L’uomo delle metamorfosi
di Andrea Gobetti
(già pubblicato su Rivista della Montagna (Roc) n. 157, ottobre 1993)
Lettura: spessore-weight***, impegno-effort**, disimpegno-entertainment****
Roc nasce a primavera. Quando la febbre da fieno sostituisce il raffreddore, il Redattore autarca si scuote dal letargo. Secondo gli ammaestramenti della doccia di casa che non conosce compromessi tra acqua gelata e rovente, d’un sol colpo la noncuranza diventa panico. Allora egli afferra la penna e scrive biglietti con richieste d’aiuto che infila nelle bottiglie tracannate l’inverno prima d’affidarle alle correnti del grande oceano su cui si specchiano tutte le montagne del mondo. Ogni mille bottiglie, una trova una risposta, provoca un cipiglio decisionista nel Redattore autarca, gli impone di caricare la sua “Maestro” d’ogni ben di Dio, dai friend ai pannolini, e d’imporre per la partenza coprifuoco e legge marziale. Quest’anno c’è una novità, il Redattore ha deciso di escludere l’uso delle autostrade perché troppo care; quindi, se lo state aspettando, preparatevi a mostruosi ritardi.
Al Filmfestival di Trento
Prima Tappa: Trento, filmfestival. La mitica settimana dove si vedono film di montagna, si parla con gente di montagna, si bevono vini di montagna. Ma nel tempio enoalpinistico non mancano i passaggi estremi.
Incontrai Mauro Corona verso l’una e mezzo del pomeriggio. La salita fu estrema, mozzafiato. A comando alterno, verso le 18 ci portammo a un tasso alcoolico del molto più di quanto credi per cento. A settemilacinque per cento, acchiappammo le bombole rosso rubino e abbandonammo gli sherpa per l’ultimo balzo verso la vetta del coma etilico. Il conto al bar riepilogava “quattordici ottomila”, ma in quella fummo colpiti dall’illuminazione fondamentale per la comprensione di Roc.
Rifiutammo di unirci al coro di “urrà” che tutti tributavano alla conquista dell’Everest. Il marchingegno della grande spedizione, della vetta più alta, non c’incantava, e ci indignava invece che in tutto quel cancan nessuno ricordasse che il 1953 era stato l’anno della più grande conquista alpinistica di tutti i tempi: la salita solitaria di Hermann Buhl sul Nanga Parbat.
La doppia pagina di apertura su Rivista della Montagna n. 157. Foto: Oscar Durbiano.
A quella rivelazione gli occhi ci si inumidirono, di fronte a un autoritratto di Van Gogh appeso nel mio bar preferito, e giurammo che avremmo spezzato la congiura del silenzio, perché è da soli, affamati, ribelli alle regole e in odio ai capi spedizione che si scrive la storia.
Hermann ci ascoltò e ci guidò in una sorta di delicatissima ritirata tra strade strette e auto in agguato. Avevamo anche paura che ci fossero dei vigili e ci facessero soffiare nella loro mongolfiera etilometra nonostante fossimo a piedi, così barcollavamo circospetti. Ma la potente guida spirituale di Buhl ci permise di riparare nel cinema per la proiezione serale. Là ci colse il torpore classico delle alte quote. Aprii un occhio e vidi sullo schermo un bel barbone in mongolfiera; sotto di lui c’era l’Everest. Rassicurai Mauro: sul Nanga Parbat non c’era ancora il circo equestre.
Il povero Berhault, Lynn Hill e Lafaille
All’indomani del duro stravacco, si fece sentire un dolorino intercostale tra il bacino e l’ultima costola destra, ragion per cui ci ripromettemmo prudenza e circospezione. Per di più Mauro era stato ferito in albergo dalla caduta d’un seracco, e quella sera c’erano molti film d’arrampicata, quelli che il Redattore autarca deve vedere assolutamente con occhio limpido per parlarne il peggio possibile. Mi sbagliavo: avrei potuto bere trielina e quei tre filmacci non avrebbero avuto sapore più schifoso. Erano falsi, falsi, falsi.
