Storia dell’arrampicamento – 01

Su stimolo del giornalista Vittorio Varale, durante il biennio 1930-31 Domenico Rudatis pubblicò nella rivista Lo Sport Fascista una fondamentale Storia dell’arrampicamento in nove puntate (nn. 3, 4, 5, 7, 8 e 12 del 1930 e nn. 2, 6, e 9 del 1931). Scritta da uno degli autori di letteratura di montagna più brillanti e affascinanti del Novecento, l’opera costituì il primo tentativo italiano di storia dell’alpinismo, per quanto limitato alle sole Alpi Orientali.

Uno degli aspetti più importanti e affascinanti della Storia dell’arrampicamento (anche se oggi la cosa può facilmente sfuggire) è l’eccezionale qualità grafica dell’opera: taglio dell’impaginazione, scelta delle fotografie e disegni originali dell’autore. A questo riguardo è giusto ricordare alcune circostanze. Anzitutto la veste tipografica de Lo Sport Fascista: grande formato, illustrazioni di qualità. Insomma, una rivista abbastanza di lusso, per l’epoca. In secondo luogo il buon gusto e la cura certosina di Rudatis, fotografo, disegnatore, illustratore e arredatore di vaglia, che fu attentissimo a curare assieme a Vittorio Varale tutti gli aspetti non solo informativi e teorici ma anche formali della serie. 

La prima puntata apparve nel marzo 1930 e costituì la prima collaborazione in assoluto di Rudatis con Lo Sport Fascista. In quella sede vennero definiti i principi fondamentali che guidano il giudizio sulla tecnica e sui valori morali e culturali dell’arrampicata. Pubblichiamo qui il primo dei nove articoli (Nota a cura di Luigi Piccioni).

Lettura: spessore-weight(4), impegno-effort(3), disimpegno-entertainment(2)

Lo sport dell’arrampicamento (Storia dell’arrampicamento – 01) (01-09)
di Domenico Rudatis (Gruppo Italiano Scrit­tori di Montagna)
(pubblicato su Lo Sport Fascista, marzo 1930

Siamo stati i primi a dire che l’arrampicamento su roccia — da alcuni impropriamente chiamato alpini­smo acrobatico — è una completissima forma di sport, che educa virilmente il corpo e lo spirito di chi lo pratica. L’Italia vanta numerosi e valenti campioni di questo sport, affermatisi in conquiste che documentano delle buone qualità della razza: ma è d’uopo riconoscere che sotto il punto di vista della tecnica e della letteratura, parecchio cammino rimane da percorrere per portarci all’altezza degli stranieri. Arricchiamo, dun­que, le nostre cognizioni, iniziando una serie di arti­coli dovuti a Domenico Rudatis, uno scrittore che sa tanto bene adoperare la penna quanto aprire una via nuova su una parete dolomitica (Nota della redazione di Lo Sport Fascista).

Per dare allo sport dell’arrampicamento alpino quella chiarezza e pienezza di significati che l’intensità e il valore dell’azione esigono, si deve necessariamente aprire il noto dissidio tra alpinismo e sport, scoprirne le radici e risolverlo in modo completo e definitivo. Alpinismo e sport! Attività vaste, multiformi, complesse, che interferiscono tra loro molteplicemente; sensibilità e ideali straordinariamente vari che riflettono tutti gli aspetti e tutte le profondità dell’anima umana.

È o si crede alpinista chi percorre in comitiva ottimi sentieri di montagna e chi da solo si intaglia centinaia di gradini su un erto pendio ghiacciato, chi si fa trascinare una qualche volta da salde guide su benevoli rocce e chi guadagna l’altezza metro per metro sulle verticali più vertiginose, chi pratica assiduamente l’alta montagna e, spesso, chi ne parla semplicemente. Vi è chi percorre la montagna per ragioni di scienza e chi per fare del contrabbando. Vi è chi evita le maggiori difficoltà della montagna e chi le cerca, chi fa delle ascensioni per curiosità, per moda, per lucro, per vanità, per emulazione. Si discute di sentimento alpinistico come di un carattere essenziale specifico del vero alpinista e si dimentica che vi sono diversissimi sentimenti alpinistici.

