Il Nuovo Bidecalogo del CAI, approvato a Torino il 26 maggio 2013, dedica il Punto 2 al territorio, al paesaggio e al suolo. Potete consultare il documento finale e la presentazione del past-president Annibale Salsa, i due documenti sui quali ho lavorato per esprimere un mio parere sul Punto 2.
Secondo la moderna accezione i beni ambientali fanno parte del patrimonio culturale di un paese, sono riconosciuti come zone corografiche, ossia rappresentative di una determinata regione, che costituiscono paesaggi naturali o trasformati ad opera dell’uomo (quelle zone in cui siano presenti strutture insediative urbane che, per il loro pregio, offrono testimonianza di civiltà). Ma non è sempre stato così. Nella legge 1º giugno 1939, n.1089 (Legge “Bottai”), a lungo restata il testo di riferimento per la tutela e la protezione dei beni culturali in Italia, si parlava infatti di “cose d’arte”, comprendendo quindi solo beni significativi dal punto di vista estetico e solo beni costituiti da oggetti materiali. Parallelamente, nella legge n.1497 dello stesso anno, che riguardava la tutela ambientale, si parlava di “bellezze naturali”, non elette ancora quindi a status di bene (o patrimonio). Secondo l’articolo 9 della Costituzione italiana, “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica. Tutela e valorizza il patrimonio storico e artistico della nazione“. Solo nell’articolo 117, nelle competenze dello Stato e delle Regioni in materia di tutela e legislazione dei “beni culturali“, si afferma che è lo Stato che deve legiferare in tema di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”.
L’utilizzo del termine “beni culturali”, a partire dagli anni ’50 in vari atti internazionali e nella legislazione italiana, portò all’istituzione nel 1975 del “Ministero per i Beni Culturali e Ambientali”, divenuto poi nel 1998 “Ministero per i Beni e le Attività Culturali”. Le tappe di questa evoluzione rispecchiano il graduale cambiamento di significato che in queste decadi hanno si è verificato nelle parole “territorio” e “paesaggio”. Nelloa presentazione al Bidecalogo, Annibale Salsa sottolinea che “Anni fa il paesaggio veniva collocato all’interno della dimensione puramente estetica, anzi estetizzante nel senso idealistico e contemplativo della cultura filosofica allora dominante. Oggi, finalmente, è in atto un’evoluzione del concetto e della nozione di paesaggio, assai ben chiarita ed esplicitata attraverso la “Convenzione europea sul Paesaggio”, siglata a Firenze nell’ottobre dell’anno 2000”. Il pensiero idealistico di Benedetto Croce o Giovanni Gentile non ispira più teorie che si specchiavano nella legge Bottai (1939), dove “bene culturale” era un oggetto fisico e il paesaggio esisteva solo in chiave estetica. Oggi il paesaggio è “la risultante dell’interazione tra uomo e ambiente naturale”. Secondo questa definizione, oggi “ambiente” è l’ecosistema naturale, mentre “paesaggio” è la “costruzione sociale” prodotta dalle relazioni tra uomo e natura. Anche altre parole hanno subito trasformazioni: oggi il territorio è una rappresentazione culturale, quindi uno spazio antropologico, mentre il terreno è spazio geologico. Nel Punto 2 del Bidecalogo, intitolato Il territorio, il paesaggio, il suolo è affermato subito che “Il paesaggio è la particolare fisionomia di un territorio determinata dalle sue caratteristiche fisiche, antropiche, biologiche ed etniche, così come è percepita dalle popolazioni”. Questo passaggio deriva direttamente dalla Convenzione Europea del paesaggio, ratificata anche dall’Italia nel 2006. In essa è sancito che il paesaggio non è solo questione estetica o culturale ma costituisce una “risorsa”, perciò va gestito e pianificato in modo adeguato, perché può contribuire alla creazione di posti di lavoro. Quanto più il paesaggio è inteso come risorsa, tanto minore dovrebbe essere il consumo di suolo, cioè la progressiva trasformazione di superfici naturali o agricole mediante la realizzazione di costruzioni ed infrastrutture. Al momento di definire la sua posizione il CAI afferma correttamente di sostenere la tutela del paesaggio e ritiene indispensabile limitare al minimo il consumo del suolo. Poi osserva che le procedure di valutazione di impatto ambientale e di valutazione ambientale strategica (VIA e VAS), da tempo introdotte nel nostro ordinamento, costituiscono i principi guida per una corretta gestione del territorio (ma sappiamo tutti che le nostre leggi sono buone, il problema è la non univoca interpretazione e la possibilità di scappatoie); infine dichiara che le opere e gli interventi antropici “devono essere proposti in un quadro di pianificazione territoriale, sottoposti a una valutazione di carattere economico con analisi dei costi-benefici, autorizzati (laddove previsto dalle leggi nazionali e regionali) solo dopo il superamento di una valutazione di impatto ambientale, ambientale strategica ed anche di incidenza per le aree Natura 2000“. Il CAI precisa ulteriormente la sua posizione dichiarando di voler approfondire “il nuovo concetto di valutazione economica di impatto della attività umana sull’ambiente che da qualche tempo è emerso nella comunità scientifica“. La cosiddetta economia ambientale si regge sui parametri classicamente economici ma valuta anche il “capitale naturale” (valore economico di ambiente + prodotto del territorio (fisico e artistico-culturale). Nello sviluppo sostenibile e duraturo il capitale naturale è parte essenziale con la stessa dignità del capitale fisso e del lavoro. Per ciò che riguarda l’impegno concreto del CAI, la frase più importante è dunque quella che riguarda il sostegno e la diffusione del principio che l’economia naturale valorizza il capitale naturale.
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Le montagne e gli uomini son sempre quelli; cambiano coi fatti, che sempre più vengono mossi con le parole, di qua o di là, dritti o storti.