L’idillio dell’Alpe Veglia

L’idillio dell’Alpe Veglia
(scritto nel 1998)

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L’importanza che l’Alpe Veglia ha sempre avuto (centinaia di vacche su ricchi pascoli, disboscamento facile attraverso il Cairasca) è sottolineata dalle sue vicende storiche. Se qualcuno pensa che «Veglia» derivi da vecchia, altri pensano che derivi da «vigilare». I numerosi episodi di violenza che turbarono la Val Divedro dai primi anni del XIV secolo a tutto il XV erano dovuti ai continui tentativi di aggressione dei vallesani, le cui frequenti scorrerie non facevano di questo luogo l’idillio che è ai giorni nostri. Violenze, incendi e saccheggi rientravano nel quadro più ampio di volontà d’espansione da parte della Confederazione svizzera ai danni del Ducato di Milano. Nel 1448 ci fu una razzia di bestiame di cui furono vittime gli svizzeri; questi allora arrivarono in gran numero a Trasquera e iniziarono un saccheggio senza pietà. Gli abitanti riuscirono a mandare via gli invasori solo dopo la promessa di pagare 2000 ducati. L’ingente somma però non fu racimolata prima della scadenza, e per ritorsione i montanari vallesani s’impadronirono dell’Alpe Veglia. Assassinii e razzie superarono così il livello di guardia: né il vescovo di Sion né il duca di Milano avevano interesse ad una vera e propria guerra che avrebbe fermato i commerci. Nel 1456 si arrivò così a firmare una pace, per la quale i vallesani restituirono l’Alpe Veglia, si tennero il bestiame razziato e la formale promessa del pagamento dei famosi 2000 ducati. Ma la tensione durò ancora decenni, finché il duca di Milano e gli ossolani non accettarono definitivamente la perdita della Val Vaira (Zwischbergental) e dell’alta Val Divedro fino al Passo del Sempione (gli attuali confini).

Il Monte Leone e il Lago d’Avino (Parco Naturale Alpe Veglia-Alpe Devero), Alpi Lepontine

Il viaggiatore che frettolosamente percorre le Gole di Gondo per affrontare i tornanti della salita al Passo del Sempione, e si era preoccupato più per le eventuali code in dogana che d’altro, non immagina che poco sopra di lui si apre un paradiso inaspettato. E non sa che, in un passato recente, prima che l’Alpe Veglia diventasse Parco naturale, questo meraviglioso angolo di mondo aveva corso un doppio rischio mortale. La speculazione edilizia e l’invasione turistica da anni ’60 volevano impadronirsene; nello stesso tempo l’ENEL, che aveva acquistato l’intero bacino, voleva sfruttarlo con la costruzione di una gigantesca diga. Solo in seguito ad accurati studi geologici, puntigliosi anche perché c’erano da scontare le colpe del Vajont, si venne alla conclusione che il progetto non era realizzabile. Anche il movimento ambientalista non ebbe una parte secondaria in questa decisione finale, e alla fine ciò che più era importante, la salvezza dell’Alpe Veglia, era una realtà.

L’accesso da Varzo a San Domenico (e alle sue modeste piste invernali che sanno di sci antico e casereccio) è dominato dalla mole possente del Monte Cistella, il luogo di residenza del Maligno. Guai a chi si lascia sorprendere lassù dall’oscurità: eppure «Cistella e Mattarella valgon più d’Òssola bella», con riferimento alle immense ricchezze nascoste negli anfratti e nei crepacci rocciosi di quella montagna infernale.

Ambiente orrido che si ripropone nell’orrida gola del Cairasca, stretta, incassata e dominata dal fragore delle acque, per poi improvvisa aprirsi al grande gioiello di piccole baite a grappolo tra verdissimi pascoli, circondate da boschi e da montagne: l’ingresso è il momento più eccitante per chi sale all’Alpe Veglia, uno dei tesori più preziosi delle nostre Alpi. L’emozione che precede la pace, una serenità che c’invade piano già dai primi passi su questi silenziosi brani di dolcezza. Alpeggi di ogni genere costellano l’arco alpino e molto spesso ritroviamo pace e serenità allorché ne varchiamo le soglie. Ma l’atmosfera dell’Alpe Veglia ha qualcosa in più, che non si misura con la bellezza delle baite o con le montagne circostanti più o meno alte, più o meno innevate. Per avere nuove emozioni, per scoprire quanta sensibilità ci sia dentro di noi, a volte insospettata, non è necessario fuggire sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo o di esotico: basta guardare con occhi diversi. E questa semplice spontaneità di atteggiamento può essere più o meno favorita da alcuni luoghi. L’Alpe Veglia è un vero «luogo», dove si respira la pace dopo tante tempeste, nella relativa prosperità di un alpeggio «ricco».

