Metadiario – 196 – Montagna padre del Mondo (AG 1995-006)
(scritto nel 1995)
– Ma cos’è quella montagna appuntita, alta, a destra del Monte Rosa? Dev’essere ben alta, perché è molto più lontana e non appare più bassa!-
Era una domanda di tanti anni fa e la risposta venne dopo un po’ di tempo, quando seppi delle montagne dell’Oberland Bernese: Finsteraarhorn.
Questa piramide sottile e slanciata è un prodigio della natura. È la più alta vetta di tutto il gruppo, ben visibile da molti angoli delle Alpi, con un accesso alla base veramente problematico. Basta pensare che per andare alla Finsteraarhornhütte, unica base di appoggio per la salita della via normale, in genere occorre fare un primo pernottamento in un altro rifugio: come se l’avvicinamento al Finsteraarhorn permettesse solo un metodo himalayano! Già esaminando le belle carte svizzere (la topografia come missione ed arte) ci si rende conto delle distanze da qualunque centro abitato o strada carrozzabile, ma quando poi ci si mette in cammino la marcia è interminabile.
È notte fonda allorché usciamo dall’incustodita Finsteraarhornhütte per scendere sul ghiacciaio addormentato e spennellarlo a lievi sciabolate con le nostre microluci giallastre. Il cielo stellato promette un’alba gloriosa, siamo più eccitati di altre volte mentre saliamo i pendii di neve e ghiaccio che portano all’Agassizjoch.

Montagna è un’immagine che ci portiamo dentro, che ciascuno di noi ha interpretato in modo personale. Anche le popolazioni più lontane da qualsiasi forma di rilievo montagnoso hanno una sia pur vaga idea di cosa è un monte; anche gli individui più “marinari”, perfino gli isolani, se interrogati, possono fornire una descrizione personale di quello che essi “vedono” come montagna.
Coloro che hanno conoscenza geografica delle montagne, o per averle percorse da alpinisti o per esserci nati ai piedi, ne tratteggiano certamente un profilo più rispondente alla realtà. Ma questo loro modo diretto di identificare la montagna non è poi molto dissimile da quello proprio degli estranei, non fosse altro che per l’oscura immagine di fondo, un insolito qualcosa che ha a che fare con il potere, la grandezza e perfino con quello che molti hanno chiamato il “confine della patria”.
Giunti al colle, il chiarore in cielo ci fa correre affannosamente verso la cima. I colori caldo-violacei dell’orizzonte sono il contrappunto della fredda serenità che ci circonda. La piramide sta emergendo dalle oscurità, il Finsteraarhorn galleggia come un iceberg più isolato che mai, pronto a ricevere il tripudio del primo sole.
Anche senza scomodare troppo le teorie freudiane, possiamo dire con semplicità che la montagna che incombe su un piccolo paese e su una valle è giustificatamente assimilabile alla figura paterna.
Il Finsteraarhorn non è mai stato la vetta di alcuna valle per alcun montanaro, perché appartenente ad un altro piano, superiore, distante. È padre solo per noi che conosciamo da vicino tante montagne. È padre del nostro mondo.
Il monte possente è spigoloso, ruvido, in apparenza anche ostile: ma nello stesso tempo è protettore. Come il bambino vede nel padre la figura forte e dura cui però è necessario fare riferimento per crescere, una presenza incombente dispensatrice di timore e protezione, così la montagna che si erge al fondo della valle è altissima, irraggiungibile, potente, misteriosa.
Così noi abbiamo cercato il punto geografico da cui si potesse vedere un Finsteraarhorn vicino, al di sopra di noi e di tutte le valli.
Dalle vette che troneggiano sugli abitati o sugli alti pascoli nasce l’acqua che porta la vita; loro hanno sempre protetto la gente dai popoli sconosciuti che vivono dall’altra parte, in ultima analisi sono sacre: come tutto ciò che è divino possono anche scatenarsi e punire con disastri naturali imprevedibili e ineluttabili.

