L’inizio – 3 (3-3) (AG 1959-001)
(dal mio diario, gennaio 1961)
Dopo la gitona al rifugio Cima d’Asta, ci fu l’ultima di stagione al Passo Silana con traversata al rifugio Quistaon, iniziata tardi e conclusa al buio, sopraggiunto ben prima di Pradellano. Ero con mia mamma e il sig. Badalini.
In seguito, tornato a Genova e poi a Borgomaro, mi venne la mania della bicicletta. In mancanza di una mia, fregavo regolarmente quelle degli altri, restituendole dopo al massimo un’ora. Cominciavano le scuole con lo spauracchio del latino. Ben presto il timore svanì, il latino non era più difficile di altre materie. Di quell’anno ricordo bene il gioco vario e interessante che facevamo nell’ora di ginnastica, una specie di palla avvelenata in campo: mi ero specializzato nell’evitare le pallonate, sia quelle dei “vivi” che quelle dei “morti”, aspettando cioè che la palla uscisse dal mio campo piuttosto che tentare di afferrarla senza lasciarla cadere a terra.
Nell’estate 1958 tornammo a Bieno, nella casa del primo e del secondo anno. Ci furono escursioni varie, anche con il sig. Badalini, ma la più bella fu quella al Lago Grande di Rava 2125 m, che finalmente potei raggiungere in una giornata splendida, non senza qualche incertezza sul percorso. Riuscii a convincere il Badalini, che era scettico sulla mia conoscenza del posto, che il lago “era sopra quel pianoro che s’indovinava sopra e dietro quel canalone erboso”.
Lago Grande di Rava, verso Cimon Rava
E allora su per il canalone e poi finalmente la mia vittoria. Tra l’altro, quando vidi il lago, non credetti più che due anni prima i miei compagni più grandi avessero raggiunto il lago e vi avessero gettato una moneta “dall’alto”, giacché la conformazione stessa del bacino lo esclude.
Dopo un secondo Giro delle Dolomiti, ci fu la gita al Passo Brocon. Badalini, la mamma e io rimanemmo tutto il giorno a girare per prati e malghe; poi affittammo due camere nel rifugio e vi passammo la notte. Allora non capivo neppure perché mia madre e Badalini avessero preso due stanze separate: a me avrebbe fatto piacere dormire tutti assieme! La mattina dopo ci alzammo di buon’ora e andammo su per un declivio erboso fino a una selletta. Il nostro obiettivo era l’albergo Piancavalli. Giù per i boschi, senza strada perché l’avevamo ormai persa, tra sterpi e brughiere, con l’eterno timore delle vipere. Arrivati al Piancavalli, mangiammo. Indi ci facemmo 5 km di carrozzabile non asfaltata per tornare al Passo Brocon.
Fu l’ultimo anno a Bieno.
Giunto in settembre a Borgomaro, un giorno mi svegliai evidentemente di traverso perché, senza dire nulla a nessuno, partii alle 9 di mattina alla volta di Maro Castello; poi seguii la carrozzabile per Ville San Sebastiano, poi Ville San Pietro; da lì, per altri 5 km, verso il paesino di Conio, dove arrivai alle 12.30.
Il paesino di Conio sotto al Monte Grande
Si deve sapere che Conio è un paese ormai morto, perché di gioventù non ce n’è più: praticamente il fatto di andare a Conio per molti non ha alcun significato.
Non avevo intenzione di tornare a Borgomaro per la carrozzabile, bensì per mulattiera. Girai tutto il paese alla ricerca di qualcuno che mi indicasse dove iniziava quel benedetto sentiero ma nessuno incontrai, se non anziani rincretiniti dalla solitudine. Stavo già incamminandomi sullo stradone, quando fui chiamato da un gruppetto di giovani che stavano attorno a uno con la lambretta con il motore acceso. Costui stava per partire per Imperia e mi prese bontà sua con sé. Così arrivai alle 13.30 sulla soglia di casa, dove trovai una specie di comitato di accoglienza non proprio amichevole.
