L’alpinismo non si ferma – 1 (1-2)
di Silvia Metzeltin Buscaini (1986)
Nel 1986, scrissi queste considerazioni sullo sviluppo dell’alpinismo. Pubblicandolo ora, posso lasciare lo stesso tìtolo perché in effetti l’alpinismo non si è fermato mai, fin dal 1786 quando fu calcata per la prima volta la vetta del Monte Bianco.
Cent’anni dopo, nel 1886 si era evoluto in forma più simile a quella del ventesimo secolo.
Ma quel “facciamo il punto” del 1986 sarà valido ancora considerato a quasi trentanni di distanza?
L’alpinismo non si ferma: ma dove sta andando?
Nel 1886 gli scalatori su roccia superavano già in montagna difficoltà definite oggi di quarto grado: in quell’anno Georg Winkler salì alla Cima della Madonna (Pale di San Martino) per il camino sud. Per non parlare dei viaggiatori, che già avevano salito con piccozze rudimentali e senza ramponi molte fra le maggiori cime delle Alpi. Nel 1886 non si indietreggiava nemmeno di fronte alle difficoltà ambientali; sempre in quell’anno i fratelli Sella con quattro guide compiono la prima ascensione invernale della punta Gnifetti al Monte Rosa. Solo un anno più tardi Harold W. Topham riuscì a salire con Aloys Supersaxo sulla stessa punta per la cresta Signal.
Anche le montagne fuori delle Alpi erano già entrate nel mirino degli alpinisti. Nel 1829 venne salito l’Ararat 5156 m e nel 1805 i fratelli Schlagintweit tentarono l’Abi Gamin 7355 m giungendo sino a quota 6750 m.
I club alpini europei nacquero uno dopo l’altro nella seconda metà del XIX secolo, nella scia delle imprese alpinistiche e delle esplorazioni delle catene montuose. Nel 1857 venne fondato l’Alpin Club inglese, nel 1862 il Club Alpino Austriaco, nel 1863 quello svizzero e quello italiano, nel 1874 quello francese che fu il primo ad ammettere anche le donne tra i propri soci.
Le ricorrenze non servono solo a richiamare un passato per non scordarlo, oppure per valutare l’entità di un progresso, ma sono occasioni per collocare in una dimensione di evoluzione storica più generale le imprese di ieri e quelle di oggi. Nel nostro caso si può anche cercare di vedere la storia dell’alpinismo non solo come una successione più o meno slegata di date e di ascensioni, ma indagare per scoprire il filone che colleghi gli avvenimenti.
A parte il fatto che una storia esauriente dell’alpinismo potrebbe ormai riempire qualche volume, nel quadro di una carrellata generale su cent’anni bisogna per forza tralasciare qualcosa. Come verranno sorvolate molte imprese ragguardevoli, così saranno citati solo alcuni nomi per costituire un più facile riferimento alla memoria del lettore, senza per questo scordare che in altra sede tali dimenticanze sarebbero scorrettezze.
Nell’ambito di questa ricapitolazione vedremo quindi di individuare le linee di sviluppo considerando solo qualcuna delle tappe più significative, per tirare un po’ i fili e fare il punto della situazione odierna. Perché molto è mutato negli ultimi cento anni di alpinismo. Perfino le montagne stesse, non solo da un punto di vista geologico (erosione, frane, ritiro dei ghiacciai) ma per l’intervento umano (strade, funivie, rifugi, vie ferrate). Soprattutto sono cambiate le mentalità, è cambiato l’atteggiamento di fronte alla montagna.
Tralasceremo in questa sede l’analisi delle motivazioni che spingono verso la pratica dell’alpinismo, cioè i famosi “perché si va in montagna”? Si tratta di valori individuali, deformabili da interpretazioni soggettive e difficilmente generalizzabili, che probabilmente hanno subito poche trasformazioni nel corso della storia poiché l’alpinismo non appare pensabile senza individualismo romantico alle sue radici.
Ci rivolgeremo invece a considerare i cambiamenti di mentalità e il progresso sportivo, che si riflettono nel modo più che nell’essenza, più che nella “filosofia” personale dell’andare in montagna, cioè i cambiamenti connessi con il rapporto tra l’uomo, l’impegno sportivo e la tecnologia.
Naturalmente – e anche qui va sfatato un luogo comune – l’alpinismo non si sviluppa del tutto per conto suo sotto la campana di vetro, ma come ogni attività umana è immerso nel contesto storico e sociale di un’epoca: risente delle guerre e del benessere economico, è influenzato dalla disponibilità di mezzi di trasporto e di comunicazione di massa. Inserire un’analisi del collegamento ci porterebbe tuttavia troppo lontano in questa sede; ma sarà utile tenerlo presente come riferimento implicito per le nostre considerazioni.