Né tanto più semplice è il concetto di sportivo. Chi trepida innanzi ad una manifestazione atletica si crede talvolta sportivo come l’atleta stes­so, e così i competenti e gli interes­sati moralmente e materialmente. Sono cose queste troppo note per dilungarsi. Ma non solo ciò si può osservare relativamente ad una ma­nifestazione atletica, ma anche per tantissime altre manifestazioni in cui di atletico non c’è più, o quasi più, niente, e che tuttavia sono con­siderate sportive.

Per il dissidio tra alpinismo e sport avviene, come per molti altri, che il primo passo, e forse il più difficile, verso la soluzione, è proprio quello di stabilire esattamente i termini dell’antitesi.

Chi è l’alpinista
Senza smarrirsi in divagazioni discorsive, si deve convenire che, in generale, «alpinista è colui che sale sulle montagne possedendo più o meno una certa pratica delle cir­costanze che esse presentano». Re­steranno da vedere i motivi, le ra­gioni ideali che spingono l’individuo verso l’Alpe; ragioni che senza dub­bio sono un elemento di importanza fondamentale dell’attività alpini­stica, impulsi fecondi e sorgenti ine­sauribili di intime soddisfazioni; ma in ogni caso la definizione presen­tata conserva il suo valore. Essa esprime il fatto nudo e crudo.

Questo fatto praticamente consi­sterà in una esplicazione di energie che, a seconda dei casi, potrà essere: poco notevole da superare appena certe attività della vita ordinaria, così potente da approssimarsi ai limiti della possibilità umana, o tale da assumere comunque tutti gli infiniti valori interposti.

Poiché l’alpinismo esige talvolta qualità atletiche e acrobatiche al­cuni già conclusero che l’alpinismo è uno sport, suscitando parecchie vivaci proteste nel mondo alpini­stico. Questa conclusione però è evidentemente affrettata. Dall’esigere l’alpinismo talvolta qualità atle­tiche e acrobatiche non si può concludere ancora niente; né che l’alpinismo sia uno sport, né che non lo sia. E ciò per la doppia ragione: che solo «talvolta» l’alpinismo esige qualità atletiche e acrobatiche, e che non tutto ciò che esige qualità atletiche e acrobatiche è sport.

Se ciò che è atletico può essere e non essere sportivo, e se ciò che non è atletico parimenti può essere spor­tivo, come guidare un veicolo in certe circostanze, e può non esserlo, si deve ritenere che non è tanto l’azione materiale che caratterizza lo sport, quanto piuttosto le cir­costanze, le modalità, le direttive secondo le quali si svolge l’azione stessa che danno a questa l’impronta sportiva nel senso moderno e gene­rale della parola.

La qualificazione di «sportivo» non può cioè tradursi nella concre­tezza di un fatto, come quella di «alpinista», la quale si trasforme­rebbe in una assurdità se applicata ad un individuo che materialmente non andasse mai in montagna. Non è dunque molto esatto dire sportivo chi effettua questa o quella azione, tale essendo invece più propriamente colui che questa o quella azione svolge con determinati criteri spor­tivi.

Tutte le attività umane si legano, spesso intimamente, tra loro e il di­viderle non è cosa sempre possibile. Così è anche dell’attività sportiva. Basterà, e sarà già molto, compren­derne bene le caratteristiche essen­ziali.

Odiernamente contraddistinguono in particolar modo lo sport: la valu­tazione, la misura, il confronto dei risultati ottenuti in varie attività, soprattutto atletiche, e conseguente­mente l’ordinamento delle attività stesse secondo norme specifiche, e la tendenza a raggiungere in ciascuna di queste attività i maggiori risul­tati. Le attività meglio corrispon­denti alle forme sportive sono per lo più elementari e fini a sé stesse.

Stabilite così determinatamente le reciproche posizioni di sport ed alpinismo, si constata che l’antitesi iniziale si dissolve del tutto, come antitesi, per ridursi ad uno studio ben definito e conclusivo. E cioè: in primo luogo, ad esaminare in qual misura e con quali condizioni le ascensioni di montagna possano essere suscettibili di valutazione, di misura, di confronto, vale a dire possano essere considerate dei va­lori concreti, delle «performance», di modo che abbia un significato po­sitivo il parlare di valori maggiori o minori, di progresso, di supera­mento, di record»; e in secondo luogo, a stabilire quelle norme esecutive dell’attività alpinistica che eliminando per quanto è possibi­le ogni indeterminatezza, fissando l’omogeneità dei mezzi, l’uniformità delle condizioni, permettano di con­seguire la massima precisione nella valutazione nei risultati dell’atti­vità stessa.

