli edifici che erano per la maggior parte intonacati, i migliori dei quali ornati con dipinti vivaci e con balconi dai parapetti in elaborato ferro battuto. La locanda che è rustica, ma tenuta da gente molto civile, si trova presso il vasto prato della cittadina e la vista dalle sue finestre di facciata è riprodotta nel libro di Gilbert e Churchill (13).
Aspettammo per un po’ di tempo in una stanza del primo piano mentre veniva preparato un pranzo e distraendo del tutto la concentrazione di un bambino al quale un fratello maggiore faceva imparare le tabelline della moltiplicazione e che mai avrebbe immaginato un così straordinario evento, quale l’arrivo di quattro “inglesi” (14), come valida scusa per rimandare lo studio dei misteri del 7 volte 8. Non riuscimmo a trovare nessuno che avesse notizie di un passo per Primiero dalla testata della Valle di San Lucano; il padrone promise comunque di mandare avanti i nostri bagagli con i muli fino a Caprile e far sapere a Madame Pezzè che doveva aspettarsi l’arrivo di quattro (15) viaggiatori affamati per la metà settimana. Alle nove circa tutti i nostri preparativi erano terminati e ci incamminammo a piedi.
La processione “armata” causò un non piccolo sconcerto nelle supposizioni della gente del posto che, come ci raccontarono più tardi le guide, era giunta alla conclusione che i nostri attrezzi, così strani a vedersi, servissero a frantumare le rocce in cerca di oro e che eravamo un gruppo di minatori che vagavano sulle montagne in cerca di luoghi favorevoli all’apertura di una miniera. Per mezz’ora rimontammo la valle principale fino al villaggio di Taibon, qui attraversammo il fiume e seguimmo il sentiero che portava in una valle laterale, la Valle di San Lucano che confluisce in quella principale ad angolo retto. Il fondovalle era ben pianeggiante e punteggiato di abeti, ed era bagnato da uno di quei corsi d’acqua spumeggianti che non si accontentano di stare tranquilli al proprio posto, e si cercano una fama col fare danni all’ambiente circostante, il che è una poco piacevole caratteristica del paesaggio dolomitico.
Più avanzavamo più cresceva la bellezza del paesaggio che ci circondava. Sulla nostra destra si alzavano le pareti delle Pale di San Lucano, stupende rocce culminanti in tre torri imponenti. In molte parti delle sue pareti i precipizi sono perpendicolari (in modo assoluto, e non in quel modo vago in cui questa parola è spesso usata dai francesi e da altri) e lisci come fossero muri appena costruiti. A sud il Monte Agner presenta un aspetto più articolato e verticalità leggermente meno accentuate; la sua parete tormentata è solcata da numerose spaccature riempite in questa precoce stagione da strati di neve, resti di valanghe primaverili. Per un po’ la valle si inoltra a ovest, ma alle baite di Col (16), a circa un’ora e mezza da Agordo, si dirama: una breve e ripida porta alla Forcella Cesurette, un passo erboso a circa 6000 piedi che conduce a Garés; l’altra valle, quasi una profonda trincea, è la continuazione di quella principale, sotto una nuova denominazione, la Valle d’Angheraz che si inoltra profondamente nel gruppo del Sasso di Campo (17) e termina in un cul-de-sac paurosamente selvaggio.
Avevamo già notato un sentiero sul fianco occidentale della Valle d’Angheraz che si alzava verso le nevi della ripida cresta la cui sommità era ora a 6000 piedi sopra di noi: dovevamo trovare una via. Un pastore che incontrammo proprio alla biforcazione della valle ci assicurò che prendendo quella traccia di sentiero avremmo potuto attraversare le montagne, un passaggio, disse, occasionalmente usato dai pastori ma, aggiunse, con la neve ed estremamente ”cativo (sic)”. Il carattere del tutto selvaggio dei dirupi alla testata della Valle d’Angheraz (in ogni caso quasi certamente non ancora affrontati da alpinisti) ci convinse a seguire questa indicazione, così subito ci rivolgemmo al pendio e iniziammo la nostra fatica. Il sole era già alto nel cielo e il caldo che era stato molto forte nel piano, ora era diventato quasi insopportabile a causa del maggiore impegno. Inoltre le abbuffate al Florian e gli ozi veneziani non erano stati propriamente il migliore allenamento per i duri impegni che ci aspettavano; in più Tuckett non poteva sentirsi al meglio dopo la recente indisposizione.
Lentamente, molto lentamente salivamo cercando ogni scusa per una sosta col risultato di penosi avanzamenti se confrontati con le altezze delle cime opposte a noi. Dapprima zigzagammo tra i cespugli che seguivano alla pineta quindi tra i rododendri dove le tracce di sentiero finivano. Parecchie ore erano già trascorse prima che raggiungessimo il limite della vegetazione e ci sedemmo sulle rocce a riflettere sulla direzione di marcia da tenere su per i pendii nevosi che ancora ci separavano dalla agognata cresta. La nostra veduta era ora molto bella e iniziava ad estendersi oltre le catene vicine, ma la parte di gran lunga più maestosa era costituita dai selvaggi dirupi del Sasso di Campo, che qua e là nei loro irregolari recessi accoglieva piccoli ghiacciai, in contrasto dominavamo a nord un vasto ed elevato pianoro pascolivo, posto oltre le Pale di San Lucano e i pendii della Cima di Pape.
Le nostre riflessioni furono presto rivolte alla direzione da prendere e fummo d’accordo di dirigerci verso il valico più a Sud della catena che ci fronteggiava. Una volta sulla neve tutta la fatica svanì grazie alla deliziosa brezza; l’andatura migliorò decisamente e in breve la nostra avanguardia raggiunse ciò che appariva un colle e lì presto ci riunimmo. Fummo davvero disgustati nel constatare che l’altro versante era di vasti nevai chiusi a grande distanza da una cresta rocciosa. Dopo aver studiato la carta militare, concludemmo che la cosa migliore era tornare sui nostri passi e tentare per un più alto intaglio sulla cresta alla nostra destra che avevamo osservato dal basso. Ciò si rivelò un abbaglio perché se avessimo continuato ci saremmo trovati, senza necessità di ulteriori salite, sul margine della Val di Canali vicino al punto che poi raggiungemmo dopo un lungo giro vizioso. Il modo vago con cui tutta questa regione è rappresentata sulla carta militare del Veneto ci indusse nell’errore e ci portò a supporre che dovessimo soltanto tornare verso la testata della Valle d’Angheraz.
Una continua salita ci portò ad una successiva depressione della cresta; raggiungendola ci trovammo davanti, con nostra costernazione, ad ulteriori pendii che sembrava portassero allo spartiacque. Comunque presto li superammo, ma solo per poi trovarci su un vasto altipiano nevoso inframmezzato da rocce e variato da insoliti avvallamenti simili alle “Devil’s punchbowls” (18), dalla forma alquanto strana. L’intera regione aveva un aspetto piuttosto arcano, una vera e propria landa desolata adatta a luogo di convegno degli spiriti del Manfred (19), circondata a sud da un profilo di cime nevose e a ovest da una fantastica catena di alte e ardite cime appartenenti al gruppo delle Pale di San Martino. L’estensione del panorama era in se stessa una prova dell’altezza che avevamo raggiunto e nulla ci impediva la vista sui precipizi meridionali della Marmolada. Più a est oltre la vetta della Cima di Pape feci la mia prima conoscenza con la Civetta, le Marmarole e le vette oltre le catene delle Dolomiti orientali. Parte dei nevosi Tauri erano visibili all’estremo nord e l’evanescente profilo del Grossvenediger era chiaramente distinguibile a grande distanza. Da questa descrizione si può ben giudicare che il panorama era dei più grandiosi, ma la nostra situazione lo era assai poco.
Eravamo partiti tardi da Agordo, il tempo era volato, il sole stava tramontando velocemente e noi non avevamo ancora individuato un passo che al momento non ci sembrava facile da trovare subito. La migliore linea da seguire era agire nella speranza di un ribaltamento della nostra situazione e dopo aver arrancato decisamente a sud su una ripida spalla ci trovammo al piede orientale di una cima (Cima di Canali?) (20), culminante in un cono nevoso 300 piedi sopra di noi. Un ometto ne coronava la vetta, ma non avevamo tempo da perdere per investigare poiché una conca ci apparve più in basso a sud e, aggirando la spalla, per un po’ scendemmo un facile canalino per metà nevoso così raggiungemmo il suo fondo e la traversammo a sudest su terreno ondulato. Quanto prima l’ulteriore margine della conca era raggiunto e finalmente ci trovammo sul bordo di ripide rocce che scendono in una valle meridionale, la tanto cercata Valle Canali.
Non potevamo permetterci di indugiare (erano le 19 e 30) e dopo una sosta molto breve iniziammo la discesa; una successione di canali nevosi ce la rese più facile, permettendoci una discesa di veloci scivolate, con brevi interruzioni, per circa 2000 piedi. Quando raggiungemmo il fondo della testata della valle era ormai buio, ma una giovane luna diffondeva un chiarore romantico sugli smisurati pinnacoli del Sasso di Campo e del Sasso d’Ortiga e conferiva loro quasi una imponenza maestosa. Eravamo alla testata di uno dei più selvaggi luoghi isolati delle Alpi, sorpresi in pieno dalla notte e con la luna che, illuminando le cime, conferiva al paesaggio una grandiosità indimenticabile, disdegnando l’umile ufficio di servire da lanterna al nostro cammino e lasciando le profondità della valle nella sua oscurità. Procedendo in una continua discesa, ci tenevamo vicini nel timore di perderci. Quanto prima finimmo in una zona di mughi dai fitti aghi pungenti e dopo essere scesi per un tratto dovemmo risalire perché ci trovammo sull’orlo di un precipizio.
Chiunque abbia conosciuto la differenza tra lo scendere e il salire questi ammassi di rami avrà modo di solidarizzare per ciò che provammo in una tale situazione. Si individuò comunque un canalino dove i mughi ci furono molto d’aiuto, così per questa volta non ne parlerò male. Finimmo nel letto di un torrente, asciutto perché l’acqua preferiva un percorso sotterraneo e per più di mezz’ora incespicammo tra i massi, un lamento rivelava ogni tanto un’avvenuta scorticatura. Poi ci illudemmo di aver trovato un sentiero e ci inoltrammo in un fitto bosco sul lato sinistro della valle; ma ben presto il sentiero, se tale era, lo perdemmo di vista ed andammo ad avventurarci in una oscurità tra i pini sempre più fitta. In breve passammo un’aperta radura e cinque minuti dopo ci portavamo a un punto morto. Un profondo salto incideva la valle e le rocce ci sbarravano il percorso, il fiume ci mandava i suoi mormorii da una profonda gola ai nostri piedi, troppo lontano da raggiungere. Ci fermammo e poi cercammo in varie direzioni una traccia di sentiero.
Improvvisamente sentimmo un grido di Backhouse, subito ne chiedemmo la ragione “ho trovato un paesano qui, ma non riesco a comprenderlo” fu la risposta. Ci precipitammo in suo aiuto e scoprimmo che il paesano altri non era che Michel, la nostra guida svizzera che Backhouse aveva incrociato nell’oscurità scambiandolo per uno del posto ed interrogandolo nel suo italiano migliore. Il disappunto che ci fu per l’assurdità della beffa ci indusse a rassegnarci e a considerare inutile un ulteriore girovagare, e che sarebbe stato meglio accamparci fino al sorgere del giorno. Immediatamente tornammo alla radura sul cui bordo trovammo un luogo molto adatto per bivaccare, un avvallamento riparato da una grande roccia. In breve fu acceso un fuoco, quindi ci mettemmo al lavoro per tagliare rami d’abete come giacigli per stare un po’ comodi. L’unico inconveniente era che non si trovava acqua nelle vicinanze; non si beveva da alcune ore, ed eravamo tutti molto assetati così, misero sollievo, due arance furono divise in otto parti.
Nel frattempo Devouassoud era sparito portandosi la “cow” (21), così era volgarmente chiamata la borsa di caucciù che usavamo per contenere la nostra riserva di vino. Dopo una lunga assenza ritornò: aveva percorso più di un miglio alla ricerca del prezioso liquido e il suo arrivo fu salutato con un grido di entusiasmo e quella notte nessuno tra i più fanatici bevitori di tè fu più contento di noi con la propria tazza fumante nelle mani. Tolti gli scarponi e rivolti i piedi verso le fiamme, presto ci dedicammo ad osservare le stelle che brillavano tra i rami dei pini e in breve ci addormentammo.
Mercoledì, 31 maggio
Mi svegliai coi piedi freddi, il fuoco spento e un vago accenno di alba che andava diffondendosi nel cielo. Erano circa le 2, troppo presto per partire così riattizzammo il fuoco e finimmo ciò che rimaneva delle nostre provviste. Sonnecchiammo poi fino al completo chiarore del cielo, quindi spegnemmo il fuoco e demmo l’addio alla valletta ospitale. Rimontando direttamente il pendio ritrovammo in dieci minuti il sentiero che ci era sfuggito nell’oscurità, che evitava le rocce contornando il fianco orientale, permettendoci di calare velocemente al fondo valle. In mezzora, dopo aver attraversato un torrente, raggiungemmo la prima “malga” posta su un prato verdeggiante. Il vecchio che l’abitava portò del latte e ci raccontò tutto ciò che sapeva delle montagne circostanti. Aveva sentito di cacciatori che avevano traversato nella Valle di San Lucano, ma fu sorpreso del nostro passaggio così precoce nella stagione. Un bel sentiero ci condusse su pascoli passando numerose baite all’entrata della Val Pradidali (22) una valletta che si alza verso la base delle Pale di San Martino e attorniata da cime ardite. Qui la strada ritorna sulla riva sinistra del torrente e attraversa un terreno ondulato simile a un parco, passando il castello di caccia del Conte Welsperg, una semplice costruzione molto simile ai casini di caccia delle Highland.
In breve il sentiero che scendeva dal Passo di Cereda si congiungeva al nostro sulla sinistra e lì fummo in vista del Castel Pietra, la più singolare tra le fortezze alpine, appollaiato come un nido abbandonato sulla sua rupe isolata. Sullo sfondo l’alta piramide del Cimerlo (23) si stagliava nel cielo, un ammasso di rocce scheggiate con una possente torre rocciosa che interrompe la linea della cresta alla sua destra. Ora per la prima volta si vede Primiero, giù ai piedi della montagna e distante circa tre miglia. Un ripido sentiero lastricato scende a zigzag sotto la roccia del castello a livello del torrente. Poco dopo incontriamo Tonadico, un grosso villaggio caratteristico principalmente per la frequenza che si nota sulle sue case del motto “Christus nobiscum stat”. Mezzo miglio oltre, sull’opposta riva del Cismon, che scende da San Martino di Castrozza, c’è Primiero.
Sulla prima casa vedemmo la scritta “Circolo di Trento”, la prova che avevamo lasciato Venezia per il Tirolo italiano. La città, che vanta qualche pretesa di antichità e che viene citata negli annali storici di queste parti, consiste di una lunga strada costituita da pochi edifici in buono stato, mentre la maggior parte appare trascurata. Senza averne l’intenzione ci facemmo l’intera lunghezza della strada alla ricerca della locanda giusta raccomandata da Mr. Gilbert; nessuna meraviglia che l’arrivo di sei sospettabili stranieri causasse un non piccolo trambusto tra i cittadini e da ogni uscio venissero lanciate occhiate perfino più curiose di quelle degli Agordini. Per non parlare delle piccozze, dell’apparizione di Tuckett vestito di strass, con gli strumenti che gli uscivano da tutte le parti, che come al solito erano gli aspetti che provocavano le ipotesi più fantasiose.
La gente del Trentino come la maggior parte dei suoi vicini sono desiderosi di scrollarsi di dosso il giogo austriaco e gli insofferenti ci sospettarono di essere ingegneri francesi che rilevavano il territorio per scopi militari, animati della inverosimile speranza che l’imperatore Napoleone III volesse ancora completare il suo “programma di Milano”, per il quale l’esercito francese si sarebbe quanto prima alleato all’Italia per liberare il Veneto. Dopo qualche ricerca trovammo la locanda giusta (Aquila Nera). L’anziana signora che la dirigeva dapprima faticò ad affrontare l’imprevisto, ma riuscimmo a convincerla a prepararci subito caffè e delle uova e a cuocerci per pranzo tutta la carne che aveva. Dopo la colazione (erano appena le 8), salimmo in una camera molto pulita e vi passammo delle ore finché non fummo di nuovo pronti ad una abbuffata, perché avevamo deciso di non spingerci oltre l’ospizio si San Martino di Castrozza, dove ci era stato detto che vi potevamo dormire, sebbene la sistemazione fosse disagevole, poco allettante e usata principalmente dai paesani. Dopo un ottimo pranzo a mezzogiorno, ci preparammo per la nostra per così dire passeggiata pomeridiana, in verità di quasi quattro ore.
Le nuvole si erano addensate, risparmiandoci il calore del sole, ma appena percorso mezzo miglio si trasformarono in un pesante temporale che ci costrinse a ripararci sotto gli alberi. Mentre aspettavamo che la pioggia cessasse, ne approfittammo per studiare a fondo i dintorni di Primiero. E’ una delle località tra le più isolate ed è completamente irraggiungibile da mezzi di trasporto a ruota. A sud un’alta catena di monti dolomitici chiude accessi diretti al bellunese, eccetto che attraverso sentieri di cacciatori, che può comunque essere raggiunto attraverso la Valle del Mis o la gola del Cismon. A nord si eleva imponente la cima del Cimerlo con i suoi numerosi pinnacoli e divide la valle col Castel Pietra da quella di San Martino le cui acque delle rispettive valli si uniscono nei pressi della cittadina. I pendii sono fertili e ben coltivati mentre i vasti pascoli aiutano a sostenere il reddito degli abitanti di questo isolato bacino montano. Dopo mezz’ora il temporale si calmò lasciando dietro di sé un cielo sereno e uscimmo dai nostri ripari un po’ bagnati.
Al villaggio di Siròr attraversammo il torrente e da quel punto continuammo sulla riva destra. Il sentiero, assai apprezzabile perché privo di pietrisco, lascia presto la riva e inizia a rimontare il pendio occidentale. Mantiene una pendenza quasi uniforme come raramente si incontra nelle Alpi per due ore piene e conduce attraverso bei boschi animati dal mormorio delle sorgenti. Il fiume viene lasciato giù sul fondo di una gola e sull’opposto versante una superba catena dolomitica si distende verso nord e gradualmente si manifesta a iniziare dalle Pale di San Martino. Ci fermammo per informarci sulla strada ad un alpeggio tra i prati in fiore, poco dopo attraversammo un corso d’acqua che scendeva da una valle situata alle spalle del Monte Arzon. Portandoci sulla destra quindici minuti dopo attraversammo il torrente principale sopra il suo immergersi nelle profondità della valle.
Un centinaio di yarde dalla riva, sullo sfondo di pinete e rocce sorgono la cappella e l’ospizio di San Martino di Castrozza, un utile luogo di sosta per i valligiani nel loro cammino verso la Val di Fiemme, per la quale è una strada frequentata. Entrammo nell’edificio principale dove nella sala di ristoro trovammo una numerosa compagnia che giocava alla “morra”; tutti comunque si mostrarono molto educati e disposti ad essere amichevoli con gli stranieri. Per un certo tempo preferimmo sedere attorno al fuoco in cucina, uno stretto ambiente con un lato a semicerchio, attorno al quale correva un sedile di pietra, con il fuoco nel centro e (se ben ricordo) senza camino.
Dopo che fu pronta la cena in comune a base di polenta, ci fu dato del vino speziato. Terminata la nostra bevuta Tuckett ebbe una lunga chiacchierata con due doganieri austriaci di guardia quassù con il principale scopo di uno spionaggio su di tutto, solo grazie al quale viene mantenuta la calma in questa infelice regione. Erano persone civili e con un po’ di buone maniere e aver mostrato loro un filo di magnesio conquistammo completamente la loro fiducia, acquietando i loro primi sospetti. Comunque, prima di andare a letto, uno di loro prese da parte Tuckett chiedendogli di fargli vedere il passaporto perché la nostra presenza a Primiero aveva suscitato così tanta attenzione che lui voleva assicurarsi che noi fossimo passati per quell’itinerario e se richiesto potesse essere in grado di fare una relazione sul nostro paese e sui motivi del viaggio. Alla domanda di mostrarci la camera da letto, fummo condotti nell’edificio adiacente che per metà è fatto di scale e pianerottoli. Dividemmo una piccola stanza e due letti tra noi quattro.
Note
(1) William Douglas Freshfield, La Traversata delle Alpi, Itinera Alpina, Milano 2014, p. 121.