Il progresso tecnico e tecnologico, che ha contribuito in forma determinante al cambiamento della mentalità nel modo di vivere l’alpinismo, ha portato anche a una differenziazione sempre più accentuata fra le singole attività praticate sulla montagna. Così anche in una ricapitolazione storica vale oggi la pena considerare tre filoni distinti, sviluppatasi a partire da un’attività globale unica: alpinismo su roccia, su ghiaccio, di spedizione.
Di regola, questi filoni continuano a completarsi ancora nella pratica individuale odierna, ma la suddivisione permette osservazioni più mirate.
Un cenno a parte merita un particolare aspetto del cambiamento nelle mentalità, un po’ al di fuori di quanto schematizzato in precedenza ma che non va scordato perché storicamente questa rappresenta un’evoluzione importante. Si tratta dell’alpinismo senza guide, sbocciato più o meno contemporaneamente alla fondazione del club alpini.
Alpinismo di punta s’intende, perché le guide alpine lavorano tutt’oggi, ma ben di rado in una situazione di rapporto guida-cliente si sono poi compiute imprese d’avanguardia.
Le eccezioni esistono sempre, basti pensare alle realizzazioni di Angelo Dibona con i fratelli Max e Guido Mayer. Invece fino a cento anni fa le grandi ascensioni compiute con l’aiuto di guide erano la norma, benché fossero spesso i signori clienti cittadini ad avere non solo i soldi, ma anche le idee e le iniziative. Il passaggio all’alpinismo senza guide ha implicato una maggiore preparazione atletico-sportiva dei cittadini, qualità che per finire ha preso il sopravvento nel determinare lo sviluppo dell’alpinismo autonomo.
Alpinismo su ghiaccio
Trattare a parte l’alpinismo su ghiaccio potrebbe anche apparire come un isolamento forzato, tanto più che soprattutto agli albori dell’alpinismo la montagna con il maggior fascino era di solito la più alta, generalmente coperta di neve e di ghiaccio, e quindi alpinismo era quasi equivalente di recensione su ghiaccio.
Se tuttavia cerchiamo di analizzare l’evoluzione dell’alpinismo, la suddivisione a un suo significato abbastanza preciso. In questo settore infatti l’influenza dello sviluppo tecnologico è stato particolarmente grande, quando non addirittura determinante per il progresso sportivo.
È anche interessante notare come a volte ci sia stata una chiusura mentale nei confronti della tecnologia che ha frenato realizzazioni alpinistiche di punta, come il rifiuto di accettare l’adozione di novità nella struttura degli attrezzi. Significativo in questo senso è il caso dell’ENSA (École Nationale de Ski et Alpinisme), peraltro rinomata come istituzione modello nel suo genere, dove la famosa guida Armand Charlet, virtuoso del ghiaccio sui ramponi a dieci punte che richiedono l’appoggio di tutto il piede con relativo piegamento della caviglia, aveva codificato quel tipo di ramponi e di tecnica come il solo valido. Al rogo quindi i perversi ramponi a punte avanzate o a dodici punte! Lo strano è che non ci fu opposizione, che guide come André Contamine si fecero paladine del verbo anche dopo il ritiro di Charlet. Detto per inciso, a Charlet questa mentalità conservatrice fece perdere la prima ascensione alla parete nord delle Grandes Jorasses, ma questa è un’altra storia. Ancora nel 1955 Philippe Cornuau e Maurice Davaille salirono con ramponi a dieci punte la parete nord delle Droites. René Desmaison e Robert Flematti toccarono il limite raggiungibile con quegli attrezzi aprendo nell’inverno 1968 la via al Linceul delle Grandes Jorasses.
Ma torniamo agli inizi. Già nel primo centenario di vita dell’alpinismo le scale di ferro gettate sopra i crepacci e gli alpenstok erano di uso comune; poi venne la piccozza derivata dall’ascia per tagliare scalini del ghiaccio. Con queste piccozze che oggi consideriamo rudimentali, senza l’uso dei ramponi, vennero aperte tra l’altro entro la fine del XIX secolo le grandi vie classiche ancora attualmente impegnative del gruppo del Bernina, come la Biancograt al Bernina stesso, il Naso dello Scerscen e poi la parete nord-est del Piz Roseg grazie a Christian Klucker e Ludwig Norman-Neruda.
Gli stessi percorsero nel 1890 la parete nord dei Lyskamm. Un primato di “scalinatura” era già stato raggiunto nel 1879, quando Alois Pinggera e Peter Reinstadler, le guide di Baptist Minnigerode, avevano intagliato nel ghiaccio 1500 gradini per superare la parete nord del Gran Zebrù.
Oskar Eckenstein presentò nel 1908 la più importante delle innovazioni per l’alpinismo su ghiaccio: un paio di ramponi a dieci punte. Ma sembra che gli alpinisti non si siano resi conto subito degli enormi vantaggi dei nuovi attrezzi. Gli inglesi considerarono “poco sportivo” sostituire i chiodi dei loro scarponi con quell’insieme di chiodi più lunghi. In Francia invece i ramponi si adottarono più facilmente, ma il loro uso non si generalizzò che molti anni dopo. Comunque vennero utilizzati nel 1926 da Jacques Lagarde e Henry de Ségogne per risalire il canalone del ghiacciaio sospeso di Blaitière alla Brêche du Caiman; questo itinerario, tanto ripido da richiedere allora il taglio di tacche anche per far posto alle ginocchia, non verrà ripreso che nel 1972 con l’ausilio di arnesi più moderni. Nel 1931 André Roch e Robert Gréloz salirono la parete nord dell’Aguille de Triolet. La modificazione intervenuta nella valutazione complessiva di questa via mette in evidenza quanto le difficoltà da superare dipendono dallo sviluppo degli attrezzi:
1931, prima ascensione scalinando: ED
1960, ramponi a punte avanzate: TD
1980, ramponi a 12 punte e piolet-traction: D
A nord delle Alpi, i nuovi attrezzi vennero considerati con minor diffidenza. Nel 1924 sulla parete nord-ovest del Gross Wiesbachhorn nelle Alpi austriache Willo Welzenbach introdusse l’uso del chiodo da ghiaccio per superare un tratto inclinato di 75°. Welzenbach, che dovette dedicarsi al ghiaccio quasi suo malgrado non potendo più arrampicare su roccia per un’artrosi al gomito destro, prima di morire nel 1934 al Nanga Parbat risolse alcuni fra i più bei problemi di ghiaccio delle Alpi: via diretta alla parete nord della Dent d’Hérens (1925) e numerosi itinerari sulle pareti ghiacciate dell’Oberland Bernese.
Nel 1932 Laurent Grivel nella sua officina di Courmayeur introdusse un’innovazione rivoluzionaria: piegò in avanti di 45° le due punte anteriori dei ramponi. I nuovi ramponi, il cui uso implicava un cambiamento della tecnica, stentarono ad affermarsi, benché fossero stati adottati subito dai tedeschi alla parete nord dell’Eiger. Andreas Anderl Heckmair nel 1938 alla parete dell’Eiger aveva usato anche una piccozza più corta, dal becco ricurvo di fabbricazione artigianale, in un certo senso precorritrice delle piccozze attuali.
Nel secondo dopoguerra, miglioramenti e innovazioni, anche a livello artigianale, vennero prevalentemente introdotti da austriaci e tedeschi, come il martello-piccozza e il “pugnale da ghiaccio” usati da Kurt Diemberger negli anni ’50, senza tuttavia comportare grossi mutamenti nella tecnica.
Le novità nel settore arrivarono all’improvviso dalla Scozia, dove d’inverno pareti e canali di montagne mansuete in veste estiva si tappezzano di ghiaccio e costituiscono una vera sfida per gli alpinisti. Nel 1957 Tom Patey, Hamish Mclnnes e Graeme Nicol salirono lo Zero Gully sul Ben Nevis, un colatoio che presenta tratti inclinati di 70°. Gli scozzesi sono stati i primi ad adottare senza riserve il nuovo rampone rigido, a dodici punte invece del rampone articolato entrato in uso sulle Alpi. Lo sviluppo dell’attività portò a istituire una speciale “scala scozzese” per valutare le difficoltà su ghiaccio.
Nel 1972 britannici Rab Carrington e Alan Rouse applicarono le tecniche scozzesi, comprendenti l’uso di un martello con lama inclinata di 45°, per compiere la prima ascensione invernale della parete nord dell’Aiguille de Pélerins.
Un francese emigrato negli Stati Uniti d’America, Yvon Chouinard, si lanciò nella produzione industriale di nuovi attrezzi e nel corso degli anni ‘70 la loro produzione permise un enorme balzo in avanti nelle possibilità di ascensione su ghiaccio. Non è che i “vecchi” non avessero saputo vedere i problemi alpinistici: semplicemente non erano risolvibili con il materiale dell’epoca. Il passaggio che Albert F. Mummery aveva già tentato nel 1892 alla parete nord dell’Aiguille du Plan è stato percorso solo nel 1976 da Jean-Marc Boivin!
Nell’inverno 1974, durante l’ascensione al Couloir nord dei Drus (quattro giorni per 700 m), nacque una tecnica che doveva rivoluzionare un’altra volta l’alpinismo su ghiaccio. Walter Cecchinel e Claude Jäger utilizzarono piccozze dal becco ricurvo, che si possono piantare nel ghiaccio, impugnandole per issarsi e appendersi ad esse nelle soste. Questa tecnica divenne nota con la denominazione di piolet-traction. Nella seconda metà degli anni Settanta la sua applicazione sistematica, facilitata dai continui miglioramenti apportati agli attrezzi fabbricati ormai non più artigianalmente ma da industrie in concorrenza fra di loro, ha permesso la realizzazione di itinerari impensabili solo pochi anni prima. Dai canaloni sempre più ripidi si passa ad affrontare strettissimi colatoi, le famose “goulotte” dei francesi; si salgono direttamente i seracchi prima evitati con cura e infine ci si innalza lungo le stalattiti di ghiaccio delle cascate. Questo nuovo periodo alpinistico è iniziato nel 1975 con la salita del Supercouloir al Mont Blanc du Tacul per opera di Boivin e Patrick Gabarrou e ha portato alla scoperta di molti nuovi itinerari in luoghi dove da anni si diceva “non c’era più nulla di nuovo da fare”.
Questo tipo di scalate estreme su ghiaccio non è esclusivo dell’Europa. In Canada, in Alaska, in Nuova Zelanda, le ascensioni di grandi pareti tappezzate di ghiaccio si sono moltiplicate negli ultimi anni. Anche in Himalaya, le nuove tecniche e il nuovo materiale hanno permesso di affrontare pareti di ghiaccio e di misto sempre più impegnative. Sono da ricordare fra queste la parete sud-est del Dhaulagiri (Alex Mclntyre, René Ghilini, Wojciech Kurtyka nel 1981) la parete sud dell’Annapurna (via nuova dei catalani Enric Lucas e Nil Bohigas nel 1984) la parete ovest del Gasherbrum IV (Robert Schauer e Kurtyka nel 1985). Riprenderemo questi tre esempi di imprese quando ci soffermeremo sull’alpinismo di spedizione, perché si prestano anche ad altre considerazioni.
E quali sono le prospettive per il futuro dell’alpinismo su ghiaccio? Al momento sembra che si possa solo ancora perfezionare il materiale, per esempio dotando i martelli piccozza di lame intercambiabili a seconda del tipo di ghiaccio, e rendere ottimale il loro impiego tramite un allenamento sempre più specifico all’uso dell’attrezzo.
Ma non è mai detta l’ultima parola e non si deve certo escludere la possibilità di un’ulteriore rivoluzione.
Alpinismo su roccia
Torniamo indietro al 1886 anno in cui Winkler salì alla Cima della Madonna superando passi di IV grado. Nell’anno successivo lo stesso Winkler salì la Torre del Vajolet che porta il suo nome, è una via che si continua ritenere di IV grado anche oggi. È importante riuscire a definire le difficoltà superate in alcune ascensioni caratteristiche o famose e a quantificare i progressi, proprio per poter fare qualche confronto.
Nel 1899 venne salito per la prima volta il Campanile Basso del Brenta, lungo un itinerario molto esposto e con parecchi tratti di IV grado. Nel 1908 sullo stesso campanile Rudolf Fehrmann salì il grande diedro dello Spallone superando passi di quarto grado superiore.
Agli inizi del nostro secolo, tre erano le grandi scuole di arrampicata: Dresda, Vienna e Monaco. Fehrmann era l’esponente di spicco della prima, che sui torrioni di arenaria della Sassonia aveva già portato l’arrampicata libera a livelli molto alti. La scuola di Dresda aveva anche istituito regole generali, dovute inizialmente più alla preoccupazione di non rovinare la friabile arenaria dei torrioni che all’idea di fissare norme etiche per la scalata.
Di fatto tuttavia queste regole costituivano un obbligo morale: solo chi apriva vie nuove aveva il diritto di piantare chiodi e i ripetitori dovevano arrangiarsi con il materiale lasciato in posto. Venivano usati nodi di corda da incastrare nelle fessure, i precursori dei dadi a incastro odierni, che però restano proibiti nella DDR per salvaguardare l’integrità della roccia (ricordiamo che lo scritto è antecedente alla fusione delle due Germanie, NdR). La scuola di Dresda mantenne le sue tradizioni e anche in epoche storiche successive ebbe rappresentanti di valore come Fritz Wiessner e Dietrich Hasse.
Un’altra scuola, i cui connotati sbiadirono invece maggiormente con il passare del tempo, nonostante fuoriclasse come Fritz Kasparek, fu quella di Vienna. Paul Preuss, nato proprio nel 1886, ne fu l’esponente più famoso benché vivesse a Monaco. Egli aprì vie anche in solitaria e superò passaggi di V grado, come sulla parete est del Campanile Basso e sulla Cima Piccola di Lavaredo. Si era autoimposto una regola personale severissima: non si ha il diritto di salire per dove non si riesce a scendere senza l’uso della corda.
Senza particolari regole scalava invece Hans Dülfer, il fuoriclasse della Scuola di Monaco dove Otto Herzog aveva introdotto il moschettone e Hans Fiechtl il chiodo da roccia. Nel 1912 salì la parete est del Fleischbank (V grado), e risolse il passaggio chiave mediante una traversata alla corda. Nel 1913 aprì da solo un itinerario lungo la fessura sud della Fleischbank, che Emilio Comici considererà come la più difficile via aperta da un solitario, e nello stesso anno attuò il suo capolavoro sulla parete ovest del Totenkirchl, valutata di V+.
Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale erano quindi state realizzate in montagna vie con passaggi di V+. Nei sessant’anni successivi il progresso nel superamento delle difficoltà tecniche pure sarà di un grado soltanto e per molto tempo il VI grado superiore verrà ritenuto il limite massimo delle possibilità umane, così come Welzenbach lo aveva codificato nella sua scala di valutazione introdotta nel 1926.
Ma vediamo quali sono alcune delle tappe più significative di questo progresso nel primo dopoguerra. Felix Simon e Roland Rossi tracciarono nel 1924 una via sulla parete nord del Pelmo che ebbe subito la fama di essere la più difficile delle Dolomiti. Questa fama durò un anno solo, perché nel 1925 Emil Solleder e Gustav Lettenbauer, aprendo un itinerario diretto sulla parete nord-ovest della Civetta, spostarono il limite ancora un poco oltre. Il gruppo della Civetta divenne il “regno del sesto grado” e tale rimarrà fino a quando negli anni ‘70 farà capolino il settimo grado, quando verrà dimostrata l’inconsistenza del limite posto nella scala di Welzenbach e il fascino del sesto grado declinerà.
Negli anni ‘30, durante i quali l’alpinismo classico conobbe le sue espressioni migliori, in tutte le Alpi Orientali e non solo in Civetta si realizzarono i grandi itinerari che oggi ancora rappresentano un banco di prova per gli scalatori. Nel 1930 Comici superò con Angelo e Giuseppe Dimai la contesa parete nord della Cima Grande di Lavaredo. Nel 1937 la scalò da solo in tre ore e tre quarti, prestazione che anche dopo quasi cinquant’anni non è certo ancora alla portata di tutti. Nel 1935 riuscì a Riccardo Cassin la prima ascensione della pur contesa parete nord della Cima Ovest di Lavaredo, e sorvoliamo sulle numerose vie alla Marmolada (Giovan Battista Vinatzer ed Ettore Castiglioni), in Brenta (Bruno Detassis), in Civetta (Raffaele Carlesso, Cassin, Alvise Andrich, Attilio Tissi) e via dicendo.
Poi il mirino venne puntato sulle grandi pareti delle Alpi Occidentali, dove si instaurò, complice anche la tensione nazionalistica di quegli anni, una vera e propria gara per le prime ascensioni più ambite.
Era già stata salita nel 1931 la parete Nord del Cervino, per opera dei fratelli Franz e Toni Schmid. Per le altre due della trilogia, cioè le pareti nord dell’Eiger e delle Grandes Jorasses, la lotta fu accesa e anche drammatica. Alla parete nord della Punta Croz delle Jorasses la spuntò Rudolf Peters nel 1935 (con Martin Meier), mentre nel 1938 sull’attiguo sperone della Walker Cassin aprì con Gino Esposito e Ugo Tizzoni l’itinerario che si può considerare come il capolavoro della sua brillante carriera alpinistica. Pure nel 1938 cedette a Heckmair (con Ludwig Vörg, Heinrich Harrer e Kasparek) la parete nord dell’Eiger. Interessante è constatare che anche sulle pareti di misto i successi arrisero agli scalatori delle Alpi Orientali, che avevano una preparazione tecnica su roccia particolarmente curata. Così l’alpinismo, prima di restare travolto come tante altre attività dalle tragedie della Seconda Guerra Mondiale, era arrivato a una fase culminante che sarà difficile riscontrare tanto marcata un’altra volta in futuro, benché l’apice della sua espressione classica non venga raggiunto che trent’anni dopo.
Nel secondo dopoguerra mentre nelle Dolomiti proseguiva la ricerca di itinerari lungo linee morfologiche aggettanti e non ancora sfruttate, come il Gran Diedro della Cima Su Alto salito da George Livanos e Robert Gabriel nel 1951 con largo impiego di cunei e chiodi, si trasferirono tecniche nuove anche nelle Alpi Occidentali. Prima espressione di questo trasferimento fu la via aperta da Walter Bonatti e Luciano Ghigo sulla parete est del Grand Capucin nello stesso 1951. Bonatti è stato il personaggio più significativo tra il 1950 e il 1965, perché non si limitò a ripetere itinerari ma subito mirò a un salto di qualità nella concezione. Sul Petit Dru, dove nel 1952 Guido Magnone e i compagni Lucien Bérardini, Adrien Dagory e Marcel Lainé avevano aperto nella parete ovest un grandioso itinerario, che i francesi definirono forse un po’ prematuramente come la “svolta dell’alpinismo”, Bonatti salì nel 1955 da solo e per primo lo spigolo sud-ovest. Numerose prime ascensioni e varie prime invernali come quella alla parete nord delle Grandes Jorasses e dell’Eiger alla parete nord-ovest della Civetta, caratterizzarono l’alpinismo di punta di quegli anni. Intanto, mentre gli alpinisti estremi si dedicavano all’apertura di nuovi itinerari o alla ripetizione di vie difficili in solitaria, un numero sempre crescente di alpinisti arrivò a ripetere i grandi itinerari degli anni ’30, fino a che l’aureola del mistero, eroismo e soggezione che li circondava si attenuò e scomparve, lasciando il posto a valutazioni tecniche più obiettive, emergenti dal velo del fascino perduto o ridimensionato.
Una più profonda svolta dell’alpinismo si stava davvero delineando, ma senza che si intravedesse la via per la quale sarebbe proseguito lo sviluppo.
Nel 1958 un episodio sollevò molte discussioni nel mondo alpinistico. Sulla parete nord della Cima Grande di Lavaredo, Hasse e i compagni Lothar Brandler, Jörg Lehne e Sigi Löw aprirono una via nuova diretta, con l’impiego di 180 chiodi di cui 15 a pressione, tuttora considerata di sesto e A2 e A3. Furono i chiodi a pressione a sollevare le contestazioni e ne derivarono prese di posizione contrarie molto radicali; così per vent’anni l’impiego dei chiodi a pressione rimase limitato ad alcune vie, ritenute del resto, a parte la Diretta alla Grande di Hasse di valore alpinistico discutibile. Ne derivò anche un’ondata di schiodature sistematiche di parecchi itinerari, però tutto sommato antistoriche in Europa e recanti danni notevoli alle fessure sugli itinerari.
Nel 1965 dopo aver aperto da solo d’inverno una via nuova sulla parete Nord del Cervino, Bonatti dichiarò chiusa non solo la sua carriera alpinistica ufficiale ma anche un periodo dell’alpinismo. Ciò che poteva sembrare una dichiarazione presuntuosa esprimeva una verità, benché allora fosse difficile individuarne l’essenza.
Era in arrivo il 1968 e con esso si andava instaurando un fondamentale mutamento nei costumi. Nell’alpinismo questo periodo non è contrassegnato da rivoluzioni, ma da incertezze e qualche volta da crisi: per la prima volta nella storia sono messi in dubbio in così larga misura i valori dell’alpinismo, all’interno dell’ambiente stesso dei praticanti. Ne fanno un po’ le spese gli alpinisti di punta del momento: grandi imprese – basti pensare alla prima solitaria della via Cassin alla Punta Walker effettuata da Alessandro Gogna – non riscuotono più il riconoscimento che avrebbero ricevuto solo pochi anni prima. Il merito della prestazione sportiva si stempera nei dubbi esistenziali, nonostante le sempre maggiori possibilità pubblicitarie per l’attività alpinistica.
Tuttavia la spinta verso il perfezionamento non si esaurisce e tende a esprimersi in ascensioni solitarie di alta difficoltà tecnica e nell’apertura di vie nuove in condizioni sfavorevoli come quelle invernali. In questo periodo inizia la sua affermazione anche Reinhold Messner, che ha al suo attivo prime solitarie di alta classe come quelle alla via Philipp-Flamm della punta Tissi e alla parete nord delle Droites. A un paio di altri fuoriclasse, come Enzo Cozzolino, questo tipo di alpinismo ad alto rischio costerà la vita ed è probabile che l’elevato grado di rischio accettato abbia impedito in quel momento la piena attuazione del salto tecnico per cui i tempi erano maturi. Sta di fatto che qualche via di Messner e Cozzolino riceverà più tardi il riconoscimento di passaggi di settimo grado che i primi salitori non vollero o non poterono definire tali.
Un vento nuovo arriva nei primi anni ‘70 dagli USA, dove l’alpinismo libero da tradizioni si è evoluto più liberamente. Questo vento porta con sé anche i riflessi culturali specifici delle rivolte studentesche e sociali di quegli anni, compresi aspetti negativi come quello della droga, ma la realtà più consistente e suscettibile di sviluppi si riferisce a una forma di più disinibita della scalata, svincolata a volte anche dal concetto di cima e resa più sicura dall’uso di protezioni diversificate e sofisticate.
Ciò ha permesso un salto di qualità nel superamento delle difficoltà tecniche, facilitato dalla mentalità differente che già risalta dalla scala delle difficoltà USA, concepita fin dagli inizi con sistema decimale a progressione aperta.
Quando anche in Europa vengono accettati questi cambiamenti di concezione, l’alpinismo decolla in una direzione imprevista. Si smorzano le forme ad alto rischio ed esplode la tendenza a una preparazione atletica metodica e razionale, portata al limite senza conseguenze letali grazie all’ausilio di buone protezioni durante la scalata. Gli effetti solo spettacolari: in breve tempo il vecchio limite del sesto superiore viene infranto, non solo, ma il progresso porta gli arrampicatori in poco più di 10 anni a misurarsi con difficoltà fino all’VIII grado mentre per sessant’anni si era rimasti tra il V+ e il VI grado.
Si riduce notevolmente in questi periodi anche l’aspetto eroico dall’alpinismo. Se l’accettazione del rischio non è da tutti, la preparazione atletica è invece alla portata di chiunque sia motivato e un numero sempre maggiore di scalatori riesce a superare le difficoltà che pochi anni prima sembravano proibitive ai migliori. Questo fatto ha comportato anche una notevole svalutazione di itinerari ritenuti in precedenza molto impegnativi, e una scarsa durata nel tempo del prestigio dovuto a una prestazione eccezionale. Va riconosciuto che in questo quadro resistere sulla cresta dell’onda nell’alpinismo diventa estremamente difficile e bisogna dare atto a Messner di essere riuscito con intelligenza a passare da un’attività di punta all’altra mantenendosi al vertice per oltre 15 anni.
Bisogna comunque mettere in chiaro le differenze che si sono istaurate in seguito e che stanno cambiando connotazione all’alpinismo: l’accettazione e la ricerca di più protezioni hanno permesso a molti scalatori di avvicinarsi maggiormente al proprio limite atletico (non psico-fisico) e l’arrampicata sportiva odierna si distingue dall’arrampicata libera classica non solo perché vi vige la regola di non usufruire delle protezioni per la progressione, ma anche per la presenza di una congrua quantità di queste protezioni rassicuranti.
Così negli anni ’80 è caratteristica in Europa la ricomparsa del chiodo a pressione (con il nome di spit) che in precedenza i puristi, Bonatti e Messner in testa, avevano bollato a fuoco fino a definirlo “assassinio dell’impossibile”. Ben pochi si ricordano delle polemiche accese negli anni ’60 e oggi l’etica consiste nel piantare il chiodo a pressione ma cercare di passare senza servirsene per la progressione.
Interessante è constatare che mentre in Europa le resistenze all’introduzione generalizzata del chiodo a pressione sono state molto tiepide, negli USA si guarda attualmente con scetticismo a questo sviluppo che viene considerato come forma decadente del gioco. Negli USA, dove l’evoluzione è stata innescata più da preoccupazioni ambientali che stilistiche, poiché le continue chiodature e schiodature stavano rovinando irrimediabilmente le fessure della roccia, rimane quale concetto etico fondamentale quello dell’autonomia della cordata che dovrebbe trovare un itinerario il più possibile sgombro da protezioni in loco e arrangiarsi a mettere le proprie, naturalmente soft quando possibile.
