L’avventura alpinismo

L’avventura alpinismo
(da Un Alpinismo di Ricerca, 1975)

Lettura: spessore-weight***, impegno-effort***, disimpegno-entertainment**

L’alpinismo è uno dei comportamenti che l’uomo ha adotta­to per convivere con la montagna. O, meglio, per adeguarsi alla realtà che lo circonda. È ben nota la differenza esistente tra il montanaro, quindi colui che è nato in montagna e ne vive ogni aspetto costrittivo, e l’alpinista, colui che, non per motivi di sopravvivenza ma per diletto o elezione, è chiamato a “dominare” la montagna. Non si può quindi parlare di alpinismo senza riferirsi al mondo del montanaro che ne è il necessario complemento.

In realtà, a dispetto di ogni pretesa arcadica o bucolica, tra i due mondi non è mai corsa eccessiva simpatia. Ancora oggi il montanaro diffida dei cittadini e questi ultimi altrettanto non so­lidarizzano con lui. Conoscenze e rapporti pazientemente colti­vati tra i due mondi spesso portano, anche dopo anni, a tristi conclusioni: crolla ancora una volta il castello di carte, con do­lore di entrambe le parti e successivo reciproco addebito di colpe.

Si obietterà che ormai il montanaro non vive più nelle con­dizioni di miseria o di «bon sauvage» in cui si trovava durante il secolo scorso (XIX, NdA): quindi anch’egli è oggi snaturato, privato delle radici date dai suoi confini, preso in avvenimenti turistici che totalizzano l’esperienza sua, della sua famiglia e della sua valle.

Ma è facile riconoscere quanto tutto ciò sia solo un giudizio cittadino, estraneo quindi alla mentalità e all’essenzialità di chi invece sta vivendo una condizione di inferiorità, a dispetto del danaro conquistato.

Mauro Corona, Paolo Cognetti, Marco Paolini

Il fatto che il montanaro ormai non sia più vissuto dal citta­dino come portatore di purezza, allontana ancor più i due mon­di: agli occhi del cittadino, non solo sopravvivono le differenze di cultura e di privilegio sociale, ma addirittura il montanaro è “colpevole” di aver abbandonato e tradito le tradizioni della sua gente e del mondo genuino della montagna.

La contrapposizione di questi due mondi opposti dà rilievo alla doppia natura della montagna; essa è un topos ambivalente, luogo di proiezione di due nostre facce da essa ambiguamente riflesse. La montagna è maschio e femmina assieme, padre e ma­dre, bene e male, amore e odio, alto e basso. Mentre i contenuti psichici riconosciuti dal montanaro e dal cittadino sono da questi proiettati sulla immagine-montagna, quelli non riconosciuti sono proiettati sulla rispettiva controparte, come in un triangolo amo­roso lo sono i giochi di gelosia. Prendiamo ad esempio l’ideale di purezza, tipico del cittadino: la montagna è pura, pulita, men­tre la pianura è luogo di squallore e di decadenza; anche il mon­tanaro una volta era puro, ma ora non lo è più e vuole sottomet­tere la montagna ai propri interessi materiali.

Da quando l’alpinismo è nato, sono mutate le condizioni di vita del montanaro. È stato l’alpinismo ad avvicinare la monta­gna alla pianura e a permettere l’inizio del turismo alpino e del­lo sci. Nei secoli passati il montanaro nutriva un timore reveren­ziale per la montagna e il cittadino la ignorava. Oggi quest’ultimo pretende di amare la montagna, mentre il montanaro non è felice dei suoi natali e apertamente cerca di rifarsi dei lunghi secoli bui.

