Lassù nella Val “del” Sarca, i miei ricordi

Lassù nella Val “del” Sarca, i miei ricordi
di Ugo Ranzi

Mi è venuta voglia di scrivere i miei ricordi della valle del Sarca dopo aver letto il bel libro Valle della Luce di Alessandro Gogna e Marco Furlani, un vero libro di storia che racconta l’evoluzione dall’alpinismo tradizionale all’alpinismo moderno. Partendo dai pionieri della prima salita del 1933 arriva fino ai giorni nostri. I miei ricordi sono poco alpinistici e piuttosto bucolici, in quei luoghi ho passato tanta della mia gioventù e anche degli anni successivi; ne ho grande nostalgia.

La valle del fiume Sarca inizia a Riva del Garda e sale verso Trento passando da Arco, Dro, Le Sarche dove il ramo principale proveniente da Presanella e Adamello si unisce a quello che arriva dai laghi di Santa Massenza e Castel Toblino. Poi si inerpica attraversando Padergnone, Vezzano e Vigolo Baselga fino ad arrivare a Cadine 595 m prima che si debba scollinare su Trento.

Casa di Cadine, pittura ad acquerello fatta da mio papà, ingegnere con inclinazioni artistiche.

La mia nonna paterna e alcuni miei zii, alla fine della seconda guerra mondiale, con l’intento di dedicarsi all’agricoltura, avevano preso a Cadine qualche ettaro di campagna con in mezzo una grande casa.

A quel tempo e fino alla fine degli anni ’60 era l’unica casa dalla parte opposta dello stradone rispetto al resto del paese che era a 7/800 metri da essa. Subito dietro si innalza, boscoso, il Sorasass, la montagna che sovrasta a ovest la città di Trento. Verso nord si ammira la “roda” della Paganella e a sud il monte Bondone. All’inizio nella casa mancavano la luce e l’acqua. Per bere e lavare la si prendeva lì vicino a una sorgente che negli anni ’80 è stata dichiarata inquinata; strano, ha dissetato senza problemi generazioni della mia famiglia e migliaia di viandanti di passaggio.

Durante la mia infanzia passavo a Cadine i tre mesi estivi di vacanza dalla scuola, le feste di Natale e quelle di Pasqua. Salivo sugli alberi da frutta per raccogliere pere, pesche, prugne e ciliegie; probabilmente lì è nata la passione per l’arrampicare. Salivo anche sui pini per raccogliere il vischio con cui mia nonna faceva un unguento. Andavo a caccia con l’arco e la fionda, non ho mai preso niente. Ho imparato a conoscere le piante del bosco, fiori, funghi, serpenti, topi, pantegane, ramarri, caprioli, tassi, lepri, pernici, coturnici, beccacce. Un capitolo a parte riguarda gli insetti: l’elegante Cerambice dalle lunghe antenne, il Cervo volante con le sue robuste pinze, le belle farfalle Vanessa Io, Macaone e Papilio Podalirio. Con la mia raccolta di insetti mio cugino Carlo ha superato un esame alla facoltà di agraria. Oltre che a salire sugli alberi, ho imparato a spaccare la legna, a vangare, a zappare, a falciare (che bello il movimento del falciatore), per un ragazzino un vero paradiso terrestre.

Divagazione sull’attribuzione di genere
Leggendo il libro di Gogna e Furlani ho scoperto che il fiume Sarca è considerato di genere femminile “la Sarca” come la Senna, la Dora, ecc. Me ne sono meravigliato perché da sempre in paese lo chiamavamo “il Sarca”. D’altronde l’attribuzione del genere è un po’ aleatoria, in Sicilia la cosa più maschile che c’è è considerata al femminile, recentemente la cosa più femminile che c’è è maschilizzata per definire un bel ragazzo, oggi ci sono mogli con barba e baffi e mariti con seni prosperosi. In questi ricordi, vista la confusione, mi concedo la licenza di continuare a chiamarlo il Sarca.