Immediatamente quest’impresa fece parlare di me tutto il paese. Chi mi chiedeva con scherno appena mascherato cosa avevo visto di bello lassù, chi mi chiedeva chi me l’aveva fatta fare, chi mi lodava per la mia intraprendenza, chi non si capacitava come un bambino di 11 anni potesse essere arrivato fin lassù da solo.
Mia madre stava già per darmi delle botte, ma le evitai scappando per il “carùggiu” dove tutti parlavano di me. Così mi salvai dall’ira del momento.
Non era ancora spenta l’eco del mio successo che ne combinai un’altra grossa. Presi la bicicletta di un contadino e in due ore andai e tornai da Imperia-Oneglia (32 km). Ma quella volta, quando tornai, non riuscii a evitare che me le suonassero.
C’era un’equazione non scritta e non detta: chi s’iscriveva alla GIAC (Gioventù Italiana d’Azione Cattolica) era tenuto a servire Messa. Ma io a quello non ero portato. Nei panni del chierichetto proprio non volevo mettermi, anche se avevo il massimo rispetto per i miei compagni che invece lo facevano più o meno volentieri. Non c’era alcun giudizio negativo sulla cosa in se stessa: semplicemente non digerivo l’idea di indossare quella veste bianco-nera e seguire una liturgia preordinata dove l’iniziativa del singolo non era ammessa. Debbo anche aggiungere che non mi fu mai fatta alcuna pressione al riguardo.
La mia iscrizione agli Aspiranti era dunque dovuta alla voglia di socializzare, sapendo bene che i miei genitori mi avrebbero fatto uscire di casa solo se inquadrato in qualche gruppo degno di fiducia. Chi mi convinse a quel passo fu l’amico Gino Paladini, mio compagno di scuola (eravamo in seconda media), con il quale avevo un forte rapporto di amicizia. Era l’unico che poteva ogni tanto venire a casa mia per giocare e studiare, come pure io stesso ogni tanto andavo a casa sua in via Montallegro, distante da casa mia in via Rodi 2 non più di cinquecento metri.
Sentivo abbastanza la mancanza di un fratello e Gino suppliva bene a questa esigenza. Ci aprivamo uno con l’altro, ci sembrava quasi che avremmo avuto un futuro assieme. Gino era iscritto alla GIAC da tempo, perciò mi riempiva di racconti dei quali subivo il fascino.
Dunque mi misi a frequentare la Parrocchia di San Francesco d’Albaro: i ragazzi erano tanti, coetanei ma anche più o meno grandicelli di me. Gli edifici a sud della chiesa, in piazza Leopardi, erano di proprietà della Parrocchia. Avevamo perciò una bella sede al primo piano dello stabile all’angolo con via Oderico, giusto al di sopra del cinema parrocchiale (che oggi è un cinema d’essai). Subito accanto (a nord) c’era un campetto dove si giocava a calcio. La sua particolarità era d’essere in leggera discesa, dunque nelle partite era davvero obbligatorio il cambio di campo delle squadre. Non sono mai stato un campione a questo gioco, perciò il mio ruolo era quello difensivo di terzino, con la raccomandazione di non lasciare mai passare palla, a costo di calciare direttamente sugli stinchi degli attaccanti avversari. E non era una raccomandazione scherzosa… Si facevano anche diverse gite in giro attorno a Genova. Il sacerdote che ci seguiva era padre Giacomo Lanteri (che ho saputo essere mancato nel 2016).
In fondo al campetto, a destra, in una specie di seminterrato, era la sede degli aeromodellisti, anche loro inquadrati nella parrocchia. Scoprii perciò l’aereomodellismo, passando interi pomeriggi assieme agli amici più grandi a disegnare e costruire con la balsa modelli di alianti. Gianni Bandini, Mauro Levaro, Alberto Blasi e Raffaele Canepa furono molto pazienti con me. Partecipammo anche a gare provinciali, anche se all’inizio del terzo trimestre dovetti mollare e dedicarmi allo studio, per essere promosso con la media del 6 e mezzo.
Un giorno di marzo andammo in corriera da Genova alla Sagra di san Michele, all’inizio della Val di Susa. Giocammo a guardie e ladri, mangiammo, visitammo l’abbazia e poi in allegra compagnia tornammo a Genova, tra canti più o meno sguaiati. Ricordo che il giorno dopo fummo raggiunti da una notizia tremenda: mentre noi stavamo cantando durante il ritorno, entrambi i genitori di un ragazzo che era con noi, Riccardo Rossini, morivano in un incidente stradale. Ricordo con grande dolore come ce lo comunicò padre Lanteri, che in seguito si prese molta cura sia di Riccardo che di sua sorella. Oggi Riccardo é vice Console Italiano al Consolato in una nazione dell’America Latina.
Foto di gruppo della GIAC, 1958. Io sono al centro in seconda fila. Dietro di me, leggermente a destra, Gino Paladini. Riccardo Rossini è il secondo da destra, col berretto bianco, in prima fila. Foto gentilmente fornitami da Maurizio Opisso.
Per il resto, qualche riunione, partite a calcetto quando pioveva. Tutto questo non ricordo con precisione quanto sia durato, ma purtroppo ebbe una triste fine. Di colpo mi ero accorto che Gino mi evitava e non voleva più saperne della mia compagnia. Gli chiesi spiegazioni, lui me le diede ma evidentemente non mi bastavano perché non le capii. Il fatto che oggi non ricordi affatto quelle motivazioni potrebbe indurre a pensare che avessi qualche grossa colpa… che poi avrei rimosso. Ma poi ho riflettuto: la sofferenza e il disagio che l’episodio mi aveva provocato li ricordo invece benissimo, ancora oggi sono una ferita mai rimarginata. Dunque sono più propenso a sentirmi libero da colpe. Ma l’episodio non finì con quel confronto: perché Gino a mia insaputa ne parlò con padre Lanteri. Questi mi convocò un pomeriggio, alla presenza di Gino, muto come una sfinge. Il colloquio si trasformò quasi subito in una specie di processo, dove qualunque disposizione alla mediazione o al perdono da parte di padre Lanteri, ammesso che io fossi davvero colpevole, era esclusa.
Mi arrabbiai con entrambi. Uscii da quella stanza affermando che me ne sarei andato. Lo feci: non vidi mai più padre Lanteri, se non qualche volta mentre celebrava Messa. E quanto a Gino ci ignorammo per tutta la terza media.
Il campetto di calcio della parrocchia di San Francesco (2022). In fondo all’edificio bianco era la sede degli aeromodellisti; a sinistra, il cinema con al primo piano la sede degli Aspiranti.
Alla fine della scuola riuscii a farmi comprare la tanto sospirata bicicletta, con la quale trasgredii a tutti gli ordini, pedalando sull’Aurelia trafficata fino a Recco e Rapallo, oppure fino ad Arenzano.
Frattanto si pensava a dove andare in montagna. Mio padre diceva che non c’erano soldi, mentre mia mamma e la nonna si accordavano con la signora Dughera; nel frattempo io discutevo con Gianfilippo. Dopo aver scritto, esagerando un po’, a tutti i paesi del Trentino, riuscii a far prevalere la mia idea di andare a Soraga, in Val di Fassa, un paesino che avevo notato nella mia collezione di cartoline.
Viaggiando in treno di notte, scendemmo dalla corriera verso le 10 di mattina. Ci aspettavano la signora Dina Dughera, con Gianfilippo e il cugino Oreste. la nostra casa era vicina al torrente Barbide, nell’omonima frazione sopra al paese.
Si devono notare le scritte “Dirupi di Larsec”, “Catinaccio” e “T. Antermoia”. Ciò corrisponde ai miei sforzi di individuare quelle cime sulla mia carta geografica, quando ancora non disponevo che di una carta arretrata, scritta in tedesco, scala 1:250.000. Si può vedere che la scritta “Dirupi di Larsec” è giusta, ma le altre due no. Avevo comprato la cartolina nel 1958
Due giorni dopo vado in esplorazione solitaria a Tamion, scendendo poi a Vigo di Fassa e da lì a Soraga. Molto utile, perché giorni dopo ci torniamo in gruppo. Ci sorprende la pioggia, la mamma io forziamo fino a Tamion mentre gli altri s’infradiciano in discesa. Ci facciamo prestare degli impermeabili che poi restituirò io il giorno dopo.
Qualche giorno dopo la mamma ed io andiamo a piedi al Lago di Carezza, mentre la nonna e gli altri vanno in corriera. Per la poverina è una sfacchinata non male. Il gruppo non aveva fatto un passo a piedi, perciò mi prendo la mia vendetta. Dopo mangiato, tanto faccio e tanto dico che li convinco ad andare fino a Nova Levante dicendo che ci sono appena 2 km, mentre in realtà ce ne sono 5 con le scorciatoie. In quel pomeriggio di caldo soffocante mi tirano tante di quelle maledizioni che sono costretto ad ammettere di aver barato. Comunque lo scopo è raggiunto, e adesso ci troviamo nel centro di Nova dove, dopo aver acquistato l’immancabile cartolina, non ci rimane che attendere la corriera per il ritorno.
Da Tamion, Val di Fassa, verso Cima Dodici e Sass Aut (Monzoni)
Per la Malga Palua ancora faccio prima una ricognizione alle 14 per poi tornare con gli altri alle 16. Malga Palua è una radura in mezzo ai boschi, ricchi di funghi. In seguito sarei tornato lì innumerevoli volte, o per via dei funghi o perché sulla via del ritorno dal gruppo del Catinaccio.
Faccio conoscenza con Paolo Baldi, di Sesto San Giovanni. E’ con lui che istituisco il record di altezza, poi tutti gli altri. Io come record ho 2451 m (rifugio Cima d’Asta) e lui invece aveva 2741 m (Passo Santner), ma si apprestava a migliorarlo salendo il Piz Boè 3151 m.
La prima gita vera fu al Pian Fedaia, sotto al ghiacciaio della Marmolada. Con la corriera fino a Pian Trevisan, poi a piedi per la bella mulattiera. Avevo con me una vecchia cartina che non segnava il bacino artificiale del Fedaia. Arrivati là restai di sasso nel vedere la diga gigantesca.
Vi è un mondo di gente, una montagna ben diversa da quella della Valsugana cui ero abituato. I Dughera (oggi c’è anche il padre) propongono di prendere la seggiovia per il Pian dei Fiacconi, e così facciamo. Io ho una fifa matta, è la prima volta che prendo una seggiovia. Un madornale errore: credevo di non battere il mio record arrivando alla fine della seggiovia, e invece mi sbaglio, perché arrivato lassù leggo che siamo a 2626 m! Potete immaginare la mia contentezza, pensando che ogni passo che faccio mi porta sempre più in alto. Arrivo fino a 2680 m, pestando nella neve, ma poi sono richiamato da mio padre che ha paura dei crepacci. Giochiamo un po’ e ci guardiamo attorno, poi scendiamo da mia mamma, che non era salita per paura di avere freddo, e dalla nonna, che non era salita per paura della soverchia altitudine.
A casa sono felice di comunicare a Paolo la mia nuova quota, più bassa della sua di soli 61 metri.
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Caro Alessandro, sono le Dolomiti prima che cominciassero le battaglie per la loro difesa ambientale e prima che ne perdessimo la guerra…
La cartolina con i colori un po’ così, di Soraga, l’ho anch’io. Quella del Pian dei Fiacconi mi sa che “manca”.
Mi ritrovo in tanti tuoi sogni e in tante tue ingenuità. Io arrivai lì tre anni dopo, a Vigo esattamente, nel 1961. Feci in tempo a prendere la ferrovia da Ora a Predazzo, ricordo che i rami degli abeti entravano nei finestrini del treno. E la mia prima gita fu al Passo Ombretta.
A Tamion andavamo, noialtri bambini, a mangiare la panna montata.
Ah, a Soraga, ancora, scendevamo perché c’erano il minigolf e il campo da calcio!