La letteratura ufficiale è lontana dalla montagna e dall’alpi­nismo? Se per letteratura ufficiale si intende infatti un insieme di scritture che si succedono nel tempo e quindi nelle culture delle varie età, è vero: non troviamo che scarsi riferimenti alla mon­tagna, che comunque è sempre intesa come sfondo idealizzato. La letteratura italiana è in questo senso la miglior continuazione del­le tradizioni orientali, cui è allacciata per tramite della classi­cità greca e latina. Nella visione generale del mondo di un poeta o di un romanziere, la montagna è generalmente il luogo alto, sede del Bene e della Purezza. In questo ci allacciamo decisamen­te alla tradizione greca dell’Olimpo, sede degli dei, e a quella ancora più antica dei Veda indiani. Là, le montagne stesse sono le divinità, o almeno una delle espressioni in cui le divinità si manifestano. Nel rifiuto umanistico e rinascimentale della divi­nità, nel dedicarsi completo all’uomo e ai suoi valori, è da ri­cercarsi il motivo del persistente disinteresse letterario per la montagna. Per così dire, la divinità respinta in piano, si rifu­gia sulle vette eccelse, territorio non umano per definizione, luo­go di cristallina purezza, lontano dal mondo, come pure sede di terribili tempeste, segno di corrucciati voleri divini.

Con il passare dei secoli questa «Berganschauung», questa visione del mondo alpino sviluppatasi dall’occhio artistico di Leonardo non è mutata di molto in Italia. Né barocco, né illu­minismo e neppure romanticismo scossero questo punto fermo di riferimento. La conseguenza fu un decadimento sclerotico del sentire la montagna. Se in precedenza era genuina e sobria la proiezione dei contenuti divini della nostra psiche nel mondo lontano e alto della montagna, in un secondo tempo questa tra­sposizione acquistò colorazioni dapprima più vivaci, poi più te­tre e infine più cadaveriche.

Con l’avvento e lo sviluppo dell’alpinismo, con il quale l’uo­mo ha raggiunto tutte le più alte vette per i versanti più diffi­cili, con l’esplorazione ormai quasi totale delle nostre Alpi, con l’introduzione della tecnica di sfruttamento del potenziale turi­stico alpino, chiunque voglia oggi esprimere la montagna o per iscritto o per immagini rischia la retorica. Nessun pittore affer­mato oserebbe dipingere una montagna: la sua arte si infran­gerebbe contro il muro compatto della retorica e dei vuoti si­gnificati preattribuiti. L’arte quindi si scontrerebbe ineluttabilmente contro una fortissima resistenza insita nella nostra cultu­ra e quindi necessariamente evita questo argomento, a tal pun­to da attribuirgli quasi i connotati di un tabù. Tramite questo tabù la montagna riacquisisce tutto il suo vigore di genuina espressione per chi, e solo per chi, sgombra la mente di pregiudizi, è disposto a viverne l’esperienza. Solo superato infatti l’ostacolo si può parlare di reale progresso. E in questo caso l’o­stacolo non è artificiale, come nella corsa ad ostacoli; non è una finta difficoltà. Esso è il prodotto reale di secoli di mediterraneo umanesimo.

La retorica, come oggi comunemente s’intende il significato di questa parola, è esprimersi, per il lettore che si ritiene avve­duto, vuoto di senso. Ci si richiama cioè continuamente a ideali che tutti intimamente rifiutiamo. E più il dubbio su questi ideali è forte, più il discorso è retorico, ridondante e privo a posteriori di qualunque credibilità. Il rifiuto della retorica quindi dovreb­be essere il rifiuto degli ideali che ne stanno alla base.

Ma un ideale è la forma senile di un mito che si evolve. Il Mito dell’Eroe non può sempre confondersi con l’ideale dell’e­roismo. Questo ideale è un’approssimazione statica, un tentativo di definizione di un dinamico Mito che vive in noi. Ecco perché una generazione apprezza ideali eroici e la seguente non li ap­prezza più: il Mito vivente dell’Eroe oggi si esprime con una moltitudine di Balilla, domani il Mito vivente dell’Eroe si espri­me con una moltitudine di normali osannanti o denigranti l’unico, l’Eroe per eccellenza, quello che ha richiamato su di sé la segreta esigenza di tutti di vedere l’eroe incarnato, piaccia o non piaccia che sia così.

Il rifiuto della retorica non è quindi un vero superamento dei valori ideali e delle convinzioni che ne sono a fondamento. Allorché i decrepiti valori ideali relativi alla montagna verranno superati, allora si avrà creatività, allora il mito della montagna potrà realmente esprimersi tramite menti creative e artiste, al di là di tutta la produzione letteraria e montana finora comparsa.

