MarianoMoreno: l’esperienza totale
di Marcello Cominetti
(pubblicato su Freerider, febbraio 2008)
Affrontare una spedizione patagonica significa andare incontro alla totale incertezza di raggiungere l’obiettivo che ci si propone.
Questa inevitabile caratteristica ne fa certamente una meta per pochi, amanti dell’esperienza totale e che credono quindi che la meta non sia la cima ma il cammino che si fa per tentare di raggiungerla…
Reinhard Karl l’aveva definita nel suo bellissimo Tempo per respirare come “chiudersi in un frigo con un ventilatore acceso buttando nel cesso 100 marchi al giorno” e non era andato troppo lontano dalla realtà, ma oggi molte cose sono cambiate specie se si sceglie di soggiornare a El Chaltén il villaggio nato solo nel 1988 ai piedi delle montagne più belle e celebrate della regione australe.

Si può trascorrere l’attesa in paese dove il tempo (vento a parte) non è mai troppo brutto e si può arrampicare per tenersi in forma sulle numerose falesie e boulder dei dintorni, si può correre sui sentieri o farsi un giro in mountain bike… vivendo con la tribù di Campo Madsen un gruppo di climbers o aspiranti tali ed artisti del sopravvivere che popola l’angolo libero forse più suggestivo del pueblo.
Diverso è se si sceglie di andare sulle montagne che si affacciano sul versante opposto a quello a cui si accede dal paese, quello delle cartoline e dei trekking ai campi base del Fitz Roy e del Cerro Torre per intenderci… se si vuole andare “oltre” bisogna vedersela con lo Hielo Continental, decisamente un altro mondo, ricoperto di ghiacci per una dimensione di circa 400×80 km! Da questa incredibile “pampa de hielo” si innalzano innumerevoli cime misteriose, spesso avvolte nelle tempeste e poco o nulla salite. Montagne enormi con dislivelli himalayani anche se alte poco più di 3000 m ma si deve considerare che El Chaltén è a 400 m di altitudine e la cima del Fitz Roy che domina l’abitato è quindi… 3000 metri più in alto!
Pochi accessi e piuttosto complessi permettono di “entrare”- è la parola più giusta – nello Hielo, passare dall’altra parte costa fatica perché occorre essere indipendenti per tutto il periodo che si desidera, o no, trascorrervi.
Occorre sovradimensionare le riserve di cibo perché alcune tempeste impediscono a volte di muoversi per molti giorni ed infine si parte sapendo che un eventuale soccorso in caso di incidente è pressoché impossibile perché il maltempo costante lo impedisce ma soprattutto per la mancanza di mezzi e persone per farlo come lo si fa sulle nostre “viziate” Alpi.
Autonomia! è la parola d’ordine, che significa zaini belli pesanti, esperienza di certo e soprattutto “testa” per ridere quando il vento ti porta dove vuole lui, invece di disperarsi, per ridere sempre di situazioni spesso tragiche ma che le persone possono trasformare in comiche per il loro modo di essere con un’energia che può spostare le montagne più grandi… proprio lì sta la forza dell’essere umano che viene fin qui, proprio laddove stanno anche tutte le debolezze e paure di chi questa forza non ha…
Mi era già successo di partire in due, il minimo di persone per almeno farsi sicura sui ghiacciai più crepacciati o nella tormenta quando la visibilità arriva alla punta degli sci o poco più e il vento ti spalma addosso aghi ghiacciati che penetrano anche attraverso il goretex. In due si corre il rischio di aumentare la tensione nei momenti difficili ma se i due sono “giusti” e sanno ridere dotati della necessaria leggerezza di spirito, secondo me indispensabile, la tensione non arriva mai.
In pratica bisogna partire dicendosi “proviamo e vediamo se ci riesce…” se no pazienza.