Valle della Luce si concentra principalmente sulla storia e sulle pareti della valle ma moltissime sono le citazioni delle vie più famose delle Alpi e tanti gli aneddoti che rendono piacevole la lettura. Molti degli arrampicatori che compaiono nella storia della valle li ho incontrati: Settimo Bonvecchio, Marco Franceschini, che mi ha esaminato e promosso alla scuola di roccia Graffer e con cui ho tanto sciato al monte Bondone, Bruno Detassis, Cesare Maestri il mio mito, Matteo Armani con i cui figli Giorgio e Popa ho arrampicato sul Campanile Basso e sullo Spigolo del Velo, Marino Stenico con cui ho giocato a morra trentina, Heinz Steinkötter.

Al Politecnico di Torino negli anni ‘20
Ho conosciuto anche Luigi Miori, il primo assieme a Marcello Friederichsen a tracciare una via in valle. Era stato compagno di mio papà al Politecnico di Torino, negli anni ’50 abitava vicino a Cadine, non ricordo se a Vezzano o Padergnone, e qualche volta mio papà lo andava a trovare e mi portava con lui. Ero un bambino e mi annoiavo molto ad ascoltare i loro discorsi. Solo leggendo la storia della valle mi sono reso conto di chi era.

In quegli anni a Torino erano compagni di mio papà tanti personaggi della storia dell’alpinismo. C’era Toni Ortelli, l’autore della Montanara, canzone che papà portò da Torino, dove Ortelli gliela aveva cantata, a Trento a quello che divenne il famoso coro della SAT. Ortelli l’ho incontrato solo al funerale di mio papà. C’era Domenico Rudatis, il propugnatore del sesto grado negli anni ‘20/’30, che trasferitosi negli Stati Uniti, rimase sempre in contatto epistolare con papà. C’era Renzo Videsott, divenuto poi il creatore del Parco del Gran Paradiso. C’era Pino Prati, purtroppo dai più conosciuto per essere morto assieme a Giuseppe Bianchi nel tentativo della prima ripetizione della via Preuss sul Campanile Basso. Sarebbe bello fosse invece fosse ricordato per aver scritto la prima guida delle Dolomiti di Brenta o per aver aperto assieme a Luigi Miori la bella via della Madonnina sullo spigolo sud della Brenta Alta. C’era anche Toni Maestri, padre di Cesare. Non frequentava il Politecnico, lui aveva una compagnia teatrale e mio papà con i suoi amici andava ai suoi spettacoli. Non so come fecero a riconoscersi dopo più di 40 anni. Con la mia famiglia stavamo salendo al rifugio Pedrotti e ci eravamo fermati al rifugio Selvata. Cesare Maestri stava salendo con Carlo Claus una salita dimostrativa sul Castelletto dei Massodi e suo padre, come spesso faceva, pubblicizzava l’impresa ai passanti. Fu una scena strana, noi arrivammo sul piazzale del rifugio, Toni Maestri era vicino ai tavoli esterni mangiando in piedi un piatto di pastasciutta, diede un’occhiata ai nuovi arrivati e sia lui che papà scoppiarono in un grido di gioia, poi baci, abbracci,” te se ricordet” con grandi rischi per la pastasciutta di finire nel posto sbagliato. Ho visto le foto giovanili di entrambi, quaranta anni prima erano totalmente diversi, qualcosa di telepatico doveva essere successo.

Dalla vetta del Piccolo Dain sul Lago di Toblino, Valle del Sarca

Quasi nessuna salita
Sotto le pareti ci sono passato parecchie centinaia di volte, forse più di mille. Ancorato al mito della vetta e ammaliato dal gruppo Brenta, mai le avevo prese in considerazione, pur essendo sempre stato un fautore di quelle che tutti oggi chiamano falesie. Vicino a Trento frequentavo le storiche palestre di roccia della Vela e dei Bindesi con le sue vie Sdramele, Tribole, Onta, Strapiombo e altre. Ai Bindesi e al suo rifugio sono particolarmente legato non solo per ragioni alpinistiche.

La strada da Milano a Cadine prevedeva l’autostrada Milano-Brescia che negli anni ’60 era praticamente una strada normale con striscia continua per tutto il percorso e divieto a pedoni, bici, scooter. Da Brescia si andava al lago di Garda e lo si costeggiava lungo la suggestiva Gardesana Occidentale piena di curve e gallerie fino a Riva del Garda proseguendo poi per Trento.