Una volta di più gli arrampicatori s’erano fatti prendere all’amo di celluloide per dare di loro, o lasciarsi cucire addosso, una maschera tiepida e melensa, da preti verdi se parlano della natura, e da buoni-esempio in tutte le altre occasioni. Per un attimo vidi con orrore il giorno che Roc fosse diventato l’album per raccogliere tutti i buoni-esempio e partecipare così all’estrazione annuale delle mie viscere peccaminose, piene di vino, cattivi pensieri e voglia di farla franca.
Il povero Patrick Berhault, che stimo dieci volte per ogni bicchiere che ho bevuto, sembrava uscito da un cinegiornale del ventennio. A torso nudo sulla trebbiatrice, raccoglieva il grano. «Fa il contadino» diceva il commento, «è tornato alle sue origini, alla campagna». Sarà, ma a me pareva Mussolini alla “battaglia del grano”. Poi l’ignobile pellicola ripercorreva la vita d’un santo che faceva arrampicare i ciechi a Fontainbleau, assicurava i giovani alpinisti, istruiva future guide e dava due dessert, sani e naturali, alla figlioletta. In 26 minuti non c’era spazio per un’ombra, un dubbio. Aveva fatto tutto bene, dal non fare le gare a fare la guida, dallo Shisha Pangma ai film acrobatici. Lo stesso Patrick Edlinger avrebbe dovuto guardarlo come fanno le meteore al cospetto delle stelle fisse.
Insomma, quella che nei fatti e nei pensieri è una delle persone più acute, controcorrente, profondamente problematiche che mai abbiano percorso, rivoluzionandola, la storia dell’arrampicata, veniva appiattita cancellandone ogni lato oscuro, ogni venatura ironica, dissenziente, con un’immagine piatta, bruciata dal flash della bontà che i produttori francesi devono dare all’arrampicata. Un tiro del genere l’avevano giocato in precedenza anche a Christophe Profit, voluto dal leader politico di centro-destra d’oltralpe come un bravo ragazzo francese candido ed eroico. E gli si costruì addosso una maschera di ferro che impedì ogni evoluzione del personaggio rispetto al trascorrere del tempo e alla successione delle sue imprese.
Poi toccò a Lynn Hill sostenere un edonismo reganiano che ha fatto il suo tempo, un essere yuppie sulla roccia che convince poco non solo i disoccupati, i profughi slavi e i sieropositivi che hanno ereditato gli anni ’80, ma neanche noi poveri di spirito che gli arrampicatori li vorremmo di carne e ossa.
«Noi tutti (intesi come gente di alta classifica nell’arrampicata sportiva, ndr) amiamo la natura». Mentiva Lynn Hill, sapendo di mentire, ignorando i totem e i garages, l’anoressia, le file di spit, la resina e la plastica cui affida le sue migliori emozioni. Poi l’arrampicatrice americana si gettò in un’arrampicata assatanata su El Capitan, finché fece un pendolo e il suo compagno mollò un attimo la sicura per gridarle il tempo e baciare l’orologio (casualmente pure sponsor della pellicola). Ai tempi di Walt Disney certe scene le facevano fare agli animali.
«Sesto io no, ma postremo» direbbe quindi Jean-Christophe Lafaille se recitasse abitualmente Carducci e dovesse esprimere quella modestia che secondo il suo regista è l’unico lato da mettere in risalto della sua vita. L’infelice pellicolante, se avesse potuto, lo avrebbe costretto a guardare sempre per terra, lungo una “via crucis” di luoghi comuni su cui ha fatto arrampicare il nostro eroe, dalla facciata della chiesa del suo paese sino alla tragica Sud dell’Annapurna, passando da Ceüze, la falesia del 2000. Per tutto il percorso, una sola volta il protagonista ha osato guardare sopra la linea dell’obbiettivo: per colpa d’un appiglio alto. Di tutto quel che sapevo di lui, scritto da lui stesso o dal suo mentore Pierre Béghin, non c’era traccia. Del desiderio di giustizia caparbio che lo ha spinto sulle difficilissime vie delle Jorasses o del Pilier d’Angle, per ridare autenticità alle imprese alpinistiche al di fuori dell’arte di strombazzare, nulla traspariva; per il regista è rimasta solo la modestia. Ma nessuno ha mai detto a costui che, se uno è modesto, lo si lascia in pace e non lo si manda sul palcoscenico?