Partiamo in due anche stavolta, la scorsa stagione con Luca Maspes su per la Ovest del Torre ed ora, solo pochi mesi dopo, con Giulia Monego da Cortina d’Ampezzo 26enne maestra di sci e Freeskier professionista parte dei team The North Face e Kaestle come lei stessa si definisce quando vuole fare capire cosa fa nella vita con chiunque si ritrovi a parlarne, che per la prima volta vuole provare (giustamente, aggiungo io) l’esperienza totale che solo qui ed in pochi altri posti ormai, trova il suo terreno ideale.
Conosco Giulia più professionalmente che come persona perché lavora anche per l’agenzia Guide Alpine Star Mountain di cui faccio parte anch’io, ma il suo sguardo mi ispira la grinta necessaria laggiù, quindi, forte del principio non infallibile da sempre sostenuto da mia madre che la prima impressione è quella che conta, sono convinto che sia adatta al tipo di esperienza. Nessuno è perfetto, no?
Ovviamente partiamo con gli sci per una meta situata nel bel mezzo dello Hielo Continental Sur dopo che io, guida alpina con ormai non ricordo più quante spedizioni nella zona, ho appena ricevuto la comunicazione dai miei clienti che per motivi che qui sarebbe inutile spiegare, non sarebbero più venuti per tentare il Mariano Moreno 3450 m di quota… più o meno, gigante simile ad un incrocio tra il Monte Rosa ed il Bianco. Fantasia geologica inesistente alla quale ho sempre assimilato le forme di questo immenso massiccio che ho circumnavigato ed in parte asceso diverse volte senza mai salirne la cima principale.
Lungo lo stesso versante che vorremmo percorrere erano saliti nel 1958 Mauri e Bonatti dopo i loro tentativi di prima ascensione assoluta al Cerro Torre da ovest frustrati da difficoltà per allora insormontabili.
Versanti ripidi regno del misto, seraccate sospese e pendii sciabili di ogni inclinazione, il tutto circondato da ghiacciai belli grossi, costruiscono questo dinosauro australe remoto e poco accessibile in tutti i sensi… è li che siamo diretti con i nostri zainoni, soprannominati da Giulia “gorillini”, mentre arranchiamo su per i pendii di Paso Marconi porta d’accesso allo Hielo Sur a circa 1500m di altitudine.
Il tempo è poco brutto quindi si va avanti bene tra qualche raffica di vento che destabilizza ogni tanto ma neppure troppo.
Arriviamo fino all’inizio del Ghiacciaio Marconi in scarpe da ginnastica che qui nascondiamo sotto un sasso della morena mettendole in un elegante cartella gommata trovata sulle rive del lago Electrico probabilmente smarrita da un trekker sorpreso dal vento,visto il tipo di oggetto, e che è diventata ora la borsa del mio notebook.
Calziamo gli scarponi da scialpinismo e più scomodamente proseguiamo fino a dove la neve ci permette di usare un po’ la slitta per trainare gli zaini. Poi il pendio si fa più ripido e ci tocca rimetterli in spalla ma sarà solo per poche ore perché i pendii sommitali del Paso sono pianeggianti e da qui in poi la slitta, battezzata “la Tina”, ben sciolinata da Giulia farà la sua parte importante scarrozzando diligentemente tutte le nostre masserizie per i ghiacci…
Dopo due notti passate nel comodo bivacco fisso cileno da poco costruito nei pressi del Paso ai piedi del Cerro Gorra Blanca, a causa del maltempo, Giulia mi dice che sarebbe partita anche con il brutto perché non ne poteva più di stare lì ferma. Il barometro era salito un po’ e se nelle prossime 2 ore continuava a salire saremmo partiti di certo…
Dopo cinque minuti Giulia con un intuizione femminile, forse, inizia a preparare lo zaino, io faccio lo stesso e quando abbiamo finito senza dire “né a né ba” carichiamo tutto sulla slitta e ci infiliamo nella nebbia ed il vento… Dopo mezzora il tempo migliora sensibilmente e ci spostiamo come volando verso il Nunatak Witte a circa 28 km di distanza in direzione 230 gradi Nord senza GPS perché non l’ho mai usato e sono sempre arrivato dove volevo con la più semplice e leggera bussola.
