Metadiario – 191 – Le nevi dell’altopiano (AG 1995-001)
(1996)
Su tutta la catena alpina, e specialmente sul versante italiano, non sono molti i luoghi dove si possa passeggiare con gli sci da fondo senza necessariamente percorrere lunghe valli pianeggianti con scarso sole e pochi panorami: proprio perché non sono molti i terreni ad “altopiano”, dove la scarsità dei dislivelli sia compensata da dolci e frequenti saliscendi in mezzo a vedute sempre spaziose. Una di queste regioni è il Regglberg, uno splendido altopiano compreso tra la Val d’Adige e il Passo di Lavazé, tra la Val d’Ega e il Passo di San Lugano: siamo a poche decine di chilometri da Bolzano, sotto alle grandi vette del Latemàr e del Corno Bianco.
D’estate questo è il regno del grande verde, dello scampanio degli alpeggi, delle foreste silenziose: d’inverno tutto pare, se possibile, ancora più stemperato in una curiosa e totale assenza di suoni: al tramonto, quando ormai le distese di neve e le chiome scure degli abeti attendono che il buio le avvolga, cancellandone la visibilità ma acuendone il senso di presenza viva, solo un attore emerge dai fondali e diventa protagonista sulla scena: il Latemàr. Creste aguzze e torri bizzarre contrastano nuvole ostinate che gli si avventano contro per ridisegnarle, mentre la luce rossa del tramonto sembra tramutare quella lotta tra roccia e vapore acqueo in un cruento sacrificio.

Santuario di Madonna di Pietralba (Weissenstein), Alto Adige. Foto: Marco Milani
E’ il momento del languore, quando neppure il freddo che scorre con i primi brividi riesce a farci abbandonare volentieri queste lande ormai oscure.
Eppure non si tratta di una zona sperduta in mezzo a montagne difficilmente raggiungibili. Numerose sono le discese tracciate per lo sci di pista: altrettanto rispondenti alla domanda turistica sono gli impianti, le scuole, i servizi. Assieme all’alta Val d’Ega, il Regglberg costituisce uno dei comprensori sciistici più fortunati della provincia di Bolzano. Da qualche anno, alcuni dei più logici ed evidenti anelli percorribili con gli sci da fondo sono regolarmente battuti dai gatti delle nevi o dalle motoslitte, così da poter essere frequentati da chiunque intenda lo spostamento con gli sci una questione di velocità. E allora, come è possibile respirare ancora un’atmosfera così diversa, lontana dall’effetto supermercato e multiproprietà, lontana dal chiasso, dalle luci artificiali e dal cemento a vista? Nova Ponente e Nova Levante, i due paesi più noti, sono ricchi di cose belle da vedere e i dintorni trasudano anche in pieno inverno la loro storia e il loro essere soggetti di una cultura ben definita, che si è adattata al moderno senza soccombergli. Qui la montagna non è abbandonata: spostandoci con gli sci da fondo a passi senza fretta, mille piccoli particolari ci ricordano la vita dell’estate, la presenza dei contadini e degli animali è quasi palpabile. Sappiamo che poco più sotto l’attività lavorativa nei masi non si interrompe mai, le vacche muggiscono nel chiuso delle stalle, ma qui tutto è immobile come nell’incantesimo e spontaneamente questo silenzio in attesa ci fa scoprire con l’immaginazione tutto ciò che d’estate è facile guardare ma difficile vedere veramente.
E perché lo sci di fondo escursionistico? E non a piedi, per esempio, oppure con l’attrezzatura da scialpinismo? Giusto alla fine della seconda guerra mondiale lo svizzero R. P. Bille era stato tra i primi a denunciare (sulla Tribune de Genève) i pericoli dello sci: “Ancora qualche anno e questo nobile sport non sarà altro che un pretesto per intense competizioni fisiche, nient’altro che un pazzo salire seguito da un vertiginoso discendere, senza sentire o vedere nulla al di fuori di noi stessi”. Applicare ai piedi lo sci da fondo con la soletta a lisca di pesce è probabilmente negare tutta quell’evoluzione che Bille aveva previsto. L’attrezzo torna semplicemente ad essere un mezzo per muoversi nella neve fresca e profonda. Le non eccessive salite e i dolci saliscendi favoriscono dunque la contemplazione, un esprimerci di tipo stagionale, effimero come la neve che solchiamo ma veritiero per le sensazioni che lo originano.