Il capolavoro di Marco Preti
E a questo punto vi domanderete come il nostro butterato fegato sia sopravvissuto alla serata. Per vanità, miei cari signori. In mezzo a tanta paccottiglia c’era il capolavoro di Marco Preti, Il giardino dell’Aepiornis, che mi vede splendido protagonista. Sì, proprio io; io che non sono modesto, che in sette minuti manco m’alzo dal cesso, che coltivo la terra a bestemmie e me stesso soggiacendo ai vizi.
Il film cominciò, silenzio, non mi batteva più il cuore. Quando scrivo, sapere che mi leggeranno chissà dove e chissà quando è come aver vagamente in mente, arrampicando, che qualcuno potrebbe ripetere la via che stai aprendo. Non crea problemi. Ma averci tutto il pubblico intorno è diverso. È come… come, essere a una gara d’arrampicata. Oh, Cristo, dove mi son cacciato!
Due battute sedicenti spiritose scivolarono nel buio. Sulla terza un ragazzino sorrise. Poi risero. Ridevano davvero. Era fatta: li avevo fatti ridere! Dimentico di Marco Preti e Luca Venchiarutti m’attribuii nell’orgasmo (e dell’orgasmo) ogni merito. Li avevo fatti ridere nell’anno del redditometro. Ero un vero conquistatore dell’inutile.
Tornammo da Van Gogh quella sera stessa, e aspettammo l’alba con lui e con tanti amici; il vino era di quello cantato da Orazio e da Kkayamm, il vino del buonumore.
Dino Buzzati in incognita
La mattina era dedicata a una tavola rotonda su Dino Buzzati scrittore alpinista. Pochi si accorsero che era presente anche lui sotto le mie mentite spoglie. «Senta» m’aveva detto poco prima dell’alba quando finalmente la mia carcassa s’abbatté sul materasso, «se non le importa, potrei usare io il suo corpo per qualche ora: sa, c’è un convegno su di me. E’ una sciocca curiosità, un piacere d’altri tempi, un po’ come assistere al proprio funerale o leggere il proprio necrologio: una ragazzata, ma mi farebbe molto piacere».
«Certo» dissi io, troppo ubriaco per essere scortese con tanto sottile scrittore, «ma non lo faccia bere, se può».
«Non si preoccupi, torno per pranzo».
Buzzati mantenne la promessa, lo videro resistere a Mauro che proponeva una birreria per riportare in pari la pressione alcoolica sull’interno e sull’esterno della membrana del labirinto acustico, diniegò da gran signore aperitivi e cicchetti su cui son solito gettarmi, specie se offerti. Non lo videro neppure uscire a far pipì o in cerca di quelle boccate d’aria di cui normalmente avrei avuto tanto bisogno. Eppure, quando rientrò, non aveva l’aria allegra.
«E tu fa’ il terzo e il quarto. Quando arrivi al quinto, fammi un fischio». Foto: Oscar Durbiano.
Neppur io ero di buon umore. Nel sonno m’ero arrovellato maledicendomi per la mia dabbenaggine. «Potevo ben chiedergli d’insegnarmi a scrivere un pochino meglio, in cambio. Di insegnarmi qualche trucco nelle descrizioni, perlomeno…».
Continuavo a tormentarmi e, come capita spesso, una domanda troppe volte posta a se stessi non si ha più il coraggio di rivolgerla quando la persona in causa si presenta.
«Divertito?» chiesi invece.
«Mica tanto» fece lui con espressione da cane bastonato, «m’ha fatto piacere vedere in buona salute i miei vecchi amici…»
«E poi?» incalzai.
«E poi hanno detto che non sapevo arrampicare, che ero troppo ricco e troppo fifone, e, peggio che mai, non mi allenavo».
Lo guardai con tenerezza complice: chissà mai che avrebbero detto di me, che manco sapevo scrivere.
«Comunque grazie, è stato molto gentile» disse in fretta rimettendo il corpo a mia disposizione. Tuttavia, prima di svanire in un diedro gotico che s’era disegnato tra il letto e il soffitto, mi chiese ancora: «Ma lei si allena?».