L’avventura alpinismo è parte del Mito eroico e in questo Mito è la radice dell’alpinismo stesso. Non si vuol negare che eroismo e retorica abbiano permeato di se stessi molta produzio­ne letteraria in più di due secoli di alpinismo. Sappiamo anche che di nessuno sport esiste altrettanta letteratura. Ciò vuol dire che l’e­sigenza del racconto alpino va al di là del semplice racconto spor­tivo e investe la sfera delle motivazioni che spingono il lettore e lo scrittore a quell’attività.

Ma allora, l’avventura alpinismo possiede lo stesso spessore delle emozioni di altre vicende umane? E se sì, perché l’alpini­smo, con una così vasta letteratura, non ha ancora ispirato una grande opera?

Geoffrey Winthrop Young

Che l’alpinismo non sia un’avventura minore è assodato. Nes­suno contesta la potenza e l’attrazione dell’agire in alta monta­gna. Il rango di avventura è del tutto pieno, anzi, è questa una delle poche avventure rimaste oggi. Dice Geoffrey Winthrop Young: «Un giovane autore alpinista ha naturalmente il corag­gio delle proprie azioni; ma egli dovrebbe avere anche il corag­gio di esprimere le sue emozioni». È quindi letteratura minore perché le emozioni su cui si fa gioco nel racconto non sono quel­le reali, ma si rifanno solo al modello retorico proprio della let­teratura ufficiale e maggiore, a ideali e convinzioni quindi pre­stabiliti. Questi tendono a sostituire le emozioni prima di tutto nella mente del narratore e poi nello scritto, che risulterà perciò consono alle esigenze della censura spontanea ma non più idoneo ad entrare nella letteratura maggiore. La censura spontanea è la reazione al tentato abbattimento del Tabù. Sfidare le leggi del verticale e delle altezze non è solo pericoloso per il corpo ma è scomodo pure per lo spirito. Quanto più la montagna è tecnica­mente conosciuta, descritta, sfruttata, tanto più coercitiva sarà la censura. Quando la montagna sarà percorsa totalmente da fu­nivie e da strade sterrate, quando altri animali saranno estinti, altre specie vegetali distrutte, quando infine la roccia stessa verrà sistematicamente aggredita dalle cave selvagge, quando tutto sa­rà un parco naturale con i suoi sorveglianti fedeli, allora io credo che l’alpinismo non avrà più ragione di esistere e che non ci sarà neppure più quel poco di letteratura minore che possediamo, ma dentro di noi ci sarà un gonfiore inespresso, una bomba so­pita, un’insostenibile voglia di trasgredire e di liberare finalmen­te il divino che c’è in noi. Forse allora qualcuno scriverà di mon­tagna, qualcuno però che abbia vissuto dentro di sé tutto il ci­clo e che lo sappia riconoscere.

Non sono solo eroismo e retorica quindi i responsabili. Al­tre opere d’arte della letteratura italiana sono gonfie di eroismo e di retorica e sono ugualmente parte della nostra più profonda cultura. Ma se eroismo e retorica si applicano alla montagna e all’alpinismo, il risultato è sempre deludente. Il racconto dell’avventura tende a sostituire il racconto dell’esperienza, solo per il motivo che si è incapaci di riconoscere l’esperienza: e ciò a causa della nostra intima censura.

Sylvain Jouty

Le avventure dell’alpinismo a ben vedere sono tutte uguali, hanno tutte le stesse uniformi e le stesse fanfare. Il racconto del­l’avventura scade spesso nelle figurazioni stereotipe: in Salgari, Yanez fuma sempre flemmaticamente l’eterna sigaretta, Sando­kan ha sempre gli occhi come tizzoni ardenti.

Stendo un velo pietoso sulle figurazioni dell’avventura alpi­nismo. Sylvain Jouty dice addirittura che nello sforzo di essere realistico, «il racconto di alpinismo è parente stretto della porno­grafia: vi si trova, anche se in misura diversa, lo stesso deside­rio di aderire alla realtà e la poca cura per lo stile e per l’o­pera».