Il concetto sportivo dell’alpinismo
È evidente che fino a quando una salita di montagna rappresenta una esperienza affatto diversa per ogni individuo, vaga, senza una tecnica determinata, senza alcun punto di riferimento, parlare di sport è inu­tile. Ma neppur in tal caso si tratta di antitesi, forse di estraneità, me­glio di imperfezione di rapporti, poi­ché anche una attività disordinata e irrazionale può evolversi, venir studiata, e permettere poi delle va­lutazioni e delle forme sportive.

Nella consistenza dei fatti l’alpi­nismo sarà tanto più sportivo, nel significato migliore della parola, quanto più avrà raggiunto quella maturità di coscienza e quella per­fezione di esecuzione cui corrispon­dono una chiara percezione e una precisa valutazione delle singole im­prese. La sportività alpinistica rap­presenta perciò lo stato più elevato di progresso tecnico e di piena con­sapevolezza.

Il dissidio tra alpinismo e sport è così definitivamente sorpassato. Dallo svolgimento dello studio sopraindicato si vedrà se, e quanto, l’alpinismo abbia progredito da po­ter essere anche sport. A questo punto insorgeranno nu­merosi alpinisti con svariatissime affermazioni, come: Io godo il pa­norama! Io sento la montagna! Io ho dei sentimenti, degli ideali! Non si può ridurre tutto ai fatti!

Rispondo: Certo! Vi sono ideali che sovrastano ogni espressione ma­teriale della vita e la vita stessa. Le gioie, le soddisfazioni, i valori pura­mente spirituali che l’individuo può trarre dalla contemplazione e dal­l’azione alpina sono immensi. Ma questi costituiscono la vita inte­riore dell’individuo; la sua vita este­riore, l’azione in se stessa, possiede, come tale, un valore concreto, una misura, che è uguale e costante per la collettività, gli ideali sono l’in­timità abissale dell’individuo, le sue potenze spirituali che possono so­stenerlo nell’azione prodigiosamen­te, ma l’azione nella sua realtà, nei rapporti con tutto il mondo reale, è, e resta, quello che è. Il movente è una cosa, l’azione, il risultato, un’altra. Un’arrampicata non muta per nien­te anche se variano tutti gli ideali di chi l’affronta, così come il risultato di una qualunque lotta sportiva, di un salto, di una corsa, pur essendo legato intimamente ai sentimenti dell’individuo in quanto impulsi od inibizioni all’azione, una volta conseguito, realizzato, prodotto, è una cosa a sé, indipendente, invariabile.

Il concetto, purtroppo quasi tradizionale in alcuni ambienti alpinistici italiani, di esaltare un risultato in realtà meschino, colorandolo di sentimentalismo, effettivamente è un falsare la verità, un accecarsi, un comodo sofisma per non impegnarsi a fondo, per sfuggire al rischio, al pericolo, allo sforzo, e comprare degli allori a buon mercato!

L’ideale che nell’azione da noi voluta non sostiene, non aumenta la nostra potenza, non è un ideale, ma una scoria interiore da abbandonare. In questi problemi, come dappertutto, come lo esige l’insorgere dei nuovi e più alti valori italiani, chiarezza è concretezza, liberarsi dagli equivoci è costruire. Anche in alpinismo alla bellezza del sentimento deve corrispondere la vitalità della creazione, la potenza dell’azione.

Pericolo e difficoltà
Esaminiamo quindi come e dove la valutazione di una impresa alpina è possibile.

Nel passato la montagna si presentava quasi a tutti col suo eccelso fascino sempre difeso da un custode terribile e misterioso: il pericolo! E lo stesso atteggiamento ha conservato anche ora verso coloro che nulla conoscono di alpinismo né alcuna adeguata esperienza posseggono.