«Sì» risposi già sveglio barcollando verso il bagno, «sì» risposi alla mia faccia gonfia che l’acqua squamava dalla vecchia sbronza. La bocca si sentiva stanca e formicolante. Mi sembrava d’avere mangiato un pile, ma ancora brontolai: «Certo che mi alleno, stasera ho la prova sui quattro litri».
Nella Valle del Sarca
Con Mauro ci lasciammo alle quattro del mattino. Avendo fatto voto solenne, Maurizio da Cimolais, il suo eroico accompagnatore, non aveva toccato vino per quei tre giorni del Condor e si incaricò di portarlo a casa. Immediatamente sentii una dolorosa mancanza. Erano anni che non mi divertivo tanto a Trento, e solo il pensiero che ci saremmo presto rivisti a Erto poteva consolarmi. Invece poi arrivarono Giuliana e i bambini, con Paul, la Laura e la bimba, e mi consolai prima del previsto.
S’andava tutti ad arrampicare per qualche giorno nella Valle del Sarca. A Vezzano, Bice, un’amica, ci lasciò alloggiare in casa sua e, a Santa Massenza, Luciano ci rifornì dalla sua cantina d’una Schiava gentile di nome e di fatto.
Annotai i cambiamenti del tempo: case e non più tende per i vagabondi dell’arrampicata, sacre leggi dell’ospitalità da onorare e ricambiare, e piatti da lavare, pavimenti da pulire, tavole da imbandire con la massima cura. Erano finiti i giacigli di strame, i wurstel intinti nella senape, le ingozzate di tonno e basta, tanto care vent’anni prima, e altrettanto le diete da fachiri dell’ultimo decennio. “Ben definiti” si acclamavano i più rotondi accarezzandosi l’intestino crasso, e non potei fare a meno di rallegrarmi di questo ritorno al buon senso.
Ma l’indomani mi toccava arrampicare, ed erano sei mesi che non lo facevo più. Avevano finito di ruggire coraggio gli epatocoboldi che solo la sera prima mi facevano promettere a Maurizio Giarolli e a Ermanno Salvaterra d’accompagnarli al Fitz Roy. Erano tornati in me i mesti sacrestani del buon senso, e Mauro era troppo lontano per scacciarli con un buon colpo di boccale.
La Valle del Sarca appare al viandante arrampicante come un arcipelago di perle. Guardando meglio, però, mi accorsi che erano perle coltivate. Troppo perfette.
Nella Valle del Sarca «tutto era impeccabile: accesso, sicurezza, spazi-bimbi degni di un Club Mediterranée». Nella foto, la falesia di Massone, Arco. Foto: Oscar Durbiano.
Tutte le falesie erano impeccabilmente servite dalla carrozzabile, riportate sulla guida bilingue, segnalate da cartelli che specificavano il tipo d’arrampicata a cui si prestavano. Il turista tedesco delle barzellette, Rotto Von Punk, ci sarebbe stato da papa, insomma. Le vie s’assomigliavano e assomigliavano ad altre. Gli arrampicatori anche.
C’erano i due vecchietti eroici, lui e lei dalla faccia piena di buonumore attorno al 6a. Le due ragazze spallone, col cerchietto in testa, che andavano sudando oltre il 6b. Il ragazzo che assicurava la bella e già pensava che poi avrebbe tentato un 7a. Il brizzolato da muri tecnici, mai sotto il 6c. I malcapitati chiassosi che saltavano giù da qualche tetto e la coda dei poveri sotto le solite, uniche vie di quinto, unte come le pignatte del Cottolengo.
Bestie da circo all’apparenza non ce n’erano, insospettiva qualche baldo trentino che tirava il 7a con attrezzatura dai connotati montani, ma qui poteva custodire l’anonimato senza sforzo. Che buffo: da quando le vie hanno perso il nome, anche gli arrampicatori sono diventati anonimi. Per un nome ora bisogna essere una palestra, al minimo. E i ricordi di un anno d’arrampicata si confondono nell’asettica constatazione: «Quell’anno viaggiavo tra 6c e 7a».