Gli angoli più inaccessi del pianeta sono stati raggiunti prima dell’invenzione della radio, mi dico, quindi non ci serviranno di certo diavolerie elettroniche supplementari per muoverci qui…
Salutiamo le sagome del Fitz Roy e del Piergiorgio ed allontanandoci dal Cordon Marconi, da dove ci osserva divertito il Cerro Dumbo, iniziamo a vedere il gruppo del Cerro Torre da Ovest, una visione quasi mistica che ci accompagnerà in tutti i giorni di… visibilità.
Facciamo il primo campo nel mezzo del nulla decidendolo solo con un “qui” repentino vista la totale mancanza di punti di riferimento, al primo accenno di Giulia che dice:”io sarei un po’ stanchina”, alla Forrest Gump…
Fa molto freddo, buon segno, il vento spira lieve da sud mentre costruiamo il nostro primo muro per sistemare la tenda al riparo dal vento appunto.
Quando ci si ferma dopo avere trainato la slitta tutto il giorno non bisogna pensare che la fatica si esaurisca lì.
Mica si è arrivati a casa… costruire un buon muro con tutti gli accorgimenti strutturali ed aerodinamici richiede un paio d’ore di duro lavoro con la pala quindi solo quando sono le 10 entriamo finalmente in tenda dove bisogna iniziare a fondere la neve per fare acqua e cucinare standosene sdraiati nei sacchipiuma come antichi romani sul triclinio…
Che piacevole è il senso di calore che infonde la tenda quando si riempie di persone e cose ed i lavori necessari alla sopravvivenza procedono naturalmente spediti. Giulia si adatta subito ai ritmi come lo avesse fatto da sempre, è contenta, ed il posto le pare fantastico,la mancanza totale di privacy non è un problema ed io sono felice a mia volta di vedere che accada tutto ciò.
Carichiamo le batterie con il Solio il nostro piccolo pannello solare per avere sempre buona musica nel mp3 a disposizione, per me è più importante dell’avere l’acqua ascoltare un po’ di musica ogni notte prima di chiudere gli occhi nel tepore del sacco nell’attesa involontaria del giorno che verrà con tutte le sue cose a cui non penso mai prima di riaprire gli occhi…
Ci svegliamo accolti da una temperatura decisamente polare che ci fa alzare di malavoglia abbandonando dopo una lunga e filosofica prima colazione il caldo del saccoletto pieno sul fondo di tutte le cose che devono restare calde come batterie, gas e acqua, calze ed eventualmente qualcos’altro da fare asciugare.
Dopo avere caricato tutto sulla slitta ripartiamo nel sole che in breve ci arrostisce mentre ci ricopriamo di crema protettiva e diciamo frasi con poco senso giusto per ridere. In mezza giornata siamo a quello che decidiamo fungere da campobase per la nostra ascensione, quindi un pomeriggio di ozio è benvenuto.
Optiamo per salire il Mariano Moreno in una sola “botta” a differenza di chi fa un campo intermedio che secondo me può solo essere pericoloso. Infatti si allungano i tempi di permanenza sulla montagna con maggiori rischi di incorrere in periodi di maltempo che potrebbero fare finire la riserva di cibo come successo a due amici pochi anni fa che si salvarono solo per fortuna…
Siamo ben allenati e motivati, quindi senza nessun dubbio decidiamo d’accordo di fare così senza neanche discuterne e i 2200 metri di dislivello distribuiti su una quindicina di km li faremo di certo, su questo non dubitiamo minimamente anche perché le giornate della primavera australe sono lunghissime, che volere di più?
