Patetici
di Pietrangelo Buttafuoco
(già pubblicato il 13 novembre 2018 su ariannaeditrice.it)
Spessore 5, Impegno 0, Disimpegno 5
Infimi e puttane i giornalisti, chissà. Ma casta di sicuro sì, nonché – con l’intero mainstream – vetrina del conformismo. Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista non fanno come faceva un Giulio Andreotti che si raccomandava di non litigare mai e poi mai con la stampa. Loro, figli di un tempo tutto nuovo, prendono spunto dall’assoluzione di Virginia Raggi e vanno addosso ai giornalisti cui è mancato il finale atteso. Forse, i due, fanno come un tempo si divertiva a stuzzicare Massimo D’Alema: jene dattilografe. In ogni modo sfregiano il sussiego di un mestiere – il giornalismo – che è, ormai, dottrina del pensiero unico.
Industria culturale di infimi e di puttane a disposizione di una stretta cerchia, sempre la stessa, derivata dal patto di compromesso tra le due ex chiese, quella del Pci e quella democristiana, per quel che sono diventate adesso coi loro eredi – immarcescibili – nell’amministrare il potere assoluto e gli estremi privilegi ora che c’è da difendere il fortino assediato da una realtà sempre più distante dai loro taccuini, dalle loro frequentazioni e dalla loro retorica. Dai nostri taccuini, dalle nostre frequentazioni e dalla nostra retorica, dovremmo dire? Ebbene, no. Se c’è un discrimine, che vale in tema di giornalismo quanto anche nella realtà del dibattitto delle idee è quello tra un’Italia tenuta sempre ai margini – quella del dissenso – e quella del regime. Lo stesso regime del giornalismo da sempre sistema chiuso che i Leo Longanesi di ieri o i Massimo Fini di oggi, mai e poi mai li fa arrivare nei giornaloni, quelli delle vergini adesso trafitte, ma solo e soltanto nelle testate corsare, dove piove sale e sempre solo sale. Il giornalismo, quello istituzionale su tutti, vive in virtù dell’ipocrisia – del tradimento continuo dei valori cui dice di voler aderire, la famosa libertà di stampa e l’indipendenza – e regge nel mercato grazie allo sfruttamento di precari costretti, tutti, a salari al minimo, anzi, sempre più al ribasso, costringendo all’eterna gavetta chiunque non corrisponde ai loro taccuini, alle loro frequentazioni e alla loro retorica.
Ha ragione Michele Fusco, giornalista senza nessun regime, quando ieri – nel bel mezzo delle lagne per la bua subita – così twittava: «Questa catena sul web dell’orgoglio giornalistico è una roba che va oltre il patetico».
Ecco, non infimi, non puttane, ma patetici.
Ah ah ah, i fatti
di Giovanni Petrosillo
(già pubblicato il 14 novembre 2018 su conflittistrategie.it)
Spessore 5, Impegno 5, Disimpegno 0
L’editoriale di Belpietro, pubblicato oggi sulla Verità (nome inadatto ad un quotidiano), è una lezione di giornalismo. Belpietro, fuori dai denti, ricorda ai colleghi che sui giornali si scrive soprattutto quello che vogliono gli editori, i quali, se non sono d’accordo, danno il benservito ai propri impiegati. Non da meno è stato Giuliano Ferrara su Il Foglio che le ha suonate alle anime belle e piagnucolanti della categoria, le quali si credono un contropotere pur avendo dei padroni ben paganti sulla testa. Oltre al volere degli editori, sugli articolisti opera l’influenza di chi può comprare le loro opinioni o esercitare pressioni, in varie guise. Poi esistono i condizionamenti indiretti e le “suggestioni”, per cui molti giornalisti si autocensurano, cioè evitano certi argomenti o li trattano con le pinze, per non scontentare qualcuno d’importante o per non rischiare la carriera. Infine, ci sono le proprie convinzioni che, ovviamente, hanno un peso decisivo nella narrazione dei fatti. Insomma, il giornalismo non è il luogo della verità o della libertà, semmai è quello della costruzione dei miti della verità, della libertà (e della democrazia) per volere dei gruppi dominanti. I giornali più importanti, di tiratura nazionale, hanno sempre dei proprietari con i soldi, o dei finanziatori occulti, che investono per vendere un prodotto e per persuadere l’opinione pubblica che la loro versione dei fatti è l’unica valida nell’Universo.