Insomma non capivo bene che ci facevo lì e poi mi ricordai che dovevo sgranchirmi le ossa e m’appesi, mi feci tirare, m’aggrappai e tutto il resto.
Intanto vidi il posto sotto una luce larvale. Tutto era impeccabile: accesso, sicurezza, spazi bimbi degni d’un Club Mediterranée, e m’accorsi che altre cose – i nostri discorsi vacanzieri, lo sfoggio del costumino firmato, le tecniche di seduzione della vicina dello spit accanto – erano degne d’un grande giardino d’infanzia per adulti, stupefacentemente gratuito. Lì appetiti voraci consumavano vie senza perdere il tempo di guardarle in faccia, se facilmente digeribili, o masticandole e maledicendole, boccone per boccone, se erano più coriacee dei loro denti. Il grande appetito, tipico dello stadio pre-adulto, contraddistingue un comportamento larvale.
Tra questi bruchi aggressivi qualcuno diventerà farfalla e volerà sulle montagne, ridurrà la sua fame, concepirà il mondo degli altri, incontrerà l’amore? Per chi, perché e per cosa sono problemi che riguardano quel diventare grandi, diventare adulti che ispira il presente numero di Roc.
«E tu sei ben acido, redattore mio» esclamò una voce dal nulla. «Stai mangiando il loro pane, toccando la loro roccia, non dimenticare».
«Ma hanno mollato la ricerca al primo gradino, si sono incantati sul primo gradino!» ribattei stizzito. Un fiume di parole mi si ingorgava in gola. Neppure una raggiungeva la lingua.
«E tu fa’ il secondo, il terzo e il quarto» continuò la voce dal nulla. «Quando arrivi al quinto, fammi un fischio».
Quella sera misi lievito di birra nella mia insalata e bevvi un solo bicchiere di vino, piccolo.
In alto, «bestie da circo all’apparenza non ce n’erano».
A Erto, finalmente
A Erto la luce aveva preso la cruda veracità del bianco e nero. Il mio amico era con le sue statue, oltre la vetrata, sotto il portico. La strada si stava scurendo di pioggia. Il toscano di Mauro era spento.
«E’ un brutta giornata, sai…».
«Ho un cartone di Schiava gentile» dissi senza ridere.
«Portalo dentro» rispose Mauro con tristezza; poi vinse l’imbarazzo e aggiunse: «È morto uno dei nostri, in miniera».
Presi il cartone e un sacchetto di pane e formaggio e tornai da Mauro, mentre Giuliana s’industriava a non fare inzuppare i bambini. Entrarono parecchi amici, mentre un tetto di ombrelli lucidi ricopriva la strada tra lo studio di Mauro e la chiesa dirimpettaia. Era arrivata la Morte.
«La vita sa già che perde» disse Mauro mostrandomi due statuette nere in atteggiamento di combattimento, l’una con l’alabarda e l’altra con la falce. «La Vita è sbilanciata in avanti, trascinata dal peso dell’arma, la Morte è agile, la falce non le pesa».
«Sa già che perde» ripeté toccando i muscoli di scotch nero della Vita con aria d’un esperto in combattimenti del genere. C’erano statue tutt’intorno ad ascoltarci. Con il nastro adesivo, Mauro aveva fatto solo la Vita e la Morte; per il resto aveva usato ogni sorta di essenze lignee, la pietra, il bronzo, la busa di vacca.
Le statue vivevano tra gli ospiti, qualcuna guardava la gente addolorata e fiera che entrava, usciva, salutava, accettava un bicchiere, fumava un toscano, si liberava di due parole sul tragico destino degli ertani. Erano statue di uomini e donne con i tratti del volto comuni alla gente della valle; i volti che hanno visto la montagna franare nel lago e sollevarsi l’onda che ha spezzato il tempo in prima e dopo la tragedia del Vajont.
Altre statue erano rapite in vicende più antiche, storie di quando l’uomo era ancora il figlio prediletto della natura e aveva diritto di sorriderle, di ascoltarne la voce e tessere i raggi della luna. In altre ancora, le voci dell’invisibile trovavano un volto, un corpo al gioco delle metamorfosi, ma non sempre apparivano liete di ciò che Mauro aveva dato loro. «Allora gli dico di stare attente alla stufa. La vedi quella civetta? È avvertita».