L’alba del giorno dopo è nuvolosa e ventosa, si sta in tenda al sonnecchio fino a quando metto per caso il naso fuori mentre Giulia dorme e… è bellissimo, il muro di neve fatto alla perfezione ci riparava anche dal rumore del vento… si parte un po’ in ritardo, ma si va!
Con i sacchi leggerissimi procediamo veloci e solo un labirinto di seracchi ci fa fare un po’ di manovre con corda e piccozze. Risaliamo “la pista” un tratto caratteristico del ghiacciaio che a causa dell’incessante vento che soffia da ovest si ricopre di neve riportata dal vento formando una striscia di neve uniforme e liscia che sembra una pista…nera!
I zig-zag si fanno sempre più serrati e raggiungiamo l’esteso spallone totalmente di ghiaccio spazzato dal vento, che seguito verso sud porta alla vetta che si vede sembrando perfino vicina. Occorreranno 3 ore per raggiungerla perché è lontanissima e nel frattempo il vento aumenta abbastanza portando da ovest le solite nuvole minacciose del Pacifico poco distante che mi fanno un po’ preoccupare perché potrebbero complicarci la via del ritorno.
In cima ci fermiamo lo stretto necessario per levare le pelli e stringere gli scarponi ormai circondati da nuvole minacciose che ci mettono una certa fretta. Tra freddo e un po’ di preoccupazione non sappiamo se siamo contenti della vetta o siamo sollevati solo dalla fine della fatica del salirla.
Giulia ha un atteggiamento ideale, è tranquilla forse perchè si fida di me oltre che di sé, e ci divertiamo a sciare tutti quei tipi di neve che stanno li sotto ad aspettarci.
In verità avevamo individuato una discesa diversa più diretta e molto ripida per divertirci di più ma quando il tempo sembra guastarsi dobbiamo per forza ripercorrere a ritroso le nostre tracce di salita per non metterci nelle incognite di un terreno nuovo con scarsa visibilità.
Giulia mi fa capire di avere buone gambe e fegato quando mi dice che si sarebbe lasciata scivolare diritta lungo quasi tutto lo spallone. Si mette a uovo quasi subito e la vedo rimpicciolirsi sino a scomparire del tutto come in una dissolvenza e capisco anche perché avevamo impiegato tanto per risalire quel lungo tratto che ha dimensioni davvero ciclopiche… patagoniche come direbbe Melville!
La ritrovo poco dopo mentre cerchiamo l’imbocco della “pista” nel witheout appena accennato che ci fa però sciare come ubriachi anche perché ora siamo legati. Avete mai sciato legati nella nebbia specie se non avete nessuna voglia di andare piano?
Né io né Giulia siamo sci alpinisti classici, e ce lo ripetiamo spesso, specialmente durante la salita, che è faticosa, bella e fa parte dell’avventura, ma che ha soprattutto uno scopo più importante che il portarci semplicemente in vetta, ha il potere di farti guadagnare metri di curve da goderti al ritorno in un ambiente così unico e spettacolare!
Da sciatori la salita ci sembra noiosa ed anche più rischiosa proprio perché manca dell’adrenalina indotta dalla velocità che comunque fa essere più leggeri e mobili anche su pendii che in salita possono essere una trappola da valanghe, pericolo di cui siamo perfettamente consci e che nel possibile cerchiamo banalmente di evitare.
Decidiamo di fare una variante proposta da lei sulla seraccata non appena la visibilità migliora, che si rivelerà vincente evitandoci i ghirigori dell’andata fino al piede del ghiacciaio dove una migliore luce ci permette di lasciarci andare velocemente verso il piattume dello Hielo Patagonico Sur dove è la nostra piccola ma preziosa tenda.