Possiamo anche essere più brutali, come Balzac, e dire che i giornali fabbricano la realtà così come piace a loro, pur basandosi su episodi realmente accaduti: “Il giornalismo, invece di essere un sacerdozio, è divenuto uno strumento per i partiti; da strumento si è fatto commercio; e, come tutti i commerci, è senza fede né legge. Ogni giornale è una bottega ove si vendono al pubblico parole del colore ch’egli richiede. Se esistesse un giornale dei gobbi, esso proverebbe dal mattino alla sera la bellezza, la bontà, la necessità dei gobbi. Un giornale non è più fatto per illuminare, bensì per blandire le opinioni. Così, tutti i giornali saranno, in un dato spazio di tempo, vili, ipocriti, infami, bugiardi, assassini; uccideranno le idee, i sistemi, gli uomini, e perciò stesso saranno fiorenti. Essi avranno i vantaggi di tutti gli esseri ragionevoli: il male sarà fatto senza che alcuno ne sia colpevole…Napoleone ha dato la ragione di questo fenomeno morale o immorale, come più vi piaccia, con una frase sublime che gli hanno dettato i suoi studi sulla Convenzione: i delitti collettivi non impegnano nessuno.” Il vero è semplicemente un momento del falso, diceva Debord, e viceversa. Quando un giornalista afferma che scopo del suo lavoro è raccontare i fatti per quelli che sono sta già mentendo spudoratamente. Perché i fatti non sono nulla se non vengono interpretati. Anzi, spesso i fatti non accadano se non sui giornali, come ci insegna E.L. Masters: “Ogni sindaco prima di me, sin dove arriva la memoria era stato accusato di essere un demagogo sognatore, oppure un ladro o un truffatore tuttavia io presi quel posto con un certa speranza, intendendo rendere tutto più bello, dare alla gente il dovuto, far sì che i grossi delinquenti si mettessero in riga. Come già una volta il Ledger stava tentando di vendere la sua terra per un parco, ma io lo impedii. Poi allontanai a bastonate sul muso lo schifoso maiale dal trogolo. Che accadde? Bene scoppiò un’ondata di criminalità sulle pagine del Ledger! Quanti rapinatori, giocatori d’azzardo, fuorilegge ubriaconi, e luoghi del vizio! La chiesa cominciò a chiacchierare, la corte mi si mise contro. Sporcarono il mio nome e quello della città mi uccisero per averla vinta. E questo è un gioco da banditi, amici miei, che si chiama democrazia!”
La scomparsa della stampa sarebbe una follia, cantava Gaber, ma di fronte a tanta deficienza
non avremo certo la superstizione della democrazia. Chiudiamo tutti i giornali e poi riapriamoli con calma, puzzeranno un po’ meno di ora, finché non tornerà ad accumularsi la stessa merda.
Spesso, mentre guardo i telegiornali o i programmi di discussione, o leggo giornali, mi sembra che tutti anziché essere concentrati sulla ricerca della verità, siano concentrati sulla propria vanità.
Non ne trovo uno che non lo sia!
Neanche fossimo al cai e dintorni 🙂
Gietl e socio han fatto una roba molto giusta (desnivel info)
io dico che un giornalista deve raccontare i fatti !!
Poi anche un giornalista è una persona e come tale ha le sue idee, quindi darà la sua interpretazione, un giudizio, un opinione. Ma questo deve avvenire senza stravolgere i fatti che devono essere raccontati precisamente come sono avvenuti. Altrimenti si butta pattume sugli altri.
E chi lo fa è un disonesto oltre che SERVO di qualcuno.
Un giornalista che si vanta di essere tale non può essere a servizio di qualche potere, se non di quello della VERITA’.
L’editore de La Stampa e Repubblica è lo stesso.
Sono due giornali contrapposti o quasi.
I giornalisti raccontano le stesse cose, ma diversamente.
Sono liberi o ubbidiscono?
Il giornalismo italiano è tutelato forse troppo.
Dal concettuale al pratico, dai principi al sodo: http://www.circolovegetarianocalcata.it/2018/11/13/allillustrissimo-presidente-mattarella-lettera-aperta-sulla-liberta-di-espressione-e-di-informazione/