Rifugio Città di Arona (alpe Veglia, Ossola)

I cinque nuclei d’insediamenti umani (Cianciàvero, Aione, Cornù, Frua e La Balma) sono disposti con intelligenza ai margini dei pascoli, dove incominciano i pendii boscosi, per non occupare suolo prezioso e riservato al pascolo. Nel secolo XIX si arrivò al migliaio di vacche, oggi si arriva alle 600. Osservando le belle baite in pietra ci si accorge che sono state edificate senza eccezioni con la facciata rivolta al sole del sud. Anche il tetto è in pietra, grandi lastre (beole) disposte a squama di pesce. È da notare l’assenza dei camini: il fumo dei focolari sfogava attraverso le fessure tra le lastre del tetto. Le famiglie che qui lavoravano usavano due costruzioni una accanto all’altra: nella prima erano la cucina e la dispensa, nella seconda la stalla con al di sopra i letti, cui si accedeva tramite una scaletta esterna, spesso in pietra e più raramente in legno.

La bellezza di questo luogo passa attraverso le solite cose, qui disposte in modo particolarmente grazioso, dal piccolo al grande, dallo statico al dinamico. Mirtilli e rododendri tra i boschi di làrice e di abete che li accolgono; cardi, soldanelle, anémoni, genziane ravvivano i dossi che circondano la piana; le acque dei torrenti e soprattutto il silenzio, un silenzio palpabile che viene giù diretto dalle grandi montagne e dalle appena increspate superfici dei laghi per incontrarsi con lo scampanio degli animali al pascolo.

I laghi si adagiano silenziosi al di sopra della piana. Il più grande è il Lago d’Avino, artificiale: vi si specchia la mole ardita del Monte Leone, in ambiente nudo e scarno; anche il Lago Bianco, sotto le pendici del Boccareccio, riflette l’apparente desolazione di rocce e di nevi. Il Lago delle Streghe invece è ingentilito da una foresta di rododendro, ma una leggenda narra di come le sue acque si crearono in seguito ad una fosca storia di gelosia di una ragazza che si rivolse ad una strega per riavere il suo amore perduto. Qui una volta si stendevano poderosi ghiacciai, oggi ridotti a ombre: il Ghiacciaio del Leone, proprio alla base settentrionale della montagna, e poi l’Aurona, il Rébbio e il Mottiscia, che un tempo si allungavano assieme fino a Nembro e a San Domenico. Di questa grandiosità si può avere solo un pallido ricordo quando si osserva il Monte Leone da nord e si vede la minacciosa e azzurrina muraglia tagliata di netto del Chaltwassergletscher, i cui ghiacci ricoprono tutto il versante occidentale della montagna. Il Monte Leone, con i suoi 3553 m, da sud ovest domina incontrastato la conca dell’Alpe Veglia, racchiusa tra altre montagne più modeste. È la più alta cima delle Alpi Lepontine, inconfondibile ed elegante quando vista dall’Alpe Veglia, ghiacciata e piatta sul versante meridionale. Assai frequentata per la sua via normale dal Passo del Sempione (per l’Alpjergletscher e la cresta sud), anche in primavera con gli sci, lo è un po’ meno per la via normale dall’Alpe Veglia (Passo Fné e cresta sud). Alla base del roccioso versante orientale è la desolata Piana d’Avino in cui s’incastona il lago omonimo: chiudono la corona il Pizzo d’Avino, il Pizzo Fné e la Punta Valgrande. A nord, dove termina il Chaltwassergletscher, si apre la Bocchetta d’Aurona, e da lì inizia la lunga cresta spartiacque, con la franosa cresta del Pizzo Terrarossa, la Punta di Aurona, la frastagliata Punta del Rébbio, la Punta Mottiscia fino al più alto Helsenhorn.

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L’idillio dell’Alpe Veglia ultima modifica: 2019-05-22T05:21:29+02:00 da GognaBlog

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