Filiamo veloci saltando alcuni crepacci sempre legati a “corda lunga” come una macchina ben rodata che non si inceppa mai fino alla cresta che domina l’affioramento roccioso del nunatak Witte. Qui ci sleghiamo, Giulia va avanti ed io mi fermo a guardarmi attorno… il vento qui non da fastidio, il mio corpo è caldo dal movimento di tutta la giornata, filmo ancora e scatto qualche foto… Lungo il ghiacciaio Viedma le nuvole formano verso levante al fondo un muro blu scuro mentre il sole ormai basso a ponente illumina le montagne, il contrasto è da pelle d’oca. Mi fermo a pensare a tutte le avventure vissute su quelle montagne che amo più di ogni altre perché belle, remote ed impopolari, mi dico che un’altra avventura si è compiuta e come ogni volta mi commuovo della tristezza che mi da la fine del cammino che ho appena percorso.
Non sono mai stato felice dopo una meta raggiunta perché in quel momento capisco che l’avventura è finita e mi ci vorrà tempo per iniziarne un’altra, per assaporare i momenti che ogni più piccola cosa ti regala per ritrovare negli sguardi dei compagni la complicità indispensabile a fare di ogni avventura una bella storia a sé.
Spero che Giulia impari da questo “viaggio in tutti i sensi” proprio questo fondamentale elemento.
I monti sono solo una scusa per respirare l ‘aria che noi stessi ci scegliamo fuggendo da atmosfere che ci stanno strette e mentre lo penso convinto punto gli sci verso la tenda che non vedo perché è distantissima ma so che è là… Raggiungo Giulia ed insieme scivoliamo dritti lungo l’infinito pendio graduale e particolarmente bianco che porta alla tenda che si materializza come nel contrario della dissolvenza che mi aveva fatto non vedere più Giulia qualche ora prima…
Mentre scivoliamo sono contento di respirare la mia aria, sentirne la fredda carezza sulle guance e sulla punta del naso e notare che quello che vedo intorno semplicemente è straordinario. Entrati in tenda la piacevole stanchezza che conosco fin troppo bene ci fa fare tutto lentamente mentre sorbiamo un caffè bollente nel disordine dei tanti oggetti costretti in poco spazio, noi inclusi,in attesa della minestra, la solita ottima sbobba!
“Respira, respira nell’aria, non temere che ti piaccia
[…] ed ogni sorriso che donerai ed ogni lacrima che piangerai
è tutto ciò che vivi e che vedi e che la tua vita sarà sempre… (Roger Waters)”.
Il ritorno è solo apparentemente senza storia perché avviene il giorno dopo a gran velocità e senza neppure accorgercene perché la neve pare compatibile con la sciolina già sotto le nostre pelli di foca e la slitta. Altri due giorni al bivacco fisso ci fanno ben sperare in un buchetto di sole per salire il Cerro Gorra Blanca che promette pendii da grandi curve veloci, ma sarà invano.
Dovremo scendere dal Paso Marconi nella tempesta peggiore che potevamo incontrare, perdendoci nel bianco e finendo giù per un ripido canale di ghiaccio tra odiosi crepacci dove il vento ci strappa “la Tina” che non rivedremo mai più mentre ci carichiamo i gorillini nuovamente in spalla e come in una allucinazione ci trasciniamo fuori dai ghiacci inciampando ripetutamente sulla morena spinti da un vento bastardo che sembra presentarci il conto per il bel tempo goduto giorni prima…
Ma “la Tina” so che non è perduta, conosco troppo bene la valle del Rio Electrico e chi la percorre (venti inclusi), quindi so che tra qualche giorno la rivedrò, ho tempo per aspettare e… peggio per lei, la ri-trascinerò ancora sui ghiacci infiniti di questo pianeta a parte che si chiama Patagonia.
9
10) ci ho pensato piu’ volte ma ormai gli anni son passati…per me e per i compagni di imprese “alle porte di casa”. Altopiano delle Pale di san Martino in inverno particolarmente innevato. Tutto il resto come per Patagonia in dimensioni territoriali ridotte e tenda in fondo alla “Busa di Manna”.
https://www.palarondatrek.com/busa-di-manna-il-polo-nord-delle-dolomiti/
Qualcuno potrebbe provarci. Anzi forse e’ un già fatto, senza relazioni.