Per giorni avremmo galleggiato nel magico mondo delle metamorfosi. Un passo oltre il razionale, un altro dalle soglie della follia, le metamorfosi intrecciano uno speciale universo dove ciò che sembra indica la strada per raggiungere ciò che è. Il punto di partenza e quello d’arrivo apparivano lontanissimi, lo sbocciare di un ramo segnalava la bocca di un’amante, in un tronco era nascosto un toro, in un altro l’uomo ingobbito da una gerla. Io non li vedevo, talvolta ascoltavo discorsi inudibili, senza la minima idea di come si riesca a distinguere una madonna da una ballerina nuda tra le fibre del cirmolo, del noce o del maggiociondolo.
Invece Mauro sapeva. Intuiva il passaggio, lo “forzava”, si lasciava portare verso l’alto. Pronto a precipitare più tardi in una botte di vino, seguiva il vento notturno sino alla quota dei suoi misteri; al di là del freddo e del caldo vedeva le albe eccitare gli animali, torcere l’anima dei boschi e scivolare sull’ostentata ma finta indifferenza delle pietre.
La struttura permanente di arrampicata ad Arco. Foto: Oscar Durbiano.
Paura e morte
Tra l’arte e la follia c’è il peso della scure. La sua carta bianca, Mauro non la compra in cartoleria, i tronchi li taglia nel suo bosco, li trascina a valle, li sgrossa con ascia e motosega. L’errore non è concesso. Come aprendo grandi vie dal basso, l’intuizione dev’essere valida e l’esecuzione precisa. Bisogna essere all’altezza di un gran lavoro fisico, di una tensione psichica continua. Altrimenti sarebbe come annegare senza attraversare il grande fiume di vino che scorre tra la nascita e la morte.
«Insomma» riprese la voce dal nulla, «trent’anni fa quasi tutti gli alpinisti si sbronzavano con costanza e parlavano continuamente di morte, e lì che vuoi ritornare? S’è asciugato il Mediterraneo? S’è sgretolato il calcare di Provenza». Non aveva tutti i torti la vecchia, riconobbi.
«Solo per quest’anno» le promisi. «Se mi lasceranno fare ancora Roc, il prossimo anno torneremo al mare, andremo con la pelle abbronzata incontro al destino, o soltanto in gelateria, ma quest’anno bisogna affrontare la paura; i lettori devono sapere che Rigor Mortis e Delirium Tremens li divorerebbero crudi, se osassero superare i cancelli della montagna di cui essi son guardiani. Guai a quanti ritorneranno sulle montagne con la stessa incoscienza con cui si son precipitati sempre più in basso».
«A me sembra tutto più naturale. Sarà perché non scrivo, non penso: arrampico e basta».
«Sei tu che mi preoccupi, così cupo, ubriacone, cacciatore di trofei. Ti rendi conto che se non ci fosse stata l’arrampicata sportiva, non ci sarebbero i gradi alti e le vie sarebbero, come venti anni fa, già tutte arrampicate?».
A Cimolais, in osteria
Compiuta la penultima tappa, la classica salita del Campanile di Val Montanaia, giungemmo al mitologico capolinea, in osteria a Cimolais.
Qui si sedettero Napoleone Cozzi e Alberto Zanutti, nel 1902, e accettarono il vino che due viaggiatori tedeschi offrivano loro copiosamente. Qui la loro lingua si sciolse ed essi parlarono della loro impresa, di come e perché, appiglio dopo appiglio, erano giunti sino a metà della salita sull’invitto Campanile. Wolf von Glanvell e Karl von Saar ascoltavano e versavano vino nella gola dei triestini; sapevano di cosa gli alpinisti stavano parlando, perché li avevano spiati per tutto il giorno, col binocolo, da una cengia lontana.