Nella repulsione ribelle delle superfici ghiacciate, nell’agguato molteplice dei nevai sfuggenti, nell’incognita mutabilità dell’atmosfera delle altezze, nell’angoscia cupa delle rocce viscide o friabili, nello spasimo dello sforzo e nella suggestione orrida e demoniaca delle verticali sterminate, infinitamente vario e multiforme, nudo o mascherato, violento o ingannevole, il pericolo regna dovunque nella montagna.

Molti uomini tuttavia lo affrontarono, lo combatterono e spesso lo vinsero in lotte altrettanto varie e multiformi. Nella loro intimità esse restarono quasi incomunicabili, ma vi fu chi vinse dove altri cedettero, chi osò dove altri non pensarono mai di osare, chi si ostinò con la forza e chi giocò d’astuzia. La caccia, la scienza, l’esplorazione moltiplicarono i contatti tra l’uomo e la montagna e l’uomo a poco a poco cominciò a distinguere le diverse facce del pericolo, a riconoscerlo, a temerlo più o meno, e progressivamente, all’oscura minaccia del pericolo si sostituì il senso della difficoltà.

Tuttavia solo in tempi relativamente recenti e limitatamente a determinate condizioni la difficoltà ebbe una misura; nella maggioranza degli alpinisti la difficoltà restò, e resta ancora, una sensazione personale, variabile, quasi una espressione generica della propria emozionabilità.

I classici dell’alpinismo distinsero le difficoltà in oggettive (dipendenti dalla montagna), e in soggettive (dipendenti dall’individuo). Anziché accettare supinamente tale suddivisione, analizzeremo, più intimamente di quanto sia stato fatto, il concetto di difficoltà.

Mi spiegherò dapprima con un esempio banale ma del tutto pratico e intuitivo. Si immagini una comitiva assortita e numerosa intenta ad osservare una bella guglia dolomitica. Ci sarà qualche artista che ne ammirerà il profilo slanciato e le tinte mutevoli, turisti intimoriti dalla cima pazzesca e inaccessibile, arrampicatori che penseranno a una scalata più o meno diretta, e donzelle cittadine che esclameranno tutt’al più: oh, che montagna fatta a punta! E le care donzelle faranno una dolce sosta definitiva alla prima balza, i turisti tentenneranno un po’ più innanzi, l’artista sognerà e l’arrampicatore proseguirà, vincerà o s’arresterà secondo la sua capacità, secondo la struttura della roccia, magari tradito dalla mancanza di un chiodo o da un temporale improvviso. Ciò naturalmente senza contare che non c’è strapiombo il quale non ceda all’insidia meccanica del ferro e del cemento.

Ogni complesso di circostanze rappresenta una difficoltà minima media, estrema, secondo gli individui e le condizioni in cui agiscono. Cosicché in generale dirò:
La difficoltà è il rapporto tra la natura della montagna e la capacità dell’individuo.

Non ha dunque alcun significato parlare di difficoltà oggettive cioè del tutto estranee al soggetto, all’alpinista. Il più furioso uragano o la più violenta scarica di sassi, dati come esempio tipico di difficoltà oggettive, sono assolutamente innocui considerati in sé stessi, all’infuori cioè dell’alpinista. Anche se la montagna crolla, quando io mi trovo a casa, non costituisce un pericolo e tanto meno una difficoltà! E se considero tutto ciò relativamente all’individuo, constato che questo può reagire più o meno bene sia all’uragano che – e il Lammer lo dimostrò – alla scarica di sassi, può salvarsi come anche può soccombere sopraffatto.

Salendo la via Rudatis alla Cima Listolade, con lo sfondo della Torre di Babele (Civetta)

Valutazione delle difficoltà
E, come non c’è difficoltà nella montagna all’infuori dell’alpinista che l’affronta, così non può esistere difficoltà puramente soggettiva, all’infuori cioè dell’esperienza della montagna. Senza un fondamento sperimentale ogni valutazione di difficoltà diventa un assurdo.

La classica distinzione tra difficoltà oggettive e soggettive va dunque rinnegata quale falsificazione del concetto di difficoltà.

Dal fatto che la difficoltà è sempre relativa agli individui non si può tuttavia concludere, come hanno fatto molti con puerile criterio, che sia sempre vaga e indeterminabile. Ché sarebbe questa una conclusione quanto mai superficiale ed arbitraria; inconsistente paravento dietro il quale molti nascondono il timore, non confessato, di veder le proprie imprese sottoposte a dei confronti e a dei giudizi.