Il tema “Gervasutti” è fuori asse rispetto all’articolo e quindi non lo alimeterei: non è questa la sede. E’ però doveroso sottolineare pubblicamente che l’idea che avete del personaggio Gervasutti è sbagliata, o quanto meno imprecisa (molto imprecisa). Certo, anche lui aveva dei momenti di “inquietudine” (come in vetta alla Jorasses o quando “disprezza” la folla cittadina, che si agita per i regali natalizi, mentre lui sta per partire verso l’invernale al Cervino), nonché una significativa spinta “avventurosa”, ma nel complesso era un individuo perfettamente inserito nella vita cittadina torinese, sia nel CAI che nella collettività in generale. Ogni cosa va quindi contestualizzata a puntino.
#1, “Foto all’altezza”.
Mah, non saprei. Di sicuro escluderei quella della Monego col gatto in braccio e i due “orifizi” in primo piano.
Come direbbe De Andrè una foto all’altezza “del buco del culo”.
È meglio salire la torre dei nostri sogni e infrangere la perfezione o mantenerla in vita dentro i cassetti deformati e desiderosi della memoria? Caricare nei pik up i prodotti coltivati negli orti grandi e piccoli che la vita ci ha concesso e a cui abbiamo dato magari una fortunata spinta?chissa!..ognuno sa e fa a modo suo.
Vorrei se posso dedicare queste foto e queste immense terre al mio amico Dario che da un anno inspiegabilmente non vede più…uno su centomila…dicono i dottori.
O anche a Federico a me sconosciuto ma non per questo meno vicino che da l’ altro ieri ha tolto il suo respiro da quello del destino senza spazii e movimenti.
p.s. in attesa di altri racconti e un finale per gli incappucciati un saluto.
Tranquillo Fabio.
Gervasutti è stato un grande ma un pizzico di leggerezza non gli avrebbe fatto male.
Benassi e Cominetti, guai a voi se mi parlate male di Giusto! Sarei capace di commettere prima un benassicidio e poi un cominetticidio. 😉😉😉
E per quanto riguarda Gervasutti, mi dichiaro piú gervasuttiano di Crovella. Sono cresciuto con Scalate nelle Alpi sotto il cuscino.
ci mancherebbe Cominetti, mica ti paragono a Gervasutti. Lo vedo benissimo che sei una persona allegra e positiva.
Non certo come il Crovella panzer cantore di Gervasutti….ahahahahah
Solamente hai parlato di inquietudine.
Concordo con te che una buona inquietudine è un ottimo carburate per fare le cose.
Marcello, io ti vedo là, sulla vetta solitaria del Cerro Torre, al tramonto di un giorno di sole e di battaglia. E cosí, pensando e scherzando, ne è nata una poesia che ora ti propongo:
Via tra lo sdrucio de la nuvolaglia
Erto, aguzzo, feroce si protende
E, mentre il ciel di sua minaccia taglia,
Marcello Cominetti al sol risplende.
P.S. In realtà ci fu un “tizio” che ne scrisse una simile dedicata al Dente del Gigante, ma questa è piú bella. 😂😂😂
… … …
Senza ironia, con stima.
Mettila come vuoi ma sentirmi paragonato a Gervasutti proprio non mi va. L’inquietudine cui faccio riferimento è un sentimento positivo. Uno stimolo a fare, alla curiosità e all’azione. A Finale Ligure c’è persino la Festa dell’inquietudine e non è di certo una roba triste, anzi!
Ognuno di noi indirizza le sue energie dove meglio crede. Mi reputo una persona assai positiva e mi piace affrontare ogni cosa con leggerezza ma con una determinazione di fondo che viene alimentata appunto da quel sentimento d’inquietudine di cui sopra.
Occhio che la leggerezza cui mi riferisco non è superficialità. Delle cose che mi interessano mi piace andare a fondo, ma…. ridendo.
