L’alpinismo non si ferma – 2 (2-2)
di Silvia Metzeltin Buscaini
Alpinismo di spedizioni
Per nostra fortuna il mondo è pieno di montagne affascinanti ma senza dubbio le catene dell’Himalaya e del Karakorum, su cui sorgono le montagne più alte del mondo, hanno costituito da sempre la maggiore attrattiva per gli alpinisti che amavano spingersi fuori dalle Alpi.
Ben 14 sono le cime principali che superano gli ottomila metri: 10 sono in Himalaya, quattro in Karakorum. Naturalmente queste 14 cime sono le elette per convenzione di misura, perché se si fosse generalizzato il sistema di misure inglesi la barriera di attrazione sportiva sarebbe stata espressa con una cifra tonda in feet, con più o meno di 14 cime a seconda del caso. Se volessimo includere anche le anticime e le vette secondarie, gli Ottomila sarebbero 29 questo tanto per puntualizzare quanta parte di pura convenzione esiste in cifre che vengono quasi ritenute magiche.
Per raggiungere alla base gran parte delle montagne fuori d’Europa occorrevano – e occorrono benché in minor misura anche oggi – lunghi viaggi e merce d’appoggio, per cui, tenuto conto delle componenti avventura ed esplorazione allora predominanti, tutto insieme ha preso il nome divenuto poi corrente (anche se spesso ormai meno giustificato) di spedizione.
L’Everest, con i suoi 8848 m cima più alta del mondo, ha rappresentato per lungo tempo una vera sfida. Sarebbe stato possibile per l’uomo raggiungere con le sue sole forze tali altezze? I tentativi di ascensione appassionano anche il grande pubblico, un po’ come la gara per raggiungere i poli, e Gunther Oskar Dyhrenfurth coniò per l’Everest e gli Ottomila la definizione di “terzo polo”.
Ai giorni nostri, in cui l’alpinismo di spedizione viene portato dai mezzi di comunicazione di massa fra i non alpinisti, in cui il giro commerciale intorno ad esso, dalle sponsorizzazioni ai viaggi turistici organizzati alla penetrazione economica dei paesi in via di sviluppo, ha raggiunto dimensioni impensabili solo pochi anni or sono, vale la pena soffermarsi su alcuni aspetti che non risultano dalla pura cronaca, ma che hanno condizionato in modo determinante l’alpinismo extra europeo e che non si possono trascurare in una visione storica globale.
Ritorniamo, per fare un esempio concreto alla montagna più alta del mondo. Quando leggiamo la storia avvincente dei tentativi e poi della conquista, trascuriamo il fatto che non si trattasse di una gara aperta: l’accesso all’Everest dal Tibet era riservato ai britannici, mentre il Nepal non lasciava entrare nessuno. Per questo fino alla Seconda Guerra Mondiale i tentativi avvennero per il versante nord e solo quando il Nepal aprì con molta cautela le sue frontiere (allora il timore dello spionaggio politico era ancor più forte dell’attrattiva del denaro portato dal turismo) si poté tentare la montagna dal lato sud, per il quale poi venne nel 1953 la prima ascensione, che per un soffio nel 1952 gli svizzeri non portarono via agli inglesi.
Solo in seguito la competizione, per quanto regolamentata e ristretta, si aprì e alpinisti di altre nazioni poterono cimentarsi con i colossi dell’Himalaya e del Karakorum. Ogni spedizione richiedeva tuttavia difficili approcci diplomatici prima di quelli alpinistici ed è facile immaginare che la cessione dei permessi di scalata non seguisse criteri puramente sportivi. Attualmente la situazione nei paesi asiatici si è semplificata dal punto di vista diplomatico, ma le cime aperte agli alpinisti rimangono limitate, l’accesso è subordinato a tasse, autorizzazioni e imposizioni varie, per cui in realtà si tratta sempre di un affitto da pagare per un periodo determinato con relativa burocrazia.
L’Everest è prenotato fino al 1996, altre cime pure, e ne è derivato un poco edificante mercato nero dei permessi, contesi sottobanco a colpi di dollari e di transazioni private. In altre montagne del mondo la situazione è diversa. Nelle Ande sono subordinate ad autorizzazioni solo certe ascensioni in determinati massicci e comunque finora non esiste né numero chiuso per le spedizioni né tassa obbligatoria. Lo stesso vale per le catene dell’Alaska, dove l’autorizzazione non è di ordine politico amministrativo, ma legata alla sicurezza e alla protezione ambientale (Parchi Nazionali). Possiamo quindi ritenere che nelle grandi linee la storia dell’alpinismo sulle montagne delle Americhe si sia svolta in forma non riservata.