In Europa la prima via di VII aperta in montagna e definita tale è la Pumprisse alla Fleishbank, di Reinhard Karl e Helmut Kiene nel 1977. Per ora la maggior parte delle vie di difficoltà superiore al VI grado si trovano sulle pareti arrampicabili lontano dalle montagne, dove condizioni ambientali sono più favorevoli alle prestazione ad alto livello. Ma già sono state trasportate anche in alta montagna le nuove tecniche e abilità e fra le realizzazioni nelle Alpi Occidentali risaltano quelli di Michel Piola, Pierre-Alain Steiner e dei fratelli Yves e Claude Remy. Nelle Alpi Orientali, spiccano le nuove vie alla Marmolada aperte da Heinz Mariacher e Maurizio Giordani, dove ambedue hanno associato alla prestazione in gradi superiori anche una scarsità di protezioni che li ricollega all’arrampicata libera classica.
Non vanno nemmeno scordate le grandi prestazioni che mirano all’espressività del gesto atletico, portati avanti da Patrick Berhault e Maurizio Manolo Zanolla e soprattutto da Patrick Edlinger, anche in scalata senza corda su difficoltà superiori al sesto grado.
Helmut Kiene sulla Pumprisse, 1977
Il grande balzo nel superamento di difficoltà sempre maggiori su roccia ha comunque costituito l’elemento più vistoso ed ha introdotto sempre maggiore specializzazione, portando l’odierna arrampicata sportiva, che si sta configurando come disciplina a sé stante. Questa è una novità assoluta nella storia dell’alpinismo, che mostra aspetti ambivalenti legati soprattutto a due fatti:
1) che da chi inizia con quella viene ritenuta disciplina essenzialmente separata dall’alpinismo, mentre per l’alpinista già affermato la pratica rimane parte integrante dall’alpinismo stesso;
2) che dal territorio delle palestre naturali e artificiali, dalle pareti di fondovalle e delle falesie marine, vengono trasportati sulla montagna vera e propria una parte dei metodi quali chiodatura dall’alto, chiodi a pressione, vie che non giungono in vetta, che vengono recepiti da molti come trasgressione di una specie di codice d’onore dell’alpinismo.
Se la divergenza tra le specializzazioni si accentuerà, la sovrapposizione di due forme di gioco sullo stesso terreno potrebbe creare dei problemi. Ma questo si vedrà in futuro (è quello che spesso si sta verificando oggi, NdR).
Per ora in montagna si sta affermando un’altra linea di sviluppo, quella della velocità del concatenamento di itinerari, in cui eccelle Christophe Profit. L’elicottero per i trasferimenti, non stilistico, sta per essere sostituito da deltaplani e paracadute direzionali.
Questa linea di sviluppo sta per essere esportata in Himalaya, dove nel 1985 Eric Escoffier, contravvenendo è vero alle disposizioni del governo pakistano, ha assalito tre “Ottomila” in una sola stagione.
Ma si potrebbe già considerare sconfitto dallo svizzero Erhard Loretan, che ne ha saliti tre in soli trentacinque giorni.
Un’altra novità, ripresa dall’alpinismo collettivo sovietico dove è praticata da tempo, consiste nell’introduzione in Europa occidentale di gare di arrampicata. Nel 1985 si è passati dagli incontri di arrampicata informali dei primi anni ’80, con esibizioni soprattutto stilistiche, alla competizione sponsorizzata con premi in denaro come a Bardonecchia nel 1985.
Nasce nel 1986 in Francia la prima federazione di arrampicata dell’Europa occidentale, che probabilmente si strutturerà in associazione sul tipo delle federazioni di sci, con un “circo di pietra” invece del “circo bianco”. Il primo campionato internazionale indoor ha già avuto luogo presso Lione. Può darsi che le federazioni di arrampicata sportiva indirizzino l’attività verso competizioni simili a quello dell’atletica o della ginnastica agli attrezzi, impedendo così che lungo la strada di Bardonecchia si scivoli verso il modello calcio, pugilato, tennis o formula 1. Questo discorso è completamente aperto.
Concludendo possiamo dire che sulle Alpi l’alpinismo classico ha iniziato il suo declino, mentre negli ultimi 15 anni si sono delineate varie tendenze verso lo sviluppo differenziato, certamente indispensabili al rinnovamento, ma che stanno ancora cercando una più precisa collocazione. Inoltre la preparazione atletica sempre più intensa richiesta per le ascensioni moderne non permette più all’alpinista della domenica, se non in casi eccezionali, di raggiungere il vertice delle prestazioni che invece era stato possibile dai primordi dell’alpinismo fino agli anni Settanta.
(continua)
Scopri di più da GognaBlog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.