Attorno a noi non c’è nulla di così selvaggio che possa giustificare sensazioni forti, eppure anche allontanandoci di poco da una ben battuta pista di fondo emergono queste lucidità, momenti che di solito riescono a riconciliarci con noi stessi e con il mondo e che sono l’essenza di una vacanza: possono essere brevi anche solo un attimo e capitano sempre all’improvviso.
Il più caratteristico belvedere del Regglberg, il Corno Bianco (Weisshorn): si vedono la valle dell’Adige e quella dell’Isarco, divise a nord dall’Altopiano del Renon, Alto Adige. Foto: Marco Milani
La gioia e il piacere di vagabondare senza meta in mezzo ai boschi e ai prati coperti di neve è una serie di piccoli incontri: in queste passeggiate siamo disponibili alla conoscenza del minore, del piccolo. Un recinto, un segno dei boscaioli su un tronco, un crocefisso che si attorciglia verso il cielo. Ma in cammino troviamo anche dei masi abitati tutto l’anno, malghe estive che possono offrirci pure d’inverno un modesto ristoro. E poi le chiese e le cappelle: Sant’Elena, Sant’Agata, San Floriano, San Martino: luoghi di meditazione e di ammirazione che con la neve accentuano la loro solitudine. E infine il monumentale agglomerato seicentesco di Madonna di Pietralba, che ci mostra come un luogo di culto, cattolico di forme, spirito e tradizione quindi assai mediterraneo, possa inserirsi con la giusta energia in un paesaggio invernale da Grande Nord senza tempo. Poco lontano, protesa su una rupe che emerge appena dai boschi, la cappella di San Leonardo ci permette di osservare come in realtà l’altopiano sia falso: appaiono fianchi ripidi e burroni, foreste in ordine sparso, stradine ripide e impennate che i contadini con in mano il bastone salivano assieme ai pellegrini con il rosario tra le dita.
È difficile dividere la zona di Nova Ponente da quella di Nova Levante, paesi che in tedesco si chiamano Deutschnofen e Welschnofen (cioè Nova tedesca e non tedesca): la storia ha avvicinato e fatto coesistere, con le buone e con le cattive, i ladini e gli invasori barbari ed ha creato un’identità culturale unica che progressivamente si va però germanizzando. È impossibile parlare di Regglberg e non spaziare sulla Foresta del Latemàr fino a Carezza e oltre, fino ai boschi e ai pascoli del Rosengarten. Sarebbe come parlare di Alpe di Siusi senza la Val Gardena. Mentre il Lago di Carezza è conosciuto in tutto il mondo, nomi come Passo di Lavazé o Passo degli Oclini sono più sconosciuti: in genere qui i turisti sono prevalentemente tedeschi e austriaci, amanti di queste forme riposanti e del sole a piena giornata.
Un italiano si sente a proprio agio per la gentilezza che ovunque caratterizza la gente locale, a patto che non pretenda di usare (o peggio di far usare) i toponimi nella forma di traduzione italiana. Meglio una pronuncia storpiata in pessimo tedesco che una scolastica traduzione dei nomi di luogo. Valga per tutti l’esempio per cui Weissenstein, cioè Sasso Bianco, è diventato Pietralba per colpa di qualche dotto traduttore che sapeva che alba in latino significa “bianca”.
Non che Pietralba sia brutto in sé: è che nessuno lo capirebbe.
Possiamo parlarne perché ci siamo stati, per il nostro lavoro fotografico. Il 27 gennaio 1995 Marco ed io, con Birgit Kerl, sciammo dal Passo di Lavazé alla Neuhütt 1791 m; mentre il 29 gennaio procedemmo all’inverso, dal Santuario di Madonna di Pietralba verso la Neuhütt, ma fermandoci a quota 1830 m. Il capitolo richiese comunque un’altra visita, ma al posto mio andò Paolo Cerruti (con il cane Alex).
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