Non si può prescindere dal considerare questi aspetti quando si vuole esaminare criticamente la storia delle conquiste delle montagne asiatiche: siccome non si è mai trattato di un’attività aperta a tutti, il suo significato sportivo rimane purtroppo sminuito dall’impossibilità di una libera concorrenza per il primato. È evidente che ciò non toglie nulla alla grandiosità delle singole imprese, ma semplicemente invalida il significato di una possibile classifica. D’altra parte ciò fornisce anche una risposta a eventuali domande quali “perché gli svizzeri hanno compiuto le prime ascensioni di solo due Ottomila?
Fatta questa prima doverosa premessa, soffermiamoci su un altro aspetto: quello della forma, dello stile, del modo di realizzare l’alpinismo di spedizione. Per le ascensioni in alta quota, un elemento che ha fatto discutere molto fin dagli inizi è stato l’uso delle bombole di ossigeno. È vero che argutamente negli anni ‘20 l’australiano George Ingle Finch aveva fatto osservare che se l’ossigeno fosse stato disponibile in pillole anziché in bombole nessuno ne avrebbe discusso (e probabilmente aveva ragione, vista la leggerezza con cui l’alpinismo di spedizione ha adottato uso e abuso di medicinali tanto da poter essere accusato in vari casi di doping). Non dimentichiamo comunque che per sette tra i meno alti dei 14 Ottomila cioè Cho Oyu, Dhaulagiri, Nanga Parbat, Annapurna, Broad Peak, Gasherbrum II e Shisha Pangma, la prima ascensione era già avvenuta senza l’uso di bombole. Senza contare che nel 1924 durante uno dei tentativi britannici all’Everest, il geologo Noel Odell giunse in cerca di fossili sino a 8200 m, Howard Somervell fino a 8400 e Edward Felix Norton addirittura a 8572 m senza l’aiuto di bombole. La bellissima prestazione di Messner e Peter Habeler che salirono nel 1978 senza bombole fino sulla vetta dell’Everest, è quindi un progresso lungo una via sportiva già imboccata da tempo da una parte degli alpinisti.
Un’altra considerazione che va fatta per inquadrare correttamente le dimensioni di un exploit himalayano è quella a proposito dell’entità dell’assistenza organizzativa e tecnica. Senza voler scendere in troppi particolari, è comunque chiaro che con l’aiuto di portatori, siano essi locali come gli sherpa nepalesi oppure di altri alpinisti o di un elicottero, chi raggiunge la vetta ha dovuto fare meno fatica. Per rimanere all’esempio dell’Everest, è probabile che lo scarso numero di successi (quattro a tutto il 1985) lungo la via “normale” del Tibet dove non sono disponibili gli sherpa, confrontati con i successi quasi costanti per le spedizioni che scelgono la via “normale” dal Nepal, siano da collegare con la differenza negli aiuti per il trasporto di carichi, dato che le difficoltà tecniche dei due itinerari sono paragonabili.
Noel E. Odell
Anche a questo proposito è interessante tener presente che nelle Americhe, fatta eccezione qualche volta per il Perù, non viene praticamente fatto uso di portatori locali oltre il campo base. In Alaska attualmente è possibile farsi trasportare con piccoli aeroplani fino al campo base; in seguito tuttavia l’isolamento rimane completo.
Un discorso a parte merita la recente definizione di stile alpino, che certo viene usata spesso a sproposito. In ultima analisi è forse perfino impossibile muoversi in Himalaya proprio come sulle Alpi, per cui la definizione in fondo è impropria. Mentre il cosiddetto stile himalayano implica un assedio prolungato, la posa dei campi intermedi fra il campo base e la vetta e la posa di corde fisse nei tratti più difficili, una ascensione in stile alpino per essere tale non deve fare uso di corde fisse, né di campi o di depositi intermedi già preventivamente installati, né di portatori oltre il campo base, né di bombole di ossigeno.
Queste precisazioni divengono oggi necessarie per comprendere come possono esistere differenze di valore sportivo anche notevoli fra i vari tipi di stile e di spedizione, a parità di difficoltà tecniche presentate da un itinerario. Naturalmente esistono poi tante possibilità di compromesso; tra queste va ricordato lo stile “big wall”, messo a punto sulle grandi difficili pareti rocciose negli USA, con il quale solo il primo di cordata arrampica sulla roccia mentre coloro che seguono si issano sulle corde fissate dal primo. Quando tutti sono saliti viene attrezzato il successivo tratto di parete, ritirando le corde usate in precedenza.
Benché queste osservazioni possano servire per comporre un quadro più realistico a chiunque si interessi di storia dell’alpinismo, tracciare un filo storico conduttore delle spedizioni è tutt’altro che semplice. In ogni caso sarebbe erroneo ritenere che l’alpinismo si sia sviluppato solo sulle Alpi, per essere applicato molto più tardi sulle montagne del mondo. Oggi possiamo dire che sembra ragionevole considerare uno sfasamento nello sviluppo di soli vent’anni fra le imprese sulle Alpi e quelle extraeuropee.