Solo verso la fine degli anni ’70 cominciai a notare sulla rocca di Arco dei puntini colorati che mi resi conto essere degli arrampicatori. Non c’era ancora internet e le poche notizie non mi avevano fatto prendere in considerazione programmi su quelle pareti orfane di vetta.

Ho salito una decina di volte la ferrata Pisetta sul Piccolo Dain, una delle prime ferrate impegnative che cominciavano a nascere alla fine degli anni ’60 come la ferrata del Medale sopra Lecco, la ferrata del monte Albano sopra il santuario di Mori vicino a Rovereto, la ferrata tridentina in Val Badia… Salendo la Pisetta c’è la continua visione della via della Canna d’Organo di Bruno Detassis e Rizieri Costazza, a quel tempo una delle poche vie della zona assieme alla Maestri nella gola del Limarò. L’uscita dalla ferrata è bellissima, arrivi su un ballatoio e guardando giù ti sembra di volare sopra il lago di Castel Toblino.

Il tracciato della via ferrata Che Guevara al Monte Casale

Considerazioni sulle ferrate
Ci sono molti pareri discordi sulle ferrate. Ai tempi dei tempi le ferrate si salivano senza nessuna autoassicurazione, non erano difficili e ci si limitava a tirarsi sulle funi e salire sulle scalette. Erano ferrate come quella della Marmolada o quella del Cinquantenario sul Resegone, prima dell’ammodernamento, o quella delle Mesules sul Sella.

Poi, credo alla fine degli anni ‘70, cominciarono le ferrate difficili e l’autoassicurazione divenne utile e necessaria. La prima volta che mi resi conto che le cose stavano cambiando fu sulla ferrata del Venticinquennale ai Corni di Canzo. Salivo allegramente quando dopo la prima cinquantina di metri mi bloccai, i 2/3 metri successivi erano rischiosi, se le mani avessero mollato la fune il volo sarebbe stato fatale. Avevo con me dei cordini e li usai per una assicurazione fortunosa e sicuramente inutile ma sufficiente a darmi il coraggio di passare.

Da allora mi sono sempre autoassicurato anche se non secondo i crismi ufficiali. Sulle ferrate cerco di arrampicare, ho uno spezzone di corda con dissipatore collegato all’imbrago e mi assicuro col moschettone alle funi, ma uso mani e piedi come in arrampicata perché faccio le ferrate a inizio stagione come allenamento propedeutico alle arrampicate successive. Solo nei punti “impossibili” mi tiro sulla fune o salgo sui gradini.

A me piacciono purché non rovinino qualche via di arrampicata o cerchino inutilmente la difficoltà fine a se stessa. Mi piacerebbe facessero una ferrata che, nella Bergamasca, dal rifugio Olmo salisse la cresta ovest della Presolana di Castione. Vi esiste una via di primo grado ma in quarant’anni di Presolana non ci ho mai incontrato o visto nessuno e invece una ferrata potrebbe regalare a tanti delle belle emozioni.

Oltre alla ferrata Pisetta ho salito qualche volta anche quella dei Colodri. Il limitato tempo libero che lavoro e famiglia (abitavo a Milano) mi permettevano di dedicare al Trentino lo dedicavo alle Dolomiti di Brenta o alle valli di Fassa e Badia con qualche rara diversione in val d’Aosta. Tanto la val del Sarca si poteva fare in giornata ma a furia di rimandare ho combinato proprio poco. Un po’ come è stato a Milano per la Pinacoteca di Brera, “tanto ci vado quando voglio”, così l’ho visitata solo due volte contro le quattro volte del Louvre e le quattro volte degli Uffizi.

La parete est del Monte Brento. Foto: Alessandro Beber.

Verso la fine degli anni ‘80, quando ancora avevamo la casa di Cadine, alle Placche Zebrate ho fatto qualche primo tiro assicurato con pazienza da mia moglie, che preferisce il mare, o autoassicurandomi. Nel 2000 ho salito la via del 46° Parallelo e la via Man-Ilia. Le ricordo per la bella roccia, la chiodatura tranquilla e il “finalmente ho fatto una via qui”. Mentre salivo la Man-Ilia un rumore anomalo mi ha messo in allerta, qualcosa precipitava dal monte Brento. Non era un masso, era uno spericolato con la tuta alare, era la prima volta che ne vedevo uno. Il volo si concluse con l’apertura del paracadute che malauguratamente andò a impigliarsi sulla cima di un pino. Qualche attimo di adrenalina ed emozione vera venne un po’ rovinato da più di un’ora di fatica e imprecazioni per districarsi dal groviglio di rami, funi e vela.