Per trarre delle deduzioni sicure occorre uno studio preciso del problema che cercherò qui di riassumere brevemente ma chiaramente. Se nel rapporto che esprime in generale la difficoltà, si suppone la capacità fissa, cioè che questa resti costante, allora risulta immediatamente la legge:
Per un determinato individuo di capacità costante la difficoltà corrisponde esattamente alla natura delle salite.

Questo equivale a dire che per un certo individuo con un certo grado di capacità, e quindi anche con determinati mezzi artificiali, la difficoltà varia nello stesso modo in cui variano le condizioni naturali della montagna incontrate nella salita, cioè la scarsità degli appigli, l’inclinazione della roccia, lo stato della neve, del ghiaccio, dell’atmosfera, ecc.

Se invece nel predetto rapporto si suppone fissa la natura della montagna, ossia sì considera una deter­minata salita in condizioni costanti, si deduce l’altra legge:
La difficoltà di una determinata sa­lita di natura invariabile vale inver­samente alla capacità dei salitori.
Cioè una salita invariabile risulta agli alpinisti che la compiono tanto più difficile quanto minore è la loro capacità.

Le due leggi specificate permetto­no il confronto di salite tra loro e il confronto di individui tra loro, e quindi su di esse è possibile fondare una graduazione di difficoltà, una scala di valori. Però è necessario tener presente che queste due leggi, evidenti anche al senso comune, hanno valore soltanto se sì suppone di poter considerare salite invaria­bili e individui con capacità costan­te, almeno per un certo perìodo di tempo; inoltre a queste due condi­zioni occorre aggiungerne altre due evidentissime, poiché per disporre in ordine di grandezza delle difficol­tà è indispensabile che queste siano omogenee, e siccome ogni difficoltà è espressa dal rapporto di due ele­menti, ciascuno di essi dovrà per suo conto mantenersi omogeneo. In qual­siasi graduazione si dovranno quindi considerare montagne di natura omo­genea e capacità di natura omogenea.

Si hanno così le seguenti condi­zioni generali:
Prima. Le salite considerate de­vono essere di natura omogenea.
Seconda. Le capacità dei salitori, relativamente alla graduazione, devono essere omogenee.
Terza. In determinati salitori si deve poter avere una costanza nel­la rispettiva capacità in modo tale da permettere a ciascuno un con­fronto tra le proprie salite.
Quarta. La natura di ciascuna salita deve mantenersi invariabile almeno periodicamente.

Affinché si possano valutare con sicurezza delle imprese alpine de­vono essere verificate contempora­neamente tutte e quattro le condizioni stabilite. Si tratta ora di vedere se ciò avviene e dove avviene.

È chiaro che per le Alpi complessi­vamente non è possibile fissare una graduazione delle difficoltà. Gli ele­menti neve e ghiaccio con la loro variabilità rendono irrealizzabile la condizione «quarta». La diversità degli elementi costitutivi della mon­tagna esclude la condizione «pri­ma». E la «seconda» non può essere sufficientemente soddisfatta appun­to perché le capacità richieste dalle varie strutture della montagna ri­sultano eterogenee. Anche la «ter­za» condizione può essere appena parzialmente soddisfatta.

Domenico Rudatis

L’arrampicamento puro
Limitandosi agli ambienti sol­tanto di neve e ghiaccio sì ottiene una notevole omogeneità ma la lo­ro variabilità rende impossibile la verifica delle condizioni.

Su rocce arcaiche, graniti e gneis, le condizioni generali sono ancora poco soddisfatte per costruire una buona graduazione. Tali rocce non sono quasi mai spoglie da neve e ghiaccio e nel loro ambiente le condizioni atmosferiche possiedono un’eccessiva influenza. Anche la grande altezza fa sentire variamente il suo effetto. Vi sono forse alcune piccole zone di altezza limitata nelle quali le condizioni generali pos­sono essere verificate ma in genera­le ciò non può avvenire che molto imperfettamente.

Nelle regioni calcaree tutto è di­verso. Esse formano ambienti al­pini nei quali l’assenza di neve e ghiaccio e la modesta altitudine garantiscono per un perìodo consi­derevole di ogni anno una perfetta invariabilità delle salite che soddisfa interamente la condizione «quarta».