Osserviamo le popolazioni asiatiche, africane, andine; consideriamo anche la nostra storia assai recente quando, poco più di duecento anni fa, l’alpinismo non esisteva e la superstizione e la sacralità della montagna regnavano sovrane. La mitologia, le leggende e le tradizioni che ci arrivano dai tempi più lontani ci confermano che la montagna è anche figura paterna, ostile e protettrice nello stesso tempo. Proprio per questa ragione, proprio in quanto sacra, essa non è da combattere, non ci si può opporre alla sua potenza, esattamente come avviene con la figura paterna.
Quassù, in vetta all’Agassizhorn, al di sopra delle sfumate distese di pianura padana e Baviera, così dense di popolazione, tutto ciò non potrebbe esserci più chiaro.
Gli uomini di scienza alla fine del ‘700 pensarono di arricchire le proprie conoscenze iniziando timidamente l’esplorazione delle montagne: così nel 1786 venne conquistato il Monte Bianco. Gli alpinisti e viaggiatori dell’800 si rivolsero alla montagna e ai suoi aspetti più selvaggi con approccio romantico e le attribuirono i più alti significati ideali. È toccato poi all’uomo del ‘900 insistere nella conquista sportiva del terreno-montagna, proclamandolo di conseguenza una sorta di proprio campo di gioco e opponendosi di fatto per la prima volta alla figura paterna.
Il lento processo di conoscenza e conquista alpinistica ci ha portato a salire tutte le montagne delle Alpi, le pareti, le più remote guglie, i settori più difficili delle più difficili pareti. Risalti e strutture di bassa valle non sono stati risparmiati e su di loro si accaniscono, con vie nuove l’una a pochi metri dall’altra, i giovani arrampicatori.
Nello stesso tempo è nato e si è sviluppato l’alpinismo extraeuropeo che unisce alla conquista delle più alte montagne della Terra, gli ottomila, l’impegno sulle più difficili pareti dei colossi himalayani e accosta l’esplorazione delle più sperdute montagne polari alle moderne competizioni degli uomini-ottomila.
Ci sono ancora vastissime zone inesplorate, vuoi per lontananza, vuoi per impedimenti politici: ma è fuori dubbio che siamo assai vicini alla saturazione. Oggi per un grande exploit alpinistico non basta più salire un ottomila: occorre salirne due o tre, uno di seguito all’altro, oppure salire sempre più in fretta. Quando, per limiti fisici, il livello di qualità non può più progredire, l’uomo cerca di aumentare la quantità. In ciò si evidenzia un limite, il momento in cui l’acqua trabocca dal vaso: è lì che ci si confronta, lì ci sarà rivelato cosa c’è oltre.

L’uomo occidentale agisce secondo la sua natura e la sua formazione culturale. Persegue tutto ciò perché deve farlo. L’ansia di conoscere, di raggiungere, di oltrepassare è una grande crescita e, come per il bambino l’unico confronto è il padre, così per l’uomo la montagna è una figura paterna con cui misurarsi.
Alla fine avremo salito tutte le montagne, una, due, centomila volte e sempre in maniera diversa e più difficile: allora è lecito porsi una domanda che già da tempo cova nei dubbi e serpeggia negli animi. Saturare di conoscenza la montagna, quindi privarla di sacralità, cancella la figura paterna. Dopo questa operazione noi non saremo più gli stessi e cominceremo ad avere paura che questo mito sia definitivamente superato, quindi distrutto, il dubbio è che possiamo ancora avere bisogno di questo mito che ci alimenta: la sensazione è che ci stiamo accomodando ad un banchetto nuziale senza più portate.
Se la montagna è padre, come sembra, dobbiamo vincerla e superarla. In seguito però solo l’amore può far sopravvivere il mito e non potremo mai conciliare la nostra precedente smania di vincere con la successiva esigenza di amore se non accettiamo che la montagna possa essere anche madre.
L‘alpinismo degli anni ‘90 e del 2000 pone questi interrogativi, perché la strada delle vittorie non è più un viale trionfale ma si muta a poco a poco in vicolo cieco. Questa è la sfida prossima ventura: saprà l’uomo compiere su se stesso la grande trasformazione, abbandonare le conquiste che da energetiche diventeranno distruttive, trascurare le bramosie di ulteriori vittorie e incamminarsi più sereno sulla strada della vera evoluzione?
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