Le due vie mi sono piaciute tantissimo e avrei desiderato farne tante ancora o almeno la via Claudia, magari con una guida che magari mi potrebbe far fare qualche tiro da primo (non mi è mai piaciuto salire da secondo, ma di necessità virtù), e la Orizzonti dolomitici al Piccolo Dain, studiata dal basso una decina di volte quando passavo dalle Sarche senza mai aver avuto l’opportunità di percorrerla. Purtroppo la vita è programmabile solo parzialmente e l’imprevedibile per ora non me lo ha permesso e adesso probabilmente è troppo tardi.

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Lassù nella Val “del” Sarca, i miei ricordi ultima modifica: 2020-10-30T05:20:08+01:00 da GognaBlog

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5 pensieri su “Lassù nella Val “del” Sarca, i miei ricordi”

  1. Racconti che rapiscono il cuore, riaffiorano  ricordi di gioventù  che non c’ è  più……. i giovani d’ oggi purtroppo quelli che vedo in città  non sanno cosa si perdono con il naso infilato nello smartphone. Una tristezza

  2. Forse sarà perché sono sono vecchio, ma quanto mi piacciono le storie dei tempi andati così ben raccontate!!

  3. Bellissimo racconto Ugo.
    Non ti conosco, però perché non provare a confermare il detto “non è mai troppo tardi”: sia la Claudia che Orizzonti sono assolutamente praticabili (oddio, se non disturba la folla che spesso le riempie!)

  4. Sotto le pareti ci sono passato parecchie centinaia di volte, forse più di mille. Ancorato al mito della vetta e ammaliato dal gruppo Brenta, mai le avevo prese in considerazione, pur essendo sempre stato un fautore di quelle che tutti oggi chiamano falesie.

    Anche io per tanti anni ho ragionato in questo modo. Che me ne fregava di queste pareti senza cima quando poco più su c’era il Brenta.
    Poi un giorno scendendo dal rif. Tuckett dopo aver rinuncato alla via Lucia Pia alla Torre delle Val Perse per il meteo, per rimediare l’uscita  ci venne in mente che potevamo magari fare qualcosa  in Valle del Sarca . Così ci fermammo ad Arco è andammo a fare la via Mescalito alla Rupe Secca. Questa fu la mia prima via in valle del Sarca. L’inizio non fu male, via  bella e impegnativa e mi dovetti ricredere .

  5. Bello perché spontaneo. Mi ha fatto venire in mente, non so perché, che quando ero negli Alpini e facevo l’istruttore militare di alpinismo e sci, trascorsi un periodo, nella primavera del 1982, presso l’albergo Ciclamino di Pietramurata. Ovviamente si scalava ogni giorno ma un pomeriggio si presentò dal nostro comandante un distinto signore che invitò a cena a casa sua ufficiali e sottufficiali. Non ricordo il nome del signore né la località in cui si trovava casa sua, ma non ho mai dimenticato la cena sontuosa e la quantità di ottimo vino che ingollammo in allegria. Dopo avere dormito forse mezzora, andai con un illustre collega bolzanino a fare una certa “via degli strapiombi” che non so assolutamente dove si trovi e la salii come camminando. Mi sentivo così bene che lo ricordo perché non mi successe mai più. 
    Associo quella situazione alla stessa vissuta dal protagonista della canzone Comfortably Numb dei Pink Floyd e la sensazione fu talmente forte che non mi importò mai di conoscere chi fu il nostro ospite né la montagna su cui sale la via degli strapiombi. Fanculo ai dettagli, c’era dell’altro che mi avrebbe segnato per la vita, tra quella serata e la mattinata seguente, in una Valle del Sarca agli albori dell’arrampicata sportiva che l’ha poi trasformata in un parco giochi troppo organizzato.

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