George Ingle Finch
Ancora prima del volgere del secolo ci furono alcune conquiste notevoli nell’ambito di spedizioni esplorative. Nel 1882 la spedizione geografica inglese in Karakorum diretta da Sir Martin Conway risalì tutto il ghiacciaio del Baltoro e raggiunse la vetta del Pioneer Peak 6980 m. Invano, e forse precorrendo i tempi, nel 1895 Mummery tentò il Nanga Parbat perdendovi la vita.
Nel 1897 vennero scalati sia il Sant’Elia 5489 m nello Yukon da parte del duca degli Abruzzi, sia l’Aconcagua 6965 m, cima più alta delle Americhe per opera di Matthias Zurbriggen.
Agli inizi del nostro secolo, nel breve periodo antecedente la Prima Guerra Mondiale, vengono scalati alcuni Settemila, di cui il primo raggiunto dall’uomo è il Trisul 7120 m in Garhwal, salito da Tom George Longstaff nel 1907. Nel 1911 Alexander Mitchell Kellas salì il Pahuhunri 7128 m in Sikkim, nel 1913 Mario Piacenza raggiunse la vetta del Kun 7077 m in Ladakh. Sempre nel 1913 venne scalato anche il McKinley 6194 m che è la montagna più alta del Nord America, mentre in Perù nel 1908 Annie Peck salì il Huascaran Norte 6655 m.
Fra le due guerre mondiali l’alpinismo in Himalaya fu caratterizzato da un’importante serie di tentativi a quattro Ottomila. Tra il 1921 e il 1938, gli inglesi tentarono per ben sette volte l’ascensione all’Everest dal lato tibetano; George H. L. Mallory e Andrew Irvine scomparvero nel 1924 ma si suppone che siano giunti in prossimità della vetta. I tedeschi concentrarono i loro sforzi sul Kangchenjunga (1930 Dyhrenfurt, 1929 e 1931 Paul Bauer che giunse a 7700 m) e sul Nanga Parbat, dove la serie dei tentativi (1932, 1934, 1937, 1938, 1939) fu particolarmente tragica e costò la vita a numerosi alpinisti di fama fra cui Welzenbach.
Gli statunitensi si dedicarono al K2, dove nel 1938 giunsero con Charles S. Houston a 7900 m e nel 1939 con Wiessner fino a 8332 m, dovendo poi retrocedere per ragioni di cattiva organizzazione degli appoggi.
Gli anni ’30 videro tuttavia successi ai Settemila importanti:
1931, Frank Smyte al Kamet 7755 m
1934, Dyherenfurt al Baltoro Kangri 7260 m e Sia Kangri 7422 m
1935, Conrad Reginald Cooke al Kabru 7338 m
1937, Freddie Spencer Chapman al Chomohlari 7315 m
1938, Ernst Grob al Tent Peak 7365 m
1939, André Roch al Dunagiri 7066 m
Il successo di maggior rilievo fu però quello della spedizione anglo-americana del 1936 alla Nanda Devi 7816 m, che resterà la cima più alta salita fino alla conquista dell’Annapurna del 1950. Tra l’altro si trattò di una spedizione leggera, in cui gli alpinisti portarono loro stessi i carichi, e i due che arrivarono in vetta, Harold William Bill Tilman e Noel E. Odell, erano i più anziani del gruppo ed erano stati ritenuti i meno idonei dai medici.
Negli stessi anni vennero compiute ascensioni importanti anche in Alaska, dove nel 1934 Houston e Thomas Graham Brown (lo stesso della via della Brenva al Monte Bianco) salirono il Mount Foraker 5304 m, e soprattutto nelle Ande Peruviane, dove nell’ambito delle spedizioni austro-tedesche del 1932, 1936 e 1939 vennero saliti dal famoso cartografo Erwin H. M. Schneider, il Huascaran Sur 6769 m, cima più alta del Perù, il Huandoy Norte 6395 m, il Chopicalqui 6345 m e il Siula 6362 m.
Erwin H. M. Schneider
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, negli anni ’50 rappresentarono per l’alpinismo extraeuropeo ciò che negli anni ’30 avevano significato sulle Alpi: un periodo dai connotati eroici, puntualizzato di imprese che segnarono tappe fondamentali. Tra il 1950 e il 1960 vennero saliti 13 dei 14 Ottomila e solo lo Shisha Pangma (ex Gosainthan) resistette fino al 1964 poiché situato in Cina e precluso agli stranieri. Ognuna di queste conquiste ha una sua storia di antagonismi, di fatiche sofferte, a volte anche di tragedie. È molto difficile, forse impossibile, stabilire una qualsivoglia graduatoria delle imprese. Invece si possono sottolineare alcuni fatti particolarmente densi di umanità e di prestazioni.
