Le Alpi Occidentali tra le due guerre – 2
di Gian Piero Motti
(pubblicato in La storia dell’alpinismo) (GPM-SdA-28)
Gli ultimi inglesi alla ribalta sulle pareti del Monte Bianco
Alto più di 1000 metri, incavato verso l’interno, immenso, il versante della Brenva del Monte Bianco è forse il più «himalayano» di tutta la catena alpina. Ed è anche un versante estremamente pericoloso. La calotta glaciale che costituisce l’edificio sommitale del Monte Bianco, affacciandosi sul versante della Brenva si arriccia come una fronte accigliata e corrugata e forma alcune cascate di seracchi che restano paurosamente sospese in bilico sopra i canaloni di neve e di ghiaccio, che servono appunto da scarico alle valanghe di neve generate dalle cadute di blocchi di ghiaccio. Questi orridi e profondi canaloni sono separati da alcuni speroni in rilievo, rocciosi e ghiacciati, che costituiscono l’unico punto relativamente al sicuro dalle cadute di seracchi, ed è lungo questi speroni che si sono svolte le vie di salita. Ma per raggiungere la base delle creste sovente è necessario attraversare i numerosi canaloni esposti alle scariche: le salite su questo versante richiedono un grande equilibrio nervoso ed una provata esperienza, più che capacità tecnica vera e propria. L’esposizione ad oriente fa sì che il sole sorga prestissimo a lambire i pendii superiori e a riscaldare i seracchi, che così cominciano a rotolare verso il basso, frantumandosi a causa del disgelo.
È necessario quindi percorrere queste vie generalmente di notte e con temperature molto basse, onde evitare di essere sorpresi dalle ore calde nell’attraversamento dei canaloni, che in tal caso possono rivelarsi una trappola mortale. Comunque, le cadute dei seracchi non dipendono unicamente dal disgelo, ma soprattutto dai movimenti ritmici del ghiacciaio ed è quindi assai difficile poterle prevedere. Le salite sul versante della Brenva richiedono all’alpinista un attento studio della montagna e delle condizioni meteorologiche e inoltre la certezza di poter forzare anche in condizioni avverse, in quanto l’uscita da queste vie in caso di cattivo tempo è solo verso l’alto. Sono dunque vie riservate ad alpinisti molto preparati e dalla scorza dura, alpinisti che amano questo genere di imprese assai rischiose, dove la lotta emerge fino a primeggiare e ad assumere un ruolo prevalente sul piacere della salita e sul divertimento stesso. Eppure queste pareti e questo genere di imprese hanno il loro fascino indiscutibile: la scalata notturna lungo i canaloni ghiacciati, il profumo strano ed indefinibile del ghiaccio, quella incredibile serenità e quell’assoluto fatalismo che si instaura dopo il primo momento di angoscia (si arriva a pensare: «il seracco crolla solo se deve crollare, è quindi stupido preoccuparsene»), il momento magico dell’aurora che sorge quando si esce dalla parete e si sfocia sui morbidi e sonnolenti pendii sommitali.
L’ambiente di questi versanti è unico nel suo genere ed è certamente irripetibile. Tuttavia gli incidenti mortali sulla parete della Brenva sono frequentissimi e ne testimoniano la reale pericolosità. E non si può certo dire che gli incidenti siano sempre causati da imprudenza o da errata valutazione delle condizioni, poiché in alcuni casi (come accadde appunto al grande Arturo Ottoz) nulla lasciava prevedere l’eventualità di una caduta di seracchi.
Il nome della Brenva è legato a quello di un inglese, Thomas Graham Brown, l’ultimo grande personaggio dell’alpinismo inglese che agisce sulle Alpi prima del secondo conflitto mondiale. Fedele allo spirito dell’alpinismo classico, egli in pochi anni risolve in modo straordinariamente elegante tutti i problemi della grande parete. L’1 e il 2 settembre 1927, con Francis Sydney Smythe, supera lo sperone della Sentinella Rossa, cosiddetto per una torre di rosso protogino che sorge all’inizio della cresta. L’itinerario è diretto alla vetta del Bianco, elegantissimo, una delle più belle salite di misto della catena alpina.
Il 6 e 7 agosto 1928, ancora con Smythe, Graham Brown ritorna alla Brenva, e sale esattamente al centro della parete, dopo aver attraversato un pericolosissimo canalone costantemente battuto dalle scariche. La via segue un netto sperone, detto della Major, caratterizzato da una serie di affilatissime crestine di neve che poi vanno a morire contro una balza di rosso granito, liscia e verticale, sormontata da un muro di seracchi. È questo il passaggio chiave dell’intera salita, più difficile di quella della Sentinella, ma forse meno elegante dal punto di vista del tracciato. Delle tre vie aperte da Graham Brown sulla Brenva, questa è certamente la più seguita dagli alpinisti.
Il 5 agosto 1933, Graham Brown completa il suo fantastico trittico, e con Alexander Graven e Alfred Aufdenblatten supera lo sperone posto più a sinistra, nel settore più selvaggio di tutta la parete, dove una curiosa torre rocciosa a forma di pera («la Poire») si incunea tra due gigantesche cascate di seracchi. La Poire è l’unica porta di accesso alla parte superiore della parete, anzi un piccolo picciuolo di roccia permette proprio di innestarsi ai pendii di ghiaccio superiori. È questa certamente la via più difficile e rischiosa del versante Brenva, in quanto per giungerne alla base è necessario attraversare tutti i canaloni che servono da scarico alle valanghe. Ma è anche quella che offre l’ambiente più feroce e selvaggio, una salita che lascia emozioni e ricordi incancellabili.