L’omogeneità delle salite conse­gue necessariamente dall’unicità del­la costituzione della roccia la quale in certe zone è spesso di un tipo perfettamente identico, per cui anche la condizione «prima» è soddisfatta.

Valutare le imprese alpine nelle regioni calcaree significa in pratica limitarsi a considerare l’arrampicamento puro, cioè la forma partico­lare che ha assunto l’alpinismo in alcune determinate zone montuose che sono principalmente: il Kaisergebirge, la ben nota università d’arrampicamento della scuola di Mona­co, la scuola più sportiva, che vide tutta l’audacia e la genialità del giovanissimo Dülfer; il Gesäuse (magnifico campo d’azione della scuo­la viennese, preferito a tutti i monti dal grande Preuss); alcuni altri gruppi delle Alpi Calcaree Setten­trionali; le belle Alpi Giulie; e so­prattutto le nostre Dolomiti!

Le nostre incomparabili Dolomiti che pure il grande geografo francese Élisée Reclus dichiarò le più strane e le più belle fra tutte le montagne, con le loro guglie multiformi, gli infini­ti inverosimili pinnacoli, le arditis­sime torri, gli spigoli vertiginosi e le pareti immani, col fascino delle loro acropoli titaniche e dei prodi­giosi castelli rosseggianti nel fuoco dei tramonti, con la poesia delle più suggestive leggende e la storia delle più sorprendenti audacie, costitui­scono veramente il paradiso, o co­me dicono anche benissimo i Tede­schi, la «Wunderland» – terra delle meraviglie – degli arrampicatori.

Nelle Dolomiti, come nelle sud­dette altre regioni, l’alpinismo ini­ziatosi col solito carattere di esplora­zione e di conquista delle diverse cime si è poi completamente stac­cato dalla forma classica, acquistan­do una propria fisionomia ed un proprio carattere del tutto indipen­denti. Così l’arrampicamento è di­ventato una attività atletica con una tecnica precisa ed omogenea alla quale corrisponde un ben definito complesso di capacità, tale da sod­disfare pienamente la condizione «seconda». Rompere questo com­plesso separando atti singoli d’arrampicamento, come una spaccata, il procedere in una fessura, ecc., e valutando una scalata in base ad un punto anziché dall’insieme, sareb­be dunque del tutto errato, in oppo­sizione con le condizioni fondamen­tali. Nelle più moderne e soddisfa­centi proposte di graduazioni delle difficoltà, il Welzenbach, come pure il Deye e il von Overkamp, hanno compreso ancor meglio di Dülfer questo fatto, specificando chiara­mente il principio che:
La difficoltà va considerata nel com­plesso della salila.

La necessità logica di questa leg­ge diviene ancor più evidente osser­vando che la difficoltà relativa a un determinato punto aumenta quali­tativamente se si prolunga per un certo tratto; la continuità della dif­ficoltà risultando indiscutibilmente uno degli elementi più importanti della difficoltà effettiva di una ar­rampicata, per il doppio motivo che la maggior lunghezza implica un maggior numero di punti difficili ed una maggior varietà di essi, varietà nella quale vengono appunto a com­pensarsi quelle attitudini e differen­ze individuali che rendono un arram­picatore più abile nel superare certe particolari configurazioni della roc­cia piuttosto che certe altre.

Evoluzione sportiva
Continuità e lunghezza di una sa­lita sono concetti ben diversi, poi­ché la continuità della difficolta si può avere tanto in una salita breve che in una salita lunga, eppure ven­gono spesso confusi tra loro. È op­portuno poi far notare che il consi­derare la difficoltà nel complesso non significa concepire la difficoltà di una salita come una somma. Gli elemen­ti della difficoltà concorrono come tanti fattori a formare il giudizio complessivo.

Effettivamente, se si unissero due salite della medesima difficoltà, non si avrebbe una salita di difficoltà doppia, ma una salita nella quale l’elemento lunghezza avrebbe una influenza alquanto maggiore sul complesso, ossia appena un aumento relativo di difficoltà.

Nell’arrampicamento la purezza assoluta dello stile si ha quando l’arampicatore procede da solo e senza alcun mezzo artificiale.

Paul Preuