Metadiario – 296 – La Valle del Buio
Come le banche prestano denaro praticamente solo a chi il denaro lo ha già, così le assicurazioni sulla salute assicurano solo chi sta benissimo… Forse è un dire un po’ esagerato, ma la mia situazione mi suggeriva questa massima senza tema di essere contraddetto… Per tre o quattro anni nessuna agenzia mi aveva voluto assicurare, fino a che nel gennaio 2018 non incrociai la Mutua MBA che, come essa stessa si promuove, è un “Ente no-profit che accoglie senza distinguo alcuno persone di ogni età, professione, qualsiasi sia il loro stato di salute o storia clinica”. Era proprio ciò di cui avevo bisogno, anche come nucleo familiare. Mi sono trovato così bene che ogni anno rinnovo la nostra iscrizione.
Sherpa
Il 2018 fu caratterizzato dalla gestazione dell’idea di Sherpa. GognaBlog aveva il “peccato originale” d’essere troppo legato alla mia figura e di avere la pretesa di non diventare mai commerciale. Sherpa era invece la mia idea d’informazione, quella che dà voce a tutti senza perdere di vista una meta nella quale si crede. Dovevamo imparare ad ascoltare per impedirci di pensare che le nostre idee fossero le migliori e magari le uniche valide. Volevo la contraddizione tutti i giorni perché solo con il dissenso si ottiene una verità più approssimata a quella ideale. Dissenso con altri ma soprattutto dissenso con noi stessi: non per dare un colpo alla botte e uno al cerchio, bensì per dare un ritmo ai nostri colpi.
Informazione all’inglese (solo fatti) ma anche pensiero, risvolti, dubbi. Provocazioni, storture che improvvisamente appaiono diritture: solo con la ginnastica della mente e dei giudizi diversi non cadiamo nel pericolo del dogma o, peggio, della verità comoda (così fan tutti). Il rispetto delle idee altrui è la prima forma di libertà (quella che si dà agli altri perché li si ascolta ma soprattutto perché è la nostra libertà quella che otteniamo liberandoci dalle nostre convinzioni, quelle sì le vere carceriere.

Una contraddizione al giorno toglie il medico (ma anche l’avvocato, il giudice e lo psicologo) di torno. Vabbè, sto esagerando, ma le parole sono esagerate solo quando sono legate all’io, io, io, io…
Per me Sherpa è il giornalismo del futuro, quello che non ho potuto mai personalmente esercitare nel passato: è la gioia di accorgersi di aver seminato un dubbio nelle corazze granitiche, di aver creato spiragli per vedere le verità segrete. Sì, spiragli per vedere verità segrete (ma spesso siamo noi a negarci ostinatamente di vederle).

Ne parlai con gli amici che ritenevo possibili compagni d’avventura: tra i primi Salvatore Bragantini, Daniele De Negri, Andrea Gaddi, Gian Luca Moro e Bibiana Ferrari.
Con loro concordai la realizzazione di un portale Internet, denominato Sherpa, nel quale far confluire e mettere in comune tutta l’informazione prodotta o che transita su altri siti (di proprietà diverse) sui temi relativi a montagna, ambiente e attività connesse (ad esempio culturali, sportive, associative, ecc.). Col senno di poi, eravamo molto ottimisti quando intendevamo formalizzare i termini dell’accordo completo entro il 28 febbraio 2018…
Tutti i promotori condividevano la convinzione che l’ambiente naturale in genere, e quello montano in particolare, andassero prioritariamente protetti e preservati; perciò ci impegnavamo a favorire la libera discussione e l’aperto scambio di opinioni sui temi suddetti, in una prospettiva non già di propaganda unilaterale, bensì di formazione di un’opinione pubblica ampia, competente e partecipe. Il portale doveva pertanto essere dotato di una forte identità sua propria, così da poter meglio svolgere questo suo ruolo unificante e formativo.
Sherpa prevedeva al suo interno l’apertura di sezioni sue proprie allo scopo di “coprire” le più diverse tipologie d’informazione e di interattività con il mondo della montagna e dell’ambiente.

Concordammo che, nel rispetto dei propri principi ispiratori, Sherpa dovesse in futuro provvedere ai proventi necessari a finanziare la propria attività e a svilupparla; perciò la società avrebbe avuto anche fini di lucro, prevedendo la ricerca di pubblicità, sponsor e anche la fornitura di servizi a pagamento.
Di Sherpa non avremmo parlato al pubblico fino alla realizzazione e pubblicazione di Sherpa, prevista per la primavera 2018 (anche qui, enorme ottimismo…). Nei fatti, riuscimmo a condividere una lettera d’intenti soltanto il 4 luglio 2018!

Naturalmente auspicavamo che altri soggetti, ispirati dai medesimi principi e fini, potessero in futuro aderire all’accordo. Analogamente il portale doveva aprirsi, sin dall’avvio, ad altre entità, che definivamo “partner ospiti”, partecipanti all’accordo in diversa misura, motivate da finalità diverse da quelle dei promotori, ma con queste compatibili.
Fin da subito riuscii ad avere l’assenso e l’impegno di www.up-climbing.com/, www.mountcity.it (sito oggi chiuso), www.mountwilderness.it, www.rifugi-bivacchi.com (oggi www.escursionismo.it/rifugi-bivacchi/), www.dislivelli.eu e www.sassbaloss.com/.
Con Luisa Raimondi ci mettemmo subito al lavoro sul sito e sul logo. In seguito si sarebbero aggiunti mia figlia Elena con l’allora suo fidanzato Achille Mauri.

Altri Spazi
Nel contempo si lavorava anche alla definizione di Altri Spazi, la prima sezione di Sherpa. Ma qui si andò più veloci, riuscimmo infatti a pubblicare il primo post di Altri Spazi l’8 aprile. Le uscite non avevano cadenza fisse e ci vollero poco più di due anni (24 aprile 2020) prima che diventassero giornaliere.
In memoria di Paola Ornella Antonioli ed Ettore Pagani, Altri Spazi è la sezione di Sherpa che voleva continuare l’attività dell’Associazione Alt(r)iSpazi – Associazione Culturale Ettore Pagani, un’organizzazione indipendente e senza scopo di lucro che aveva operato fino al 2015 in ambito culturale a favore della maggiore conoscenza del mondo della montagna e che sarebbe stata poi chiusa definitivamente nel marzo 2022.

L’Associazione era stata costituita nel giugno 2003 a Milano. Intitolata a Ettore Paganie nata da un’idea di Paola Ornella Antonioli, aveva operato grazie all’entusiasmo e alla determinazione di amici e sostenitori di età e ambienti diversi ma tutti accomunati da amore per la cultura, passione per la montagna, l’esplorazione, la natura, il viaggio.
Già all’inizio del nuovo secolo infatti nel mondo della montagna (e nel suo respiro più internazionale) aumentava il desiderio di proposte specifiche e di occasioni culturali, perché era ed è un’esigenza degli spiriti liberi.
Si era partiti dalla costatazione che il grande pubblico a volte aveva difficoltà ad accedere alle informazioni corrette, nonché a una produzione artistica che spesso era relegata a esprimersi in ambienti settoriali o assai confinati.
Di questo disagio era ben cosciente Ornella Antonioli, che nella cultura della montagna era stata figura di grande rilievo, attiva nel mondo dell’editoria di settore, oltre che impegnata ambientalista e da sempre curiosa di esplorazione e alpinismo.
Come aveva fatto l’associazione, così anche Altri Spazi voleva sollecitare l’interesse e la curiosità del pubblico sui temi più attuali del rapporto fra uomo e ambiente, quindi dell’avventura e di molte delle sue declinazioni sportive e culturali, nell’intento di una maggiore partecipazione generale e nell’ottica della nostra crescita individuale.
Il 22 maggio 2018 ci fu la prima a Torino del film Itaca nel Sole. Qui di seguito, raccontato dal regista Gaia, qualche episodio relativo alle prime sessioni di lavoro.
Alcuni momenti delle prime riprese di Itaca nel Sole
di Tiziano Gaia
“Sabato 21 maggio 2016 sono iniziati i sopralluoghi per le riprese del film documentario Itaca nel Sole. Parte della troupe si è spinta fino a Breno, nel cuore della Val Grande di Lanzo, uno dei luoghi simbolo della vita e dell’attività sportiva e letteraria di Motti. Nonostante l’assenza di vette famose a livello nazionale o internazionale, la Val Grande da quarant’anni non cessa di attirare l’attenzione del mondo della montagna per la presenza di innumerevoli vie di roccia di pregevole bellezza estetica e notevole difficoltà tecnica. Pioniere di questi luoghi e di queste vie è stato proprio Gian Piero, valligiano “doc” (la famiglia aveva una casa nella minuscola borgata di Breno (Chialamberto) e innamorato dei suoi prati e dei suoi boschi al punto da averli messi al centro di buona parte della sua produzione letteraria. Se per Cesare Pavese Santo Stefano e le Langhe erano i luoghi del costante ritorno, per Gian Piero Motti, da molti considerato il Pavese della montagna per sensibilità e marcato simbolismo, la Val Grande di Lanzo era la sede dei ricordi d’infanzia, dell’innocenza e delle persone più care. Alcune di queste persone noi le abbiamo incontrate durante la nostra giornata, in particolare da Cesarin, la mitica osteria-bar-alimentari in cui Gian Piero e i suoi facevano tappa prima e dopo ogni scalata.

Entrare da Cesarin – oggi scomparso, ma restano i figli a portare avanti il locale, Claudia in sala e Piero in cucina – è come attraversare lo specchio e ritrovarsi in un mondo di meraviglie e suggestioni. A parte il livello molto alto della cucina (che non guasta, anche in vista delle lunghe giornate di ripresa che ci aspettano!), l’ambiente “trasuda Motti” a ogni angolo e su ogni parete, tra foto d’epoca, cimeli e la copia del “registro delle vie” che Motti e il suo gruppo aggiornavano di volta in volta, su cui ovviamente abbiamo subito messo gli occhi prima ancora di ordinare vino e antipasti… Miglior inizio non poteva esserci. Che Cesarin e la sua valle tornino a essere, dopo l’epoca mottiana, un centro pulsante di energia grazie alla nostra produzione? È quello che tutti noi ci auguriamo, ovviamente!

Ed eccoci sul Bec di Mea! Non siamo ancora partiti con le riprese, che già tocca mettere le mani sulla roccia. Non sappiamo se Motti sarebbe particolarmente orgoglioso di noi, vista la fatica fatta per raggiungere la cima – ovviamente dal sentiero che passa per le grange, mica dal fondovalle! – ma noi di certo ci siamo calati, o meglio siamo ascesi, nell’universo di Gian Piero come non avremmo potuto fare in nessun altro posto. Diciamolo subito: ragionando in termini cinematografici, la valle vista dalla Mea è uno spettacolo, come pure il sentiero per arrivarci, che attraversa il villaggio degli Alboni fresco di precisissimo restyling e si intrufola in un bosco di faggi che disegnano una galleria verde sopra le nostre teste. Ci fermiamo per qualche scatto di rito, due brevi riprese a qualche bel dettaglio, poi arriviamo alle spalle della parete e contempliamo il paesaggio circostante. Roccia, acqua, verde e cielo: la natura nella sua espressione essenziale ed estetizzante. Un gruppo di rocciatori sbuca dalla Mea, ci dicono di essere dei soccorritori alpini impegnati in un’esercitazione, dal momento che sono i primi arrampicatori che incontriamo viene naturale fare un gesto scaramantico! Decidiamo come organizzare le vere riprese, quando torneremo in forze, e soprattutto ipotizziamo chi, tra i personaggi e testimoni coinvolti – i cui nomi sveleremo man mano – sarebbe interessante riportare in questi luoghi… Scendiamo su Breno che il sole è ancora alto, dettaglio non da poco per chi deve girare un film. Da Cesarin ci hanno detto: la Val Grande è come la Norvegia, in pratica resta in ombra per sei mesi d’inverno e in piena luce per gli altri sei. Ci immaginiamo una bella tavolozza di contrasti, ci sarà da lavorare parecchio sul piano fotografico e non vediamo l’ora di iniziare. Alla prossima”.
Panico alla Parete dei Due Laghi
In un impeto di buona volontà mi lasciai convincere a candidarmi ancora per il consiglio nazionale delle guide alpine. Le elezioni si tennero a fine maggio ma, per fortuna, fui “bocciato”. Terminava così un altro dei miei impegni “sociali”, dai quali raramente avevo ricavato qualche soddisfazione a fronte di molte delusioni.
In effetti cominciavo a risentire positivamente degli effetti del grande lavoro psicoanalitico che stavo facendo con l’aiuto della dottoressa Pessina. I dolori erano diminuiti e, grazie all’assunzione di un per me nuovo antinfiammatorio, il 22 febbraio ero anche riuscito a sospendere l’assunzione di cortisone. Il Brexin me lo aveva prescritto il neurochirurgo dr. Marco Sassi che, ancor prima di vedere la mia nuova risonanza magnetica alla colonna, aveva escluso che i miei dolori fossero di origine artrosica.

Timidamente ripresi ad arrampicare, con limitazioni fisiche ma soprattutto inibizioni psichiche. Dopo un’uscita in Sbarua (22 aprile, via della Mandibola, da dimenticare), andai a Pietramurata. Grazie agli amici comprensivi Marco e Matteo feci un giro sulla facile via della Trincea alla Parete di Pezol (sopra Bolognano) (29 aprile) per poi affrontare il giorno dopo la via del Giubileo alla Parete dei Due Laghi. Ero con Matteo Pellegrini e sua moglie Debora. Avevo già fatto quella via e, da secondo, non stavo neanche arrampicando male. Sapevo perfettamente che non avrei avuto difficoltà ad arrivare in cima, eppure dentro di me si agitava l’immagine di un sogno fatto il 17 aprile. Era ambientato dapprima in quella parte del Nepal ben lontana dalle montagne, tra paludi, giungle e coltivazioni, ed ero con Guya o qualcuna che le assomigliava, in un viaggio autorizzato e avventuroso. Continuavamo poi in India, dove ci trovavamo a progredire camminando nell’acqua e risalendo verso la fonte di un grande fiume sulle cui rive viveva un sacco di gente. Eravamo immersi nell’acqua fino alla cintola, con una specie di carriola (che quasi galleggiava) portavo del bagaglio che non mi dava eccessivo fastidio. Era emozionante e nessuno ci era ostile.
Ma cos’era quel bagaglio che mi ostinavo a trascinare con me? Aveva a che fare con l’arrampicare, con il seguire i binari preconfezionati delle mie abitudini. Possibile che la mia passione potesse svolgersi solo su una parete di roccia verticale? Chi erano quei compagni che erano così lontani dalle immagini che mi ribollivano dentro? Perché la sorgente del grande fiume con coincideva con la fine di quell’arrampicata? Cosa ci facevano Matteo e Debora al posto dei milioni che abitano le sponde del Gange?
Al termine della terza lunghezza maturai una decisione. Sapevo che dalla S4 mi potevo facilmente spostare a destra e, risalendo un bosco con qualche roccetta, avrei potuto raggiungere il sentiero di discesa. Comunicai quindi ai miei due compagni la mia diserzione. Appresero la mia decisione senza preoccuparsi, perché anche Matteo sapeva che non avrei trovato terreno difficile o pericoloso. Forse si domandavano il perché, ma non mi chiesero nulla.

Mi slegai dunque e ci salutammo. Sapevo bene dove dovevo andare, sapevo anche che non c’era possibilità di errore. Per i primi dieci minuti tutto andò bene, poi improvvisamente cominciai a pensare d’essermi perso. La situazione, da fastidiosa, diventò presto insopportabile, come se improvvisamente avessi perso ogni capacità di orientamento e di movimento. Non riconobbi quello che di solito si chiama panico, semplicemente perché non lo avevo mai provato. Mi fermai, mi sedetti, incapace di comprendere cosa mi stesse succedendo. Il tempo era bello, fisicamente stavo abbastanza bene e non c’era alcun motivo razionale di preoccupazione. Eppure il terrore mi stava invadendo, arrivando a dubitare se sarei mai tornato indietro. Mi costrinsi a chiudere gli occhi, sperando che l’immobilità favorisse il ritorno alla normalità. Sapevo dove ero ma nello stesso tempo dentro mi si agitava l’atroce sospetto d’essere in un luogo sconosciuto e pieno di insidie. Non so quanti minuti mi durò quell’orrenda sensazione d’essere in un altro luogo rispetto a quello pianificato. Un barlume di coscienza faceva sì che mi chiedessi: è questo che chiamano viaggio extracorporeo?
Lentamente mi ripresi e proseguii la mia salita. Di mano in mano che procedevo sentivo che pian piano stavo tornando alla e sulla Parete dei Due Laghi da dovunque mi fossi trovato prima. Raggiunsi il sentiero di discesa, che conoscevo bene, e lì il viaggio terminò. Gli interrogativi che mi si affollavano erano davvero tanti e forti. Cosa mi era successo? Da un lato ero ben felice di essere tornato, dall’altro mi domandavo i come e i perché nell’illusione che la memoria potesse venire in aiuto alla mia razionalità. In quelle condizioni di redivivo arrivai a Santa Massenza e all’auto posteggiata. E lì aspettai Debora e Matteo, ai quali non dissi nulla.
L’angoscia di quell’ora appena trascorsa fece in modo che non mi passasse neppure per la testa di fare altre arrampicate in maggio. Ma, alla fine di quel mese, avevo programmato un viaggio in Sardegna, ospite dell’amico Giuliano Stenghel (questo il racconto delle avventure a Tavolara, preceduto dalla storia dell’isola), dunque partii, anche se pieno di dubbi.
La Valle del Buio
I miei quasi dieci di frequentazione della valle del Sarca e l’amicizia con Marco Furlani prima o poi dovevano portare a una qualche iniziativa. Una non ci bastò, e furono due quelle che mettemmo in cantiere già dal 2017. Per ciò che riguardava il film avevamo bisogno di una valida produzione: l’avremmo trovata in Aurora Vision. Ma di questo parlerò più in là. A livello personale, ben più impegnativa fu la realizzazione del libro Valle della Luce.
Il progetto intendeva raccontare gli 85 anni di arrampicata nella Valle della Sarca, un fenomeno di grandi dimensioni e in continua espansione. La felice esposizione delle pareti, unitamente alla quota moderata, ne avevano fatto meta ricercata e apprezzata degli arrampicatori di tutto il mondo. L’ospitalità della valle e le risorse di accoglienza avevano fatto il resto, fino a creare un vero e proprio fenomeno, con un notevolissimo numero di presenze annuali suddiviso equamente nei vari periodi dell’anno, e con l’evidente “anomalia” dell’apertura di ben nove negozi di articoli sportivi nella sola cittadina di Arco (che conta non più di 17.000 abitanti)!
L’opera, di grande formato e di ampio respiro, prevedeva di raccontare l’evoluzione dell’arrampicata nella Valle, dalla prima grande ascensione del 1933 sul Monte Casale fino alle ultimissime realizzazioni moderne, con un capitolo sull’arrampicata sportiva e sulle falesie ad essa dedicate. Lo ritenevamo quasi un atto dovuto verso quei nativi della valle e verso quei visitatori, italiani e stranieri, che avevano fatto grande e nota nel mondo questa località.
Seguendo il filo storico e in ordine di data avremmo quindi riferito i fatti salienti e le curiosità relative alle vie aperte sulla Parete dei Due Laghi, Piccolo Dain, Parete di Limarò, Monte Casale, Pian de la Paia, Pala delle Lastiele, Monte Brento, Cima alle Coste, Coste dell’Anglone, Mandrea, Parete di san Paolo, Colodri, Rupe Secca, Parete di Padaro, Cima Capi (solo per citare qui le più importanti).

Grande attenzione avremmo dedicato ai personaggi che hanno contraddistinto la grande storia della Valle, con interviste a quelli viventi ma anche con ricerca storico-biografica su quelli che erano nel frattempo scomparsi.
Grande spazio volevamo dedicare alla ricerca iconografica, con il preciso intento non solo di arricchire il volume con preziose immagini ma anche di fare una vera storia, come si conviene ai tempi nostri, cioè una storia che coniughi la cronaca con la critica, le parole con le immagini.
Il sodalizio con Marco si reggeva sulla sua grande memoria storica (stracolma di episodi vissuti nell’arco di quarant’anni), sulle sue conoscenze e sull’indubbia capacità di ottenere finanziamenti (pubblici e privati). Dal canto mio erano richieste la raffinata ricerca storica, l’architettura dell’opera e la stesura del testo.
Uno dei punti più difficili fu la realizzazione (ci vollero mesi) della tabella finale delle ascensioni. Vi si prendevano in considerazione solo le salite che presentavano un dislivello di almeno 70 metri e l’ambizione era quella della totalità, con tutti i dati storici riportati (date, componenti delle cordate, ecc.). Alla fine, le salite censite erano 1.011. Poi, dopo la raccolta appunti, venne la stesura testi, alla quale riservai l’intero mese di agosto. Che non mi bastò, perché difficoltà e dubbi mi assalivano ad ogni riga scritta. La maggior parte degli arrampicatori da me contattati collaborò con entusiasmo, solo qualcuno si dimostrò un po’ freddino ma alla fine si concesse. Solo uno, Giuseppe Mantovani, non volle concedere nulla di sé, neppure i dati anagrafici. Facemmo comunque il possibile per scrivere qualcosa su di lui. Molti ignoravano le mie richieste di mandarmi immagini per e-mail e preferivano whatsapp. A nulla valevano le mie deboli proteste, intese a far capire loro che in quel modo la qualità delle scansioni era fortemente compromessa. Sveglia alle cinque e, dopo le quotidiane incombenze di GognaBlog e Altri Spazi, intere mattinate passate al telefono, seguite da pomeriggi di fuoco per mettere ordine in quel marasma di date, appunti, interrogativi e risposte.
Mi salvarono la mia capacità organizzativa (affinata già ai tempi di Sentieri verticali) e la mia visione delle imprese compiute in Valle pienamente inserite negli avvenimenti mondiali dell’alpinismo e dell’arrampicata: senza quegli strumenti sarei annegato nel mare del sentito dire, del non approfondito e, talvolta, dell’eccesso d’informazioni.
Per qualche settimana ressi la tensione e l’impegno fisico e psichico, poi lentamente mi resi conto che il mio cammino non si svolgeva più in una Valle della Luce, bensì potevo dire che mi trovavo in un’oscura Valle del Buio.
Perfino con Marco ebbi qualche tensione, culminata in una litigata storica svoltasi alla presenza di Guya, Laura e Lucia, allibite. Ma, a volte, il mandarsi reciprocamente affanculo è davvero utile. Ci rendemmo conto d’aver toccato il punto più basso quando perdemmo la fiducia l’uno dell’altro. Ma così accelerammo l’uscita dal tunnel: già a fine settembre potevamo dire d’aver superato la crisi della Valle del Buio.
In quel periodo mi concessi solo qualche piccola distrazione, per esempio collaborando con Giuliano Stenghel al libretto Il Regno di Pietra, dedicato a Tavolara. L’11 agosto toccata e fuga in Valle Maira (alla Fonte di Camoglieres) per ricordare con amici e parenti l’amico Gabriele Beuchod, scomparso giusto venti anni prima sul Cervino. A fine mese, weekend lungo a Briançon da Valentina e Ugo (solo falesia, c’era anche Marco Furlani).
Il 6 e 7 ottobre weekend a Palermo, Guya ed io ospiti di Fabrizio Antonioli ormai stabilitosi in un meraviglioso attico in centro città. Guya ci rimediò, stando vicina al figlio, un potente raffreddore che le impedì poi di accompagnarmi in Sardegna, da Giulia e Mario. Infatti, per il 12 ottobre, ero stato invitato come relatore da Peppino Cicalò a Santa Maria Navarrese per il trentennale di Selvaggio Blu. Giulia e Mario avevano appena comprato e finito di mettere a posto un appartamento a Santa Maria: la cosa divertente fu che, per via degli orari del mio aereo a Cagliari e del loro traghetto a Olbia, arrivai prima io di loro. La signora che custodiva la chiave me la consegnò ed io mi accomodai come fosse casa mia…

Il 21 ottobre salii alla Corma di Machaby con Matteo Pellegrini una combinazione della via del Diedro (il famoso Bue muschiato) e delle ultime tre lunghezze di Par Condicio. Non ero più abituato alle vie “lunghe”, così mi successe che agli ultimi tiri patii un lancinante dolore alle ossa dei piedi. Anche quella uscita, sia pur controbilanciata da una bella merenda all’osteria di Machaby, non contribuì certo al recupero del mio morale.
Ma il fondo lo toccai, incredibilmente, durante una gitarella sulle montagnette vicino a Milano. Il 1° di dicembre accompagnai Stefano Morcelli e Giulia Pastorella, oggi deputato e allora candidata con Più Europa alle elezioni europee del 2019, in un’escursione al Monte San Primo, da Zelbio. Durante la gita fui intervistato e a mio modo sostenni con un video la campagna elettorale della simpatica Giulia. Purtroppo già nella salita avevo fatto una fatica incredibile, che avevo mascherato. Ma il peggio si verificò durante la discesa, quando a una stanchezza per me del tutto inusuale, si aggiunse anche un problema di perdita di orina…

Insomma tutto urlava dentro e fuori di me che ero finito. Ero ancora in piena Valle del Buio e l’unica mia speranza risiedeva nello sperare che il responsabile di ciò fosse il grande lavoro di ricerca nel mio inconscio che, dopo un anno, era arrivato al punto critico, dove istinto sessuale e capacità di amare si scontravano con volontà e ambizione per poi mescolarsi nel grande mare del senso di colpa.
Matraia
La tentazione di affogare nell’alcol queste problematiche era dietro l’angolo. Una combinazione di eventi volle che il 4 dicembre mi ritrovassi a guidare la mia auto verso Parma. Con me era il co-responsabile di questa fuga dalla realtà, Luca Calvi. A Parma raccogliemmo altri due brutti ceffi, cioè Stefano Michelazzi e Marco Preti, ivi giunti dalle loro case nel Bresciano. Giunti a Lucca ci fiondammo in un supermercato di San Cassiano di Moriano per vedere di non arrivare a mani vuote a casa di Andrea Gobetti. Comprammo, oltre a formaggio grana e salame, un intero carrello (di quelli grossi, con un cesto tipo 110 x 60 x 40 cm, stracolmo di bottiglie di vino. A Matraia fummo accolti da quel magnifico casolare perduto negli ulivi di proprietà di Andrea: ci sentivamo a casa nostra. Anche Giuliana, la moglie, ci accolse con grande calore. Il sole stava tramontando, così ci rifugiammo subito in cucina. Legna nel camino, consegna della dote alcolica. Andrea alzò il sopracciglio e disse: “Dio fa… così tanta roba… ma anche io ho preparato una bella dose di bottiglioni”.
Affettando pane e salame i nostri discorsi, di cui non ricordo nulla (il che la dice lunga sulla loro “profondità”) erano interrotti solo dai ricorrenti rumori di tappo che libera il prezioso nettare. Vino e merenda andavano giù che era un piacere e le risate diventavano sempre più sgangherate. Marco e Andrea fabbricavano continuamente canne che poi venivano fatte girare senza risparmio.
Per fortuna, in quell’osteria ormai fumosa che era diventata la cucina, cominciarono a diffondersi altri odori: era Giuliana che preparava la cena. Meno male, era l’unico modo possibile per interrompere quella tragica catena di passaggi di canne e di brindisi alle cause più assurde. Luca definì quell’assatanato consesso “serata dedicata alla meditazione ed al civile confronto su temi di importanza mondiale”, chiosando poi che “nei nostri volti scavati dalla fatica si leggeva l’impegno profuso per tale incontro ad altissimo livello enoculturale”.