E quando i due italiani si svegliarono, dei tedeschi non c’era più l’ombra in osteria. Quelli erano già sulla famosa cengia, intenti a forzare il camino von Saar che porta in vetta. Zanutti si consolò, qualche elettrodomestico glielo abbiamo comperato tutti prima o poi ai suoi eredi (qui evidentemente l’Autore fa confusione tra Zanutti e Zanussi, NdR). Ma Cozzi, che pure firmò il passo più difficile di tutta la via, non si riprese più e dal dispiacere morì tisico all’ospedale di Monza.
Sarà tutto vero? Domanda vergognosa. Qui non si bara al gioco: se si bara, lo si fa dopo raccontando all’osteria. A me pare più umano e più onesto delle impeccabili misurazioni sportive.
Quest’arrampicata non è figlia del tempo libero né del dì di festa; qui l’aranciata nasce dalla caccia, dal bracconaggio, trova il suo tempio all’osteria.
Anni fa Mauro incontrò tra queste mura Severino Casara, lo scrittore-alpinista di cui già si disse tutto il male e il bene del mondo, ma quel che oggi c’interessa di lui è l’ombra del dubbio che con lui grava sul Campanile. Nel 1925 Casara raccontò d’aver superato un traverso in grandissima esposizione togliendosi le scarpe per aderire meglio. Un traverso senza chiodi che adesso è valutato di settimo e che, oggi come ieri, non sembra portare altro che su una crestina priva d’appigli. Che ce l’abbia fatta non ci crede nessuno o quasi. Ma, quando oramai vecchio, chiese a Mauro: «Ma tu ci credi?», il mio amico capì che il dubbio d’essere creduto è ancora più struggente di quello di sapere se una cosa è vera o falsa.
Così mi raccontava Mauro poche ore prima sul Campanile, sotto la leggendaria doppia di Piaz, mostrandomi i chiodi che oggi seguono la via Casara. Tutt’intorno creste e pilastri apparivano e scomparivano tra nuvole di grandine e io concordai col parere di molti: «Tutte balle» dissi rivolto al traverso, «è assolutamente impossibile…».
Poi raccogliemmo le corde della doppia. Le stavamo filando per preparare la successiva, quando m’accorsi che qualcosa non funzionava, c’era un garbuglio.
«Guarda» dissi a Mauro, impietrito.
«Ma è impossibile» balbettò lui.
Mentre il fantasma di Casara rideva con denti di grandine, apparì un nodo a “8”, un Savoia, a far bella mostra di sé tra le spire della corda verde.
Scopri di più da GognaBlog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
A leggere Gobbetti piango di gioia
E Roc e Dimensione Sci li conservo tutti con fierezza!
Ma no, Ondra é un campione e non si discute. Lo dice anche Daidola che gli arrampicatori di oggi dovrebbero leggersi queste belle storie per arricchirsi interiormente. Anch’io volevo dire la stessa cosa ma mi sono espresso con tono da bar.
Bellissimo!! Però non capisco la frecciata ad Ondra da parte di Marcello Cominetti. Cos’avrebbe fatto Adam di male?
Andrea è un grande scrittore, un’artista di cui pochi hanno capito il valore. Averlo conosciuto, aver vissuto con lui gite e viaggi con gli sci, aver fatto insieme i 17 numeri di Dimensione Sci (lo speciale sullo scialpinismo della Rivista della Montagna a fianco di Roc sull’arrampicata) è stata per me fonte di arricchimento e di emozioni che costituiscono il sale della vita. Incredibili quegli anni ma per questo indimenticabili. Andrea dice delle sacrosante verità, a volte lo fa con una durezza spropositata ma sotto la sua scorza di uomo inflessibile non avvezzo ai compromessi, talvolta di pazzo furioso, si cela un animo buono, una persona con una sensibilità fuori dal comune. Potrei dire ancora tante cose belle su di lui. In particolare dei suoi stupendi racconti che impreziosivano Dimensione Sci. Una cosa è sicura: i giovani atleti della montagna dovrebbero conoscerlo e leggerlo, avrebbero tanto da imparare.
Sì, Marcello, davvero fantastico, che penna Gobetti!
Straordinario. Di quando l’arrampicata sportiva non aveva ancora una storia e si ricadeva irrimediabilmente nell’alpinismo. Se lo legga Ondra.