Chiunque abbia letto qualche autobiografia alpina non può non essersi accorto che spesso l’autore ha scritto ciò che si immaginava gli altri pensassero lui dovesse scrivere: nell’auto­censura infatti desideriamo facilmente che gli altri ci siano com­plici. L’autoillusione dell’alpinismo solo così può continuare: agire in montagna per poter raccontare l’azione in chiave così distorta da escludere un qualunque interesse artistico; contri­buire quindi all’ulteriore esclusione della montagna dalla men­te di noi tutti, alpinisti e non. All’ulteriore rimandare il riconoscimento del Mito che ci spinge. Fino a quando anche la mon­tagna non sarà vista con gli occhi di Joseph Conrad per il suo tifone, di Herman Melville per la sua balena bianca; fino a quando anche in Italia non ci saranno Thomas Mann e la sua montagna incanta­ta, la letteratura italiana alpinistica e montana non sarà mai arte.

Joseph Conrad

Un’opera d’arte sempre ci partecipa un sereno distacco, qua­si una sommessa risonanza di cuori che vibrano all’unisono sul­la stessa lunghezza d’onda, o lungo i brividi prolungati o pas­seggeri di qualcosa che ci scuote dai precordi. Sincerità, analisi e riflessioni vere non hanno bisogno di realismo. E riprova ne è che i racconti e le fantasie riescono meglio delle autobiografie a eludere un po’ di censura. Sono dell’opinione che le emozio­ni dell’avventura alpinismo abbiano lo stesso spessore di altre vicende umane. Credo che queste emozioni siano però sopraf­fatte, già al momento dell’azione stessa e non possano che ra­ramente essere riconosciute. Spesso in buona fede si parla di vaghe sensazioni, ma non si va oltre. Si è accennato a visioni, a intuizioni, a fuggevoli attimi. Si è visto giustamente che situa­zioni al limite della vita racchiudono esperienze fondamentali e incomunicabili. Incomunicabili perché nessuno è stato capace di comunicarle: ci sono stati dei balbettii sterilmente razionalizzanti e con pretese scientifiche. Quando si tratta di nascondere e censurare i sentimenti qualunque mezzo è valido. Prima in­terviene la ragione a spiegare, a catalogare, a moralizzare. Poi gli stupori delle intuizioni, le descrizioni minute di sensazioni anche banali.

Herman Melville

Un’emozione la si riconosce se è immediata, ma non basta ancora per l’opera d’arte, che esige pure un pieno riconoscimen­to da parte dell’autore della propria esperienza. Un riconosci­mento che si spinga a comprendere il senso della propria av­ventura alpinistica o di qualunque altra vicenda umana: questo senso è il Mito stesso che doveva essere da noi riconosciuto. Per questo l’esperienza può essere solo individuale e per questo nessuna opera d’arte, pur figlia di quell’esperienza, potrà mai costituire ricetta valida per l’altrui maturazione. Il peggiore o­stacolo è sempre costituito dalle nostre paure, dalle censure che noi stessi abbiamo in un primo momento della nostra vita adot­tate ma che in un secondo tempo devono essere eliminate con la trasgressione. Un muro eretto a difesa ma che in seguito diven­ta prigione e deve essere abbattuto.

Nel frattempo migliaia e migliaia di cordate sulla terra com­piono il rito di salire la parete e raggiungere la cima per poi discendere e per poi in esaltante successione raccontare e quin­di dimenticare la vera esperienza e assumerne una fittizia. Di tanto in tanto qualcuno scompare per ricordarci che non c’è molto tempo a nostra disposizione e che l’esperienza è un viaggio nel regno dei morti, come quello di Dante o di Goethe. Una so­spensione quindi tra i due estremi opposti, tra la Vita e la Mor­te. Ed anche una sospensione magica tra gli altri opposti di cui si parlava all’inizio, tra Bene e Male, tra Alto e Basso, tra ma­schio e femmina. Un’esperienza che dovrebbe mostrare prima o poi allo scalatore in salita che il suo agire è una discesa verso il basso, che l’amore per la montagna è una scusa, un pretesto, una menzogna cui nessuno più ormai può credere realmente.