(2) Così annota Coolidge in: Tuckett A Pioneer in the high Alps, p. 200.
(3) Francis Fox Tuckett, A Pioneer in the High Alps, London 1920, p. 226.
(4) Purtroppo “conservava”: il prezioso documento è da tempo irreperibile.
(5) Arnold L. Mumm, Alpine Club Register 1864-1876, p.119.
(6) Eduard Richter, Erschliessung der Ostalpen, vol III, p. 396.
(7) “Come sono bizzarri questi inglesi”.
(8) Sezione del Kunsthistorisches Museum che raccoglie le armature dal Castello di Ambras a Innsbruck.
(9) Désirée Artôt (1835-1907), famosa mezzosoprano belga.
(10) Postumia.
(11) Gran candelabro.
(12) Poche settimane prima, il 9 aprile, era terminata la guerra di Secessione americana.
(13) “The Dolomite Mountains”, pag. 442.
(14) In italiano nel manoscritto.
(15) E le due guide?
(16) Ora Col di Prà.
(17) Croda Granda nel diario.
(18) Curiose formazioni geologiche nel Surrey (GB) in terreni calcarei, avvallamenti circolari di origine carsica. Successivamente Freshfield annota sul diario “probabilmente scavati da un ghiacciaio poi scomparso”.
(19) Poema di Byron.
(20) Più probabilmente la Cima di Manstorna.
(21) “la vacca”.
(22) Nel diario “Val di Pravitali”.
(23) Nel diario “Cima Cimedo”.
(continua)
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“ne approfittammo per studiare a fondo i dintorni di Primiero. E’ una delle località tra le più isolate ed è completamente irraggiungibile da mezzi di trasporto a ruota. A sud un’alta catena di monti dolomitici chiude accessi diretti al bellunese,”
Pare quasi la risposta dal passato ad una recente diatriba su Primiero e Bellunese.
A parte questo, a chi gradisce la letteratura sulle esplorazioni dei pionieri, consiglio anche Le Dolomiti Friulane. Il viaggio 1900-1906.
Molto probabilmente l’aver passato oltre quarant’anni a rivedere articoli, miei e di altri, ha portato ad una deformazione professionale – ma possibile che sia stato solo io ad accorgermi delle “Palle” di S. Lucano?
Si tratta di un documento storico piuttosto interessante, con riferimenti significativi all’opinione pubblica ed alla situazione politica del tempo, attraverso il punto di vista di Inglesi. La guerra civile americana era appena finita, e si allude alla posizione francese (i nostri a Parigi avevano incrocia l’imperatrice al Bois de Boulogne) della recente, seconda guerra di indipendenza; l’anno dopo 1866, con la pur sfortunata terza, sarebbe stato annesso il Veneto. E’ uno spaccato su come vivevano i contemporanei gli avvenimenti politici, oltre che le loro condizioni di vita (dei turisti e dei locali “indigeni”), in presa diretta, per così dire, della forma del diario. Davvero affascinante.
Non mi addentro in confronti tra la vita al tempo degli autori e quella odierna, il resoconto è un documento eccezionale nel dare uno spaccato sull’attività alpinistica e sulla vita nelle valli in quel periodo.
Grazie per la traduzione e per la pubblicazione.
Ratman, sei tra quelli che sostengono la lunga vita a discapito di tutto il resto?
Ne abbiamo già diffusamente discusso durante il delirio epidemia: sarà che la vita media si è allungata, ma la maggior parte degli individui si cala almeno una pillolina al giorno e ha una qualche nevrosi da stress. Io, questo, non lo chiamo benessere.
Per il resto, certamente i lunghi viaggi in montagna non erano alla portata delle masse (per di più, come ora, erano pochi i veri frequentatori), ma in montagna si è sempre andato, anche se non è riportato in libri e riviste.
Davvero un bel lavoro,complimenti ai traduttori…
Descrizioni efficaci semplici e anche con una sottile vena di umorismo tipicamente British che qua e là alleggeriscono le descrizioni di un racconto sempre tenuto ben vivo e acceso.
Unico neo esser precursore delle migliaia di guide (cartacee) che sarebbero venute alla luce nei quasi due secoli a venire e causa ahime’ pure loro dell annullamento della tanto discussa wildzone…che piace a tutti ma che poi nessuno vi rinuncia e da’il proprio piccolo ma importante contributo alla sua scomparsa…
Una vera delizia i tanti spunti storici sparsi qua e la e che denotano una grande cultura e non solo volgare disposizione di grana.