Bello, fa venir voglia di andarci
bhe, non è Gervasutti non fosse un tipetto inquieto…
a quando un libro di Marcello Cominetti?
5) dopo l’escursione di un solo giorno o dopo un periodo piu’lungo di vacanza in montagna..ritornare a valle (afosa o nebbiosa) quando lasci le prealpi alle spalle ..ti fa dire “..e’ finita!(per oggi..per questa settimana…per un anno),In certi periodi…si e’ immersi in una colonna di auto di residenti montanari che..anelano invece le spiagge sabbiose,la calura torrida e afosa, il caos , le nudità rivelate ,in varie percentuali ,che siconcentrano sulla battigia, ombrelloni e lettini in disprezzo della prossemica.
Il non sentirmi felice quando una bella avventura termina non lo associo a Gervasutti ma semmai al fatto che tutta la felicità di cui posso godere si esaurisce durante l’avventura stessa. La chiamerei inquietudine semmai, ed è la forza che ti fa partire ogni volta per una nuova avventura, appunto. Perché in questo tipo di avventura ci si spacca il culo dalla fatica. La pulka quando la tiri sulla neve è uno scherzo, ma spesso per arrivare alla neve e poi allontanartene te la devi scarrozzare sulla schiena, assieme allo zaino, per qualche giorno. Occorre una forte motivazione, sapendo in anticipo che potrai fallire più probabilmente che trionfare. Per me sono gli ingredienti perfetti. Per cui alla fine ti dispiace che una cosa che ami alla follia finisca. E trovare un’avventura successiva che ti stimoli a ripartire soddisfacendo i tuoi gusti è massacrante.
Raggiungere una cima, o comunque una meta è una questione di quantità. Il come e con chi farlo è questione di qualità. E come i pasticcini, non sai mai quello che ti capita (cit. Forrest Gump), ma se li sai scegliere si.
Grazie Giulia per le belle parole. Ci siamo divertiti!
Dipende.
https://youtu.be/54hFiN1f3NQ
“Non sono mai stato felice dopo una meta raggiunta perché in quel momento capisco che l’avventura è finita.”
Trattasi di classica reazione ‘gervasuttiana’.
Io invece nel mio piccolo (piccolissimo, quasi microscopico… ma tutto è relativo) sono sempre stato felice: “Ce l’ho fatta! Io, proprio io!”.
… … …
A questo punto si potrebbe avviare un interessante dibattito nel GognaBlog, dai profondi risvolti filosofico-esistenziali: “Tu, dopo la tua impresa, ti senti gervasuttiano o no?” 🤔🤔🤔
Insomma, come cantava quel tale, “tutto dipende. E da che dipende? Da come guardi il mondo tutto dipende”. 😂😂😂
Battuta a parte, è vero. Quasi del tutto.
Ridere… bisogna saper ridere.
Mi fa piacere rileggere le nostre impressioni del momento su quella foto del diario . Quelle sono le emozioni genuine e reali vissute al momento e mi riaccendono dei bellissimi ricordi ed immagini nella memoria. Anche le parole dell’articolo di Marcello comunque sono bellissime e in effetti da quel viaggio ho imparato tantissimo, Grazie Marcello! grazie a Gognablog per avermi rifatto vivere questo bellissimo lontano ricordo.
Non sarebbe esperienza totale, ma nel piccolo di qualche zona montana italiana ci si potrebbe avvicinare. Per intanto spostamenti con traino di slittona detta pulka..comperata o fai da te…caricata con tutto il necessario. Volendo ci sono carrellini per bici con possibilita’ di sostituzione di ruote( utili in mancanza di neve) con sci
tanto per evere un’idea:https://www.bike24.it/prodotti/325235?gclid=EAIaIQobChMIn5CFguqz-AIVmt_tCh1eAgxhEAsYCSABEgIFS_D_BwE
Bella gita.
Foto all’altezza.