E che ben vedono quindi i semplici quando chiedono: «Ma quale tesoro andate cercando, lassù?».

Thomas Mann

E ora?
La mia esperienza mi ha portato a una fuga dalla società dei mito, dell’efficienza consumistica e cioè una fuga da un sapere universitario sfacciatamente teso a formare tecnocrati asserviti e venditori di forza-lavoro; da una prospettiva sperso­nalizzata e tendente a fare denaro; da un lavoro (che pote­vo avere come alternativa) precoce e alienante come tutti i lavori a compenso, dal rifiuto di assistere allo sterminio delle risorse e delle bellezze della Terra.

Non sorretto da particolari interessi artistici, profondamente assenteista in tema religioso, il caso e la predisposizione mi hanno portato a un alpinismo estremo e utilitaristico sulla cui odierna inutilità ho spesso riflettuto: credevo di essere fuo­ri dal sistema, ma la mia fuga dalla realtà, egoista, individuali­sta, è arrivata alla fine della corsa, all’altro confine del si­stema da cui non mi sono mai in realtà allontanato.

Dall’alpinismo estremo ho tratto di buono l’esperienza per gli altri, l’intima soddisfazione per l’estrema irrilevanza dei compensi, la coscienza della genuinità delle imprese.

Ma oggi non basta più. Non basta fare il compito bene, quando poi ci si accorge alla fine che il tema era irreale e falso. Non mi basta più l’aver agito bene per un «credo» alpini­stico a cui non credo più, perché è sempre stato fuori dalla so­cietà. Oggi occorre agire per la nostra stessa rivalutazione e quindi per la società umana, al di fuori degli schemi di di­vertimento proposti e tollerati dal sistema capitalistico. Oggi occorre creare un altro clima, in cui l’alpinismo sportivo sarà morto, in cui finalmente la competizione sarà sostituita dalla collaborazione. Non sono stato il primo a capire: in Inghil­terra, in Francia i giovani sono molto più avanti di noi. Que­sta disciplina ideale e nuova forse potrà indicare, almeno in pic­cola parte, la via da seguire, al di fuori di tutti gli individuali­smi.     

L’avventura alpinismo ultima modifica: 2018-03-17T05:36:46+01:00 da GognaBlog

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2 pensieri su “L’avventura alpinismo”

  1. Secondo me ogni alpinismo è sempre figlio dei suoi tempi e chi cerca di assolutizzarlo e di dare indicazioni sul suo futuro mi fa sorridere. Taluni forse lo fanno per giustificare la propria inedaguatezza con le espressioni più alte del tempo che vivono, cercando di giustificare così se stessi e il loro operato (negli anni ’70 nascevano movimenti alternativi spesso negazionisti senza partecipazione).

    Ora c’è una grande diversificazione con livelli di prestazione differenti e difficilmente comprensibili fra i differenti praticanti (comprensione assolutamente nulla nelle masse mediatizzate) e con elementi molto rari che si esprimono ad alti livelli in tutto….. sono sempre un prodotto della evoluzione sociale, ma prodotto nel piccolissimo ambito alpinistico.

  2. Nell’ultimo capitoletto “E ora?” scritto 43 anni fa c’è la misura di uno spirito, la sua visione, il suo disagio.

    Viene da domandarsi perché la cultura non abbia fatto proprio quello spirito. Avrebbe condotto le cose in una direzione più umana e salubre.

    E se un alpinista, nel complesso contasse poco, altri, Pasolini per esempio, pur contando di molto di più non sono riusciti nella virata che non ci avrebbe portato dove ci troviamo ora. E lascio stare il Cristo, per alcuni indigesto, per altri equivoco.

    Oppure no.

    Molte anime sparse hanno raccolto le voci che parevano andate disperse nel luna park del consumismo, nella velocità del tecnologismo, nelle promesse del capitalismo, nella concentrazione del produttivismo.

    Forse ora quelle voci, dopo 2043 anni, si stanno radunando come non era mai successo. Anche grazie a un alpinista.

    E sarebbe bello ascoltare chi leggendo certe pagine nel 1975 non si era accorto di niente, di quanto contenessero.

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