Aver visto Belluno già allora in testa alle classifiche della Qualita’ della vita lo dimostra.
Prima di lodare i tempi passati, bisogna che si valuti pure l’altro lato della medaglia. All’epoca nelle valli alpine, per esempio in Valle d’Aosta, la miseria era diffusa, con tanti cretini gozzuti.
Saremmo disposti a fare il cambio?
… … …
Ratman, io certamente preferirei non fare il cambio: si vive meglio ora. Ciò non toglie che esistano aspetti delle epoche passate che si sarebbero potuti e dovuti conservare.
Vivremmo ancora meglio.
Per esempio, consideriamo l’ambiente naturale. Per eliminare la miseria dalle Alpi non era necessario devastarle con lo sci di pista.
“Nel 1863 l’età mediana di morte non arrivava ai 50 anni, fermandosi a 49,29. Negli anni a seguire ci sono aumenti e flessioni, ma con un complessivo trend in crescita che fa registrare come età media di morte 54 anni nel 1881, quasi 60 nel 1891.”
Tornate pure ai bei tempi, tornate.
All’epoca quasi solo i benestanti potevano permettersi di andare in montagna per diletto.
Una rara eccezione fu quella di Edward Whymper, che però all’inizio lo faceva per lavoro. Un altro fu Julius von Payer, militare, che incominciò risparmiando i centesimi. Poi ricordo i numerosi parroci e abati della Valle d’Aosta (Giovanni Gnifetti, Amé Gorret, ecc.) e i valligiani della Roccia della Scoperta (1778!) alla ricerca della Valle Perduta sul Monte Rosa. Paccard salí sul Monte Bianco (1786) per passione e ambizione, Balmat per passione… e per la ricompensa promessa da De Saussure; oltre ai due della vetta c’erano altri montanari che vi ambivano. I topografi sulle cime erano cittadini, e lo facevano anch’essi per lavoro.
Altri tempi, altri mondi.
… … …
L’atmosfera che promana dai vecchi diari dell’Ottocento è un incanto. Pare di leggere di Shangri La!
Sarei disposta anch’io a farlo, Carlo.
Sarà che sto invecchiando, ma questi racconti, che prescindono quasi dalla collocazione montanara, mi piacciono sempre di più. mi coinvolgono, mi affascinano, li leggo d’un fiato (invece certi resoconti di performance alpinistiche al top, realizzate ai giorni nostri, mi devo proprio forzarli per portali alla fine…) E’ vero, il nastro storico-temporale non si può riavvolgere, se non nella mente. La lettura dei testi di quei tempi è un modo per tornare emotivamente a quei tempi. Se fosse possibile, io accetterei di tornare davvero a quei tempi, lasciando perdere tutto ciò che si configura come modernità.
Albert, per vivere lo spazio non c’è bisogno di denaro, ma solo di una cultura adatta.
Il Gognablog straripa di racconti di avventure vissute con pochissimi mezzi.
Il nastro non si può mai riavvolgere, è necessario stenderne uno nuovo.
Ottimo articolo, merita una riflessione ,più della metà, molto più della metà, dei lettori del Gogna Blog, quando parlano di wilderness, natura pressochè incontaminata, di spazi etc. certamente si riconoscerebbero fortunati e ben collocati in quel periodo appena descritto, ora per poterlo essere, avrebbero dovuto avere le stesse e identiche possibilità economiche, dei Sig.British e relativo tempo.Ma questo confligge altresì con il rifiuto della ricchezza quale valoro accessorio cui molti imputano il degrado attuale. Ecco un dilemma Avere benessere e tempo tali?ma anche averne vi è l’elemento temporale. Non sono più quei tempi, allora come riavvolgere il nastro? un po come rimettere il dentifricio nel tubetto. Non se ne esce. Accontentarsi di quello che esiste e viverlo alla meno peggio, o se le condizioni lo permettono, tempo-spazio- benessere – e salute (non guasta),viverlo al meglio. Dopo il covid.le speranze di vita( statisticamente) si sono abbassate.
Trovo bellissimi i disegni.
Articolo (e ricerca) veramente affascinanti.