Oltre la realizzazione atletica, a dare una particolare connotazione umana alla stessa, emersero aspetti e situazioni capaci di coinvolgere a livello emotivo anche il grande pubblico. Fra questi il dramma di Maurice Herzog e Louis Lachenal all’Annapurna, primo Ottomila calcato dall’uomo, e la rischiosa solitaria di Hermann Buhl al Nanga Parbat. Nella conquista degli Ottomila maggiori, luci e ombre permangono intorno alla conquista italiana del K2, con l’episodio di Bonatti lasciato a bivaccare all’aperto oltre quota 8000 e lo strascico di una polemica tuttora non conclusa.
Ma varrebbe la pena ricordare anche episodi e situazioni rimaste nell’ombra, forse perché non c’era nulla da dare in pasto ai giornalisti avidi solo di notizie sensazionali. Così la prima ascensione del Makalu compiuta dalla spedizione francese di Jean Franco, che non conobbe né incidenti né disaccordi e permise a tutti i partecipanti di raggiungere la vetta. Così la più piccola fra le spedizioni che affrontarono con successo la prima ascensione a un Ottomila quella di Herbert Tichy che con Joseph Jöchler e uno sherpa amico raggiunse la vetta del Cho Oyu e che all’epoca delle spedizioni pesanti era partita con soli 500 kg di bagaglio. E così pure la spedizione austriaca di quattro amici al Broad Peak, che compirono quella prima ascensione in perfetto affiatamento e raggiunsero tutti la vetta (Buhl e Diemberger con Markus Schmuck e Fritz Wintersteller). Addirittura, poiché la prima volta nella nebbia non erano sicuri di essere arrivati sulla cima principale, ripeterono l’ascensione con un giorno di bel tempo!
Furono questi anni ’50, un periodo che si potrebbe chiamare d’oro per la storia dell’alpinismo fuori d’Europa. Non solo sulle montagne dell’Asia: nelle Ande nel 1950 gli statunitensi salirono lo Yerupaja 6632 m, cima principale della Cordillera Huayhuash e nel 1951 la spedizione franco-belga di George Kogan salì il bellissimo Alpamayo nella Cordillera Bianca. A spedizioni francesi riuscirono con Lionel Terray e Magnone la prima ascensione del Fitz Roy nel 1952 e con Robert Paragot e Bérardini la prima ascensione della parete sud dell’Aconcagua nel 1954.
Nel 1957 una spedizione austriaca con Toni Egger riuscì a salire l’Jrishanca nella Cordillera Huayhuash. Nel 1959, Egger avrebbe compiuto con Maestri la prima, ma non comprovata, ascensione del Cerro Torre in Patagonia perdendo la vita in discesa (la prima comprovata del Cerro Torre, compreso il fungo sommitale, è della spedizione lecchese del 1974 con Casimiro Ferrari).
Negli anni ’50 spiccò sugli altri anche un tentativo molto ardito che mirava a realizzazioni spinte per le quali forse i tempi non erano maturi. Fu il tentativo che nel 1951 i due francesi Roger Duplat e Gilbert Vignes fecero per percorrere la lunga cresta di collegamento fra le due cime del Nanda Devi: essi sparirono dalla cresta e non vennero mai più ritrovati. Il problema è tuttora un insoluto; nel 1976 altri francesi tentarono senza successo la traversata dopo aver salito in due gruppi le due cime. Comunque si preannunciava già in quegli anni la tendenza alla ricerca delle difficoltà e non più soltanto dell’ascensione alla cima più alta o inaccessa, tendenza che ricalcò il modello di evoluzione storica manifestatasi sulle Alpi. Nel 1956 francesi e inglesi salirono la Torre Mustagh 7273 m e nel 1958 Bonatti e Carlo Mauri raggiunsero la vetta del Gasherbrum IV 7925 m. Nel 1962 i francesi salirono lo Jannu 7710 m con Jean Franco. Nel 1963 riuscì la prima traversata di un Ottomila, e per giunta di quello più alto, a una spedizione degli USA diretta da Norman Dyhrenfurth: salita all’Everest per la cresta e parete ovest, con discesa per la via del Colle Sud.
Nel 1961 gli inglesi con Chris Bonington salirono il Nuptse 7879 m per un itinerario molto difficile. Aumenta il numero delle imprese e diventa sempre più difficile tenere il conto. Se gli alpinisti sono modesti e si autofinanziano, anche realizzazioni notevoli scompaiono dalla cronaca spicciola e rimangono a conoscenza solo di pochi. Uno di questi casi è per esempio la prima ascensione alla Supercanaleta al Fitz Roy centrata nel 1965 dagli argentini José Luis Fonrouge e Carlos Pampero Comesaña.
Fra il 1965 e il 1969 il Nepal non vide che pochissime autorizzazioni e solo nel 1970 ci fu una sostanziosa ripresa dell’attività in quella regione. Con gli anni ‘70 sembra esaurirsi in forma decisa la possibilità di un’ulteriore evoluzione dell’alpinismo classico sulle Alpi (dove il rinnovamento giungerà tramite l’arrampicata sportiva ma cambiando le concezioni) e quindi l’alpinismo extraeuropeo diventa ancor più attraente per alpinisti di punta. Così in quegli anni si rivolge all’Himalaya l’esponente già all’avanguardia sulle Alpi che segnerà con le sue imprese i 15 anni successivi: l’altoatesino Reinhold Messner. Elencare queste sue imprese è in fondo superfluo, visto che sono a conoscenza anche dei non alpinisti. A parte il fatto che gli è riuscita l’ascensione a ben 13 dei 14 Ottomila (ricordiamo che l’anno di stesura del presente saggio è il 1986, evidentemente in un mese antecedente all’ottobre, NdR), va rilevato che ha avuto un grande coraggio innovatore e che ha recepito quale fosse il salto di qualità che era necessario per imprimere un progresso sportivo. Fra i punti importanti nella sua attività spiccano la parete sud del Manaslu nel 1972, la traversata del Nanga Parbat del 1970 durante la quale muore il fratello Günther, la solitaria al Nanga Parbat per una nuova via nel 1978. Nel 1975, la via nuova allo Hidden Peak con Habeler in vero stile alpino, il raggiungimento della vetta dell’Everest senza fare uso di bombole di ossigeno (come del resto in tutte le altre sue ascensioni) nel 1978, l’ascensione al K2 nel 1979 senza portatori, la solitaria all’Everest dal Tibet nel 1980. Grande personalità che ha saputo crescere nel tempo, capace anche di incassare gli inevitabili insuccessi, costituisce il punto di riferimento per l’alpinismo himalayano odierno.
Carlos Pampero Comesaña e José Luis Fonrouge il giorno dopo la loro salita alla Supercanaleta del FitzRoy
È innegabile che un supporto pubblicitario sempre più grande gli abbia portato lustro presso il grande pubblico mentre ha sollevato discussioni all’interno dell’ambiente alpinistico; d’altra parte ciò non inficia in alcun modo le sue realizzazioni sportive.
Messner, anche se è più conosciuto di altri grazie alla diffusione di notizie sulla sua attività, non è tuttavia solo nell’arena extraeuropea.
Nel 1970 riesce alla spedizione di Bonington la difficilissima parete sud dell’Annapurna, dove per la prima volta si applicano in Himalaya le tecniche di “big wall” in uso negli USA (in vetta, Dougal Haston e Don Whillans). Nel 1971 riesce alla spedizione francese di Paragot la prima ascensione del pure difficile pilastro ovest del Makalu (in vetta, Yannick Seigneur e Bernard Mallet). Nel 1975 vengono conquistate altre due pareti contese: la Sud del Makalu dagli jugoslavi di Aleš Kunaver e la Sud-ovest dell’Everest dai britannici di Bonington(in vetta Doug Scott e Dougal Haston, poi Peter Boardman e il sirdar Pertemba Sherpa).
Questi britannici non hanno un uomo di punta, ma addirittura un gruppo del massimo livello: oltre allo stesso Bonington ci sono personalità come Scott, Haston, Whillans, Boardman e Joe Tasker. Ad essere precisi purtroppo oggi dobbiamo dire “c’erano” perché sono rimasti in vita solo i primi due e salvo Whillans sono tutti scomparsi in montagna. In ogni caso alpinisti come Bonington e Scott appartengono allo stretto vertice della piramide dei “grandi” di questo ultimo periodo. Fra le realizzazioni più significative dell’alpinismo britannico, a suo agio in varie forme di attività, dalla grande spedizione pesante alla piccola spedizione tra amici, sono da annoverare anche il Changabang 6864 m nel 1976 per la via nuova sulla parete ovest ( su questa Tasker e Boardman rimasero 25 giorni in parete), e il Baintha Brakk 7285 m dal quale il ritorno fu un’odissea per Bonington e Scott (quest’ultimo si trascinò dalla vetta fino al campo base con le due gambe fratturate). È raro riscontrare altri gruppi di alpinisti tutti di tale livello in altri paesi. Generalmente, accanto a pochissime personalità veramente di punta, c’è una fascia sempre più larga di alpinisti bravi ma non eccezionali.
Un caso a parte è rappresentato dai polacchi e dai cecoslovacchi, per i quali una tradizione di alpinismo individuale si somma alla competitività esacerbata e più o meno ufficiale dei paesi dell’est europeo. Hanno al loro attivo numerosi grandi imprese e il numero degli alpinisti è relativamente grande. I polacchi hanno quasi monopolizzato le ascensioni invernali in Himalaya: spetta loro la prima invernale dell’Everest nel 1980, del Manaslu nel 1984, del Dhaulagiri nel 1985 e del Kangchenjunga nel 1986.
Anche senza entrare in particolari non si può tralasciare perlomeno un cenno ad alcune situazioni speciali, perché sono parti importanti di un quadro generale che ci permettono di raggiungere una visione d’insieme più realistica e non centrata soltanto su alcune realizzazioni spettacolari.
Le montagne extraeuropee sono sempre più frequentate da alpinisti provenienti da varie parti del mondo, nonostante le limitazioni imposte. Mentre per la chiusura dell’Afghanistan da quasi 10 anni sono irraggiungibili molte montagne dell’Hindukush, meta prediletta delle piccole spedizioni con pochi mezzi che vi andavano via terra, la Cina ha aperto con cautela le sue frontiere, permettendo qualche ascensione sul confine nepalese, come l’Everest e lo Shisha Pangma e liberando anche cime molto interessanti dell’interno come il Kongur 7719 m salito dai britannici con Bonington. A parte il numero chiuso, il costo (di oltre 100$ al giorno per persona) è per ora tale da scoraggiare molte iniziative. D’altro canto cime attraenti come il Namcha Barwa che, con i suoi 7755 m, è in questo momento la cima più alta del mondo non ancora ascesa (fu salita nel 1992, NdR) rimangono riservate ai cinesi stessi per la prima ascensione come già avvenne per lo Shisha Pangma.
Una politica di questo tipo è stata applicata pure dall’India, che fra i paesi del continente asiatico dispone del maggior numero di alpinisti, in gran parte militari: dopo la seconda guerra mondiale, le montagne più interessanti vengono chiuse agli stranieri non solo per ragioni politiche ma anche per riservarle alle conquiste nazionali. Così fu anche per la più bella delle ascensioni realizzata dagli indiani, quella allo Shivling 6543 m compiuta nel 1974.
Una buona parte di successi in Himalaya, anche se non sempre di quelli più vistosi, spetta all’alpinismo giapponese. I giapponesi sono numerosi non solo in patria ma anche nelle spedizioni e pur prediligendo quelle pesanti hanno realizzato successi in solitaria e in piccoli gruppi. Basti pensare che quasi metà delle autorizzazioni concesse ogni anno dal Nepal è intestata a giapponesi.
È probabile che la lentezza nella diffusione delle informazioni e scarse conoscenze linguistiche ci portino involontariamente a non considerare a sufficienza le ascensioni compiute da persone di una cultura differente. In questo senso soffriamo anche dalla carenza di informazioni sull’alpinismo praticato sulle montagne del Pamir e del Caucaso appartenenti alla Russia. Benché aperti in forma regolamentata e a pagamento pure per gruppi stranieri solo alcune di queste cime molto interessanti, generalmente i Settemila del Pamir come il Pik Lenin, possono essere tentate dai visitatori.
L’alpinismo sovietico strutturato in forma collettiva obbligatoria, nonostante bei successi in patria non sembra aver raggiunto il livello di punta mondiale, forse perché in questa attività bisogna tener più conto delle premesse individuali che per esprimersi al meglio hanno bisogno di autonomia personale anche quello per maturare le concezioni.
Per ragioni diverse si viene a sapere troppo poco anche dell’alpinismo di spedizione praticato dagli statunitensi. Ciò è un vero peccato, soprattutto considerando che in questo periodo, contrassegnato in apparenza dalla competitività fra persone, in realtà è in gioco lo sviluppo di varie tendenze, benché non sia sempre facile scindere il riconoscimento di una tendenza da coloro che la impersonificano. Nel 1981 sono quasi sfuggiti agli europei le eccezionali imprese di Terrence Mugs Stump in Alaska: con Jim Bridwell sulla parete est del Moose’s Tooth e con Paul Aubrey sul Pilastro nord del Mount Hunter. Per non parlare dell’Emperor Face al Mount Robson nelle Rockies canadesi nel 1978 sempre di Stump con Jim Logan.
Terrence Mugs Stump sulla corriera per Skardu. Foto: Michael Kennedy
Qui si delinea sempre più netto un filone che potrebbe divenire il più interessante, il più suscettibile di sviluppo profondo, ben più di quello del puro inseguimento di un record. Gli statunitensi per ora si tengono volontariamente al di fuori dalla lotta per un posto in classifica, dichiarando che “è impossibile essere il migliore”, e cercano sempre più un proprio limite personale. Può darsi che la scarsità di aiuti finanziari negli USA lascia più spazio per uno sviluppo autonomo che non la voga delle sponsorizzazioni diffusa in Europa. Sta di fatto che realizzazioni sempre più spinte, non solo in Alaska ma anche alla parete est dell’Everest in spedizione pesante senza portatori d’alta quota, oppure in spedizione a due come l’invernale alla parete nord-est dell’Ama Dablam sono di alta classe. Dietro l’esempio di John Roskelley, personalità come Stump, Carlos Buhler, Michael Kennedy e altri potrebbero imprimere all’alpinismo di spedizione una svolta originale inattesa, che il fronte degli sponsorizzati per ora non riesce a maturare.
Attualmente vengono comunque affrontati anche in Himalaya itinerari sempre più difficili e spesso in condizioni durissime.
Fra essi sono da annoverare quelli sulla parete sud-est del Dhaulagiri, sulla parete sud dell’Annapurna (via catalana), compiuti in cordata indipendente di due persone. Per il 1985 rimane emblematica la realizzazione di una via nuova sulla parete ovest del Gasherbrum IV da parte di Schauer e Kurtyka; questo itinerario tuttavia non giunge alla vetta della montagna. Si può commentare che l’alpinismo di spedizione si trova confrontato sempre più sovente con un problema di valutare un’ascensione difficile e importante, ma che non arriva sulla vetta.
Intanto la vetta conta in ogni modo ancora nella “corsa agli Ottomila” cioè nella gara instauratasi per averli saliti tutti per primo o per garantirsi un posto in classifica (visto che fare un elenco di persone con gli Ottomila scalati da ognuno è semplice e può essere apprezzato anche dal grande pubblico). In questa corsa Messner rimane in testa con 13 su 14, ma sta per essere raggiunto dal polacco Jerzy Kukuczka e dallo svizzero Loretan.
L’alpinismo di spedizione, e non più solo l’esibizione di scalata che può essere paragonata a uno spettacolo di danza, è oggi capace di interessare il pubblico dei non alpinisti e bisogna ammettere che ciò condiziona con le sue implicazioni finanziarie buona parte dell’attività di punta.
Così, nonostante sia difficile prevedere le linee di un ulteriore sviluppo, si può dare per avvenuta la trasformazione di gran parte dell’alpinismo extraeuropeo di punta da avventura di esplorazione con contenuto sportivo e componente competitiva, in uno sport a carattere agonistico accentuato e con una notevole impronta di commercializzazione.
Ma gli spazi per un’evoluzione sussistono ancora e certamente arriverà l’occasione propizia per un mutamento o una diversificazione significativa.
Facciamo il punto
Per fare il punto sulla situazione del 1986, non bisogna lasciarsi travolgere dalla mole e dall’entità dei cambiamenti intervenuti negli ultimi 15 anni. In primo luogo occorre enucleare dall’insieme del fenomeno alpinismo il fattore sportivo, nel senso di prestazione atletica con componente competitiva più o meno manifesta, e cercare di considerarlo a parte.
Dobbiamo renderci conto che nel nostro processo storico il fattore sportivo è sempre esistito, però bisogna tener presente che una parte del suo progresso è imputabile anche alla tecnologia e all’evoluzione delle mentalità.
Non scordiamo che in almeno 100 anni ogni passaggio generazionale è stato sottolineato da accuse che oggi sappiamo riconoscere come ridicole solo perché non ci concernono più.
Ci sono cascati anche grandi alpinisti. Un Julius Kugy aveva dato del funambolo a Comici dopo la prima ascensione della parete nord della Cima Grande di Lavaredo; un Marcel Kurz – uno dei migliori autori di guide alpinistiche di tutti i tempi – descrivendo il Cervino si era limitato alle sue creste, escludendo le pareti perché secondo lui la loro scalata non si poteva più ritenere alpinismo. Oggi per noi le ascensioni delle pareti citate rappresentano delle grandi classiche significative: ma se fossimo stati contemporanei di Kugy o di Kurz, avremmo saputo essere meno miopi?
Cercando di non confondere il fattore sportivo con gli sviluppi degli altri aspetti dell’alpinismo, potremo forse evitare atteggiamenti di condanna o di entusiasmo globali che fra pochi anni potrebbero rivelarsi privi di validità. Il fatto che, come molti altri sport, si passi oggi a una specializzazione sempre più spinta e che si inventino nuove forme di attività sulla montagna è legato essenzialmente alla natura finita, limitata, del nostro terreno di gioco.
Non è un’eresia, non è un tradimento spirituale. Al massimo è il prezzo dell’evoluzione.
Anche per lo sci, alle origini sport della natura e della montagna, lo sviluppo è stato segnato dalla specializzazione.
Facendo il punto sulla situazione sportiva e distinguendo il progresso atletico dai contorni di costume, possiamo tentare alla fine anche un’analisi critica più generale dei rapporti fra le varie componenti dell’alpinismo. Esistono aspetti negativi nell’evoluzione dell’alpinismo, che riguardano soprattutto lo spazio -fisico e morale – in cui l’alpinismo si svolge. Sono le considerazioni sull’ecosistema uomo-montagna nel suo complesso, che si prestano a una specie di esame di coscienza.
Cosa possiamo realisticamente rimproverare, esaminando la situazione attuale, alle generazioni che ci hanno preceduto? Non certo di aver affrontato problemi alpinistici sempre più audaci o di essere andati in Himalaya a esplorare gli Ottomila, ma per esempio di aver ingenuamente facilitato troppo l’accesso alla montagna, con un impegno visto a volte quasi in funzione di un proselitismo che necessitava la costruzione di rifugi e l’impianto di funivie.
E per cosa può essere biasimata la mia generazione? Non certo per aver tolto l’alone di eroismo intorno alle grandi imprese del passato o per aver aperto vie durante la stagione invernale, ma sicuramente per aver riempito la montagna di rifiuti, di strade, di bivacchi, per aver lasciato costruire una via ferrata dopo l’altra.
E l’ultima generazione è senza peccato?
Nemmeno lei, ha solo il vantaggio di poter ancora correggere certi atteggiamenti e speriamo che lo faccia. Perché non le si può ovviamente rimproverare di saper arrampicare fin sul X grado, né di vestirsi con tute lucide o di salire un Ottomila di corsa, ma certamente di tollerare l’assenza di solidarietà, i furti tra alpinisti e l’invasione irrispettosa dei luoghi scalata.
Questi esempi un po’ generici sottolineano comunque il fatto che lo spazio fisico e morale del nostro terreno di gioco, dell’ecosistema uomo-montagna, si è andato sempre più deteriorando negli ultimi cento anni. Proseguendo in questo senso, la fine dell’alpinismo si potrebbe configurare nella banalizzazione eccessiva del gioco e nella degradazione irrimediabile del suo spazio.
In cento anni saremmo dunque passati dall’avventura privilegiata alla banalizzazione, per non parlare dell’attività regolamentata e commercializzata? In cento anni avremmo dunque sciupato da incoscienti l’ambiente della montagna?
Che ci piaccia o no, anche questi sono interrogativi con cui l’alpinismo dovrà fare i conti e che un Club Alpino non potrà ignorare.
D’altra parte, per fortuna, l’alpinismo si è sempre dimostrato poliedrico e vitale. Le realtà citate condizionano solo in proporzione ancora modesta l’alpinismo individuale dei molti appassionati della montagna. Vale la pena tuttavia non isolarsi dall’alpinismo di punta, seguire attentamente le sue espressioni estreme nei vari campi, perché ognuno di noi, giovane o anziano, principiante o esperto, possa contribuire con conoscenza di causa alla gestione dell’alpinismo nelle sue varie forme come bene comune. Ricordiamoci che ciò è possibile solo se siamo consapevoli della situazione di sviluppo storico in cui viviamo.
… E adesso continua tu!
Piccola biografia di Silvia Metzeltin Buscaini (da https://it.wikipedia.org/wiki/Silvia_Metzeltin_Buscaini)
Silvia Metzeltin è nata a Lugano nel 1938 da padre tedesco e madre originaria di Pola. Dopo il suo apprendistato mercantile ha studiato geologia all’Università di Milano. Al termine degli studi, nel 1972, ha lavorato per dieci anni come assistente presso l’Istituto di Geologia e ha iniziato un dottorato di ricerca. Successivamente ha collaborato, in qualità di giornalista indipendente, con Radiotelevisione svizzera di lingua italiana.
All’età di 14 anni ha iniziato a praticare l’alpinismo sulle montagne del Canton Ticino, una passione che ha condiviso con suo marito Gino Buscaini. Tra le sue scalate figurano percorsi difficilissimi su roccia e ghiaccio e prime ascensioni su Alpi, Dolomiti, Himalaya (in Zanskar e Garhwal), negli Stati Uniti, sulle Ande e in Patagonia. In Patagonia ha partecipato a sedici spedizioni. Insieme al marito, Silvia Metzeltin ha documentato la storia, la geografia, la fauna, la flora e anche la storia alpinistica della Patagonia.
Silvia Metzeltin è membro dell’Oesterreichischer Alpenverein, del Groupe de Haute Montagne, dell’Alpine Club britannico e di Rendez-vous Hautes Montagnes, un’associazione internazionale di alpiniste. E’ stata la prima donna a essere ammessa nel Club Alpino Accademico Italiano. Si è impegnata per l’emancipazione delle donne e per i principi etici nell’alpinismo. È stata delegata per il CAI all’UIAA (Unione Internazionale Associazioni Apinistiche).
È autrice e coautrice di numerosi libri e film. Ha raccontato la sua vita nell’autobiografia Alpinismo a tempo pieno (Dall’Oglio, Milano, 1984). Nel 1996 è stata premiata con il King Albert Mountain Award. Altri suoi libri: Geologia per alpinisti, Zanichelli, Bologna, 1986; Patagonia: terra magica per alpinisti e viaggiatori, con Gino Buscaini, Dall’Oglio, Milano, 1987; Dolomiti: il grande libro delle vie normali, con Gino Buscaini, Zanichelli, Bologna, 1996; Patagonien: Traumland für Bergsteiger und Reisende, con Gino Buscaini, Bruckmann, München, 1990; Dolomiten: die 100 schönsten Touren, con Gino Buscaini e Gaston Rébuffat. Carta, Pforzheim, 1984-1988.
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