Dopo cena ci trasferimmo nell’ampio soggiorno. Fu lì che ci demmo l’appellativo di BS, ovvero Bevitori Supremi (abbreviato in Supremi). Era eccessivo definirsi Supremi? No, in realtà lo eravamo, perché nasconderlo al mondo?
Da buon appassionato di social, Luca aveva già postato la nostra foto in auto e in arrivo a Matraia. Gianni Battimelli aveva commentato: “Dunque… Sandro Gogna, Luca Calvi, Marco Preti e Stefano Michelazzi che puntano su Andrea Gobetti… vado una settimana all’estero e torno quando le cose si sono calmate…”.
La serata procedette sullo stesso livello della lunga merenda prima di cena. Avevamo acquistato un ritmo nel nostro ebbro affrontare le difficoltà di dare qualche senso ai nostri dialoghi: l’introduzione di qualche pausa tra bevute e fumate fu essenziale. La misura del nostro coinvolgimento l’avemmo nel vedere le sbandate di Andrea che si era alzato per andare a pisciare. Le ore passarono così veloci che mezzanotte arrivò senza preavviso. Giuliana sorridendo ci comunicò che sarebbe andata a dormire. Fu con grande meraviglia che la vidi raggomitolarsi su un divano lontano almeno setto-otto metri da un camino in via di spegnimento. Così, vestita, si addormentò all’istante.
Noi continuammo la nostra maratona etilica, fino ad arrivare verso le due di notte, con una stanza ormai fredda e con i discorsi agonizzanti. Decidemmo di andare a dormire. Prima che Andrea ci mostrasse dove accasciarci, gli chiesi:
– Ma… e Giuliana? La lasci lì?
– Sì, sì… ma c’è abituata…
– Neppure una coperta addosso le metti?
– Boh, magari sì, una coperta…
Non eravamo a luglio, anzi era una notte bella fredda di dicembre.

Mi toccò di dormire con accanto Luca. Questi, non appena si sdraiò e si coprì, si addormentò di colpo. Subito dopo la camera fu invasa da un frastuono, come quello che solo due treni merci con tanti vagoni che s’incontrano ad un passaggio a livello possono provocare. Mai sentita cosa del genere. Dopo una decina di minuti cercai di scuoterlo a gomitate e scrolloni, senza successo. Capii che mi era impossibile dormire, così mi aggirai per l’intera casa alla ricerca di un qualche giaciglio che mi regalasse un po’ di silenzio. Non trovai nulla. Alle 3.30 compresi che per quella notte era mio destino non dormire. Presi il mio pc portatile e mi sistemai in soggiorno a lavorare dietro a GognaBlog. Le ore scorrevano e faceva sempre più freddo: sul divano Giuliana era immobile. Mi alzai per andare a vedere se respirava…
Mi seccava uscire, cercare legna e accendere il camino. Tornai da Luca, per vedere se per caso i treni avevano finito di passare. Nulla era cambiato, la situazione continuava ad essere proibitiva. Continuai a lavorare fino alle otto di mattina, quando sentii un gemito a lato. Era Giuliana che si stirava e mi sorrideva.
Mi chiese cosa ci facevo lì, io le risposi. Poi lei si alzò e in pochi minuti eravamo seduti di fronte a una moka di caffè fumante. Subito dopo la vidi rigovernare il soggiorno e la cucina, facendo sparire con rapida efficienza tutte le tracce degli eccessi della sera precedente.
Verso le dieci arrivarono giù anche gli altri. Appena svegli, a dispetto del fatto che i volti tradivano il grandissimo lavoro espletato con abnegazione nel corso del pomeriggio e della serata precedenti… ricominciarono ad affettare e stappare… E io con loro, perché a quel punto avevo dimenticato cosa fosse il sonno. Avevo abbaiato a Luca il tipo di notte che mi aveva costretto a passare, lui si era scusato dicendo che, sì, lui normalmente russa: ma forse in quel caso era stato il mix alcol-fumo (anche quello indotto) a provocargli quella che ormai avevo definito una “disfunzione respiratoria”. Conclusi con l’esclamazione “povera Sara!”, riferendomi a sua moglie.
L’aver ripreso a mangiare e bere (fortunatamente ancora niente canne) ci regalò lo sprazzo di buon senso necessario per una sana interruzione. Fuori c’era un bel sole, volevamo anche vedere quel posto con la luce del giorno. Oltrepassammo le auto abbandonate nei pressi della casa, nelle quali era cresciuta la vegetazione, e scendemmo verso i confini meridionali della proprietà. Incontrammo un simpatico contadino, vicino di casa di Andrea, e un gruppetto di somari che abbracciammo sentendoli fratelli nostri. Ritornammo in casa che era ora di pranzo. Erano arrivati anche la figlia di Andrea con il suo compagno. Ci diedero manforte nel consumare altre bottiglie e bottiglioni di vino durante un pasto moderato. La stanchezza cominciava a farsi sentire su tutti dopo poco ci accorgemmo che era già ora di merenda. Esitai un po’ ad accettare il ben di Dio che ci proponeva la tavola imbandita all’aperto da Giuliana, poi cedetti. Nel frattempo nessuno di noi ebbe la presenza di spirito di fare una foto alle bottiglie e ai bottiglioni svuotati. Nella foto ricordo sono infatti presenti solo i “morti” di quel pomeriggio. Avevamo anche chiesto ad Andrea se prevedeva di chiedere un trasporto speciale per le bottiglie vuote al Comune di Lucca.
Riuscimmo a partire solo verso le 17, quindi al tramonto. Guidai sempre io, qualcuno della banda di accoliti dormiva spudoratamente. Lasciati Marco e Stefano a Parma, riuscii in qualche modo ad arrivare a Milano.
L’8 e 9 dicembre altro weekend a Pietramurata. Mi ricostruii con due belle passeggiate con Guya, il giro delle Marocche di Dro e la salita a Mez Pian dal Lago di Lamar.
I convegni
Il 3 febbraio, a Dro, grande convegno sul “Futuro della Valle del Sarca”, organizzato da Heinz Grill. Il 15 febbraio, a Parma e alla prima edizione di Turismo e Outdoor, con Stefano Michelazzi parlai di “Sicurezza in ambiente e in montagna”. Cosa si intende per gestione del rischio? Quali aiuti ci offrono le tecnologie e quali insidie psicologiche nascondono? Questi erano i temi che, come professionisti, eravamo stati chiamati a discutere. I comunicati dell’iniziativa parlavano di “fiera aperta al largo pubblico che ha lo scopo di avvicinare i luoghi del turismo outdoor al mondo dello sport all’aria aperta, unitamente all’attrezzatura e ai veicoli utilizzati da chi sceglie questo tipo di turismo e di stile di vita”. La realtà era la solita, vendere, vendere, vendere. Fu infatti l’unica edizione. Nel 2019 la fiera non ci fu. E, in seguito, il Covid fece naufragare ogni velleità.
il 5 maggio, al Festival di Trento, con Bepi Pellegrinon presentai al pubblico il lavoro fatto con Paolo Ascenzi, la grande fatica de L’alba dei Senza Guida. Il 14 maggio, nei locali della SEM milanese, bella dissertazione sulla corsa in montagna; il 22 maggio, al cinema Massimo di Torino, prima nazionale del film Itaca nel Sole; il 7 settembre, alla Triennale di Milano, grazie a Cristina Marrone dissertai con Tamara Lunger e Lucia Troisi nell’ambito di “Il tempo delle Donne”.
Il 19 ottobre, grazie a Giovanni Pagnoncelli, a Domodossola mi fu consegnata l’onorificenza del “Cuneo d’Oro”, un cuneo di legno che ancora conservo con piacere.
Il 25 novembre, organizzata da Maurizio Palazzo a Finale Ligure, grande chiacchierata su “Quali limiti per l’outdoor?”. E infine, l’8 dicembre, grande kermesse a Rovereto su “Alpinismo e solidarietà”. Una serata storica, nel cinema più grande di Mori, organizzata dall’infaticabile Giuliano Stenghel.
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Beh, sicuramente oltre ad arrampicare vi siete anche divertiti… 🙂
Il che mi fa venire in mente che un amico, che ha aperto la prima palestra di arrampicata nel modenese, aveva fatto fare delle magliette con “Le frasi mitiche”, che porto ancora orgogliosamente. Tra le frasi c’era:
“Dai, arrampichiamo, non siamo mica qui per divertirci!” 🙂
… poi dicono a me che quando scrivo tendo ad essere iperbolico e lievemente esagerato nella trasposizione dei fatti…
Voglio vedere come racconterai quella famosa uscita arrampicatoria nel Cortinese terminata in una falesia del Centro Cadore (dopo un caffé e croissant a San Vito)….
Il Pavarotti della russata!
il racconto delle 24 ore etiliche passate a Matraia è da sganasciarsi dalle risate!!
Sante parole Alessandro, sante parole
Unica idea che mi interessa commentare:
Informazione all’inglese (solo fatti)
In realtà la scelta che il giornalista opera riguardo a “quali siano i fatti” (da raccontare) è una delle massime espressioni dell’opinione.
Le menzogne più grandi dei media di solito non stanno in ciò che dicono, ma in ciò che non dicono.