Dunque Graham Brown con la sua azione dimostra indiscutibilmente che ormai l’alpinismo senza guida, anche sul ghiaccio e sul misto, non solo ha eguagliato i livelli raggiunti dalle guide, ma anzi, li ha ampiamente superati.
La tecnica delle Alpi Orientali raggiunge il Monte Bianco
Se si considera il livello tecnico raggiunto negli anni Trenta sulle Alpi Orientali e lo si paragona a quello delle Alpi Occidentali, il divario esistente è enorme. Le guide e gli alpinisti cittadini delle Alpi Occidentali giocavano in posizione di netta inferiorità, in quanto essi riuscivano ad individuare i problemi alpinistici da risolvere, ma poi venivano sconfitti sul piano pratico dalle difficoltà incontrate. Essi arrampicavano ancora con scarponi ferrati, usavano sì chiodi, ma più che altro come appiglio, non conoscendo l’uso del moschettone e delle manovre di corda… Davanti all’impossibile, sovente (soprattutto le guide) ricorrevano ad artifici poco consueti, come l’uso delle pertiche di legno o la perforazione della roccia con gli aghi da mina. Solo così si può comprendere la sconfitta di Armand Charlet sulla parete nord delle Grandes Jorasses e quella delle guide di Courmayeur sulla cresta sud dell’Aiguille Noire de Peutérey.
Alta più di 1100 metri, la cresta sud dell’Aiguille Noire si alza arditissima dai pascoli della Val Veny, e va a chiudere una curiosa conca, che per la sua forma è detta appunto la «Fauteuil des Allemands».
Essa forma alcune torri di granito rossastro e compattissimo, che danno a questa cresta una linea fantastica, tanto da farne forse la cresta più bella ed elegante di tutta la catena alpina. La cresta separa due bacini che sono fortemente contrastanti nella loro struttura: a sinistra quello del Frêney, ombroso, un po’ sinistro, dove altissime pareti di roccia racchiudono lo stretto ghiacciaio che si fa strada spaccandosi e frantumandosi in mille crepacci e in cascate di seracchi che ogni tanto precipitano con fragore assordante lungo le placche rocciose della fronte del ghiacciaio, sollevando nubi di polvere nevosa che vengono trasportate in alto dal vento. A destra l’ambiente è quasi idillico, in quanto l’occhio percorre il bacino più tranquillo e riposante del Fauteuil, fino a posarsi sui verdi e molli pascoli erbosi della Val Veny. Percorrendo questa magnifica cresta, sovente il gioco dei contrasti dona sensazioni indimenticabili, mentre lo sguardo si posa un po’ sul caotico Ghiacciaio del Frêney ed un po’ sulla verdeggiante Val Veny.
Certo la cresta non era sfuggita agli sguardi degli alpinisti locali. Ma già nel 1913 essa era stata tentata da Angelo Dibona con i Mayer, poi anche dal forte Willo Welzenbach, che salì fino in vetta alla torre che ora porta il suo nome. Anche il leggendario Paul Preuss l’aveva studiata dalla vetta della prima torre, il Pic Gamba, che egli aveva salito in prima ascensione, ma giustamente l’aveva ritenuta percorribile solo con mezzi artificiali e quindi, fedele alla sua etica severa, aveva rinunciato a qualsiasi tentativo.
Ma furono proprio le guide di Courmayeur a sfiorare il successo, in una serie di avventurosi tentativi (1928, 1929, 1930) che li portarono fin nei pressi della vetta della Punta Brendel. Ma essi furono arrestati da un muro compatto e verticale, di cui solo la tecnica moderna avrebbe avuto ragione. Già sotto essi (Laurent Grivel, il giovane Arturo Ottoz che poi diverrà la più grande guida di Courmayeur della sua epoca, Oswald Ottoz e Albino Pennard) erano riusciti a superare difficoltà estreme ricorrendo alla solita pertica (che poi fu abbandonata lungo la cresta) e aiutandosi con due chiodi infissi nella roccia viva, perforata con gli aghi da mina. Ma essi, come si è detto, arrampicavano con scarponi chiodati e avevano a disposizione solo alcuni ferracci che è impossibile definire chiodi da roccia.
Il 26 e 27 agosto 1930 i due rocciatori della Scuola di Monaco, Karl Brendel e Hermann Schaller, al primo tentativo, percorrono tutta la cresta e fissano per le Alpi Occidentali un evento di importanza storica fondamentale, aprendo il cammino ad una infinita serie di realizzazioni, rese poi possibili dalla disinibizione attuata dai due monachesi. La via presentava difficoltà che mai erano state superate nelle Alpi Occidentali su roccia: per la prima volta il sesto grado compariva nel massiccio del Monte Bianco. L’itinerario della cresta è superbo e grandioso, certamente lo si può definire come una delle scalate più belle ed affascinanti delle Alpi. Va soprattutto ricordato che la cresta fu vinta dai primi salitori in stile rigorosamente elegante, con l’impiego di non più di 10 chiodi in tutto il percorso.
In questo caso (e non come oggi accade, data la presenza di numerosissimi chiodi) l’impresa di Brendel e Schaller è sicuramente una delle più importanti dell’epoca, e i passaggi di sesto grado in arrampicata libera superati lungo tutto il percorso non furono pochi.
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A dimostrazione della superiorità della scuola di Monaco
Racconto chiaro, conciso e avvincente
Sempre avvincenti, questi racconti!
Lettura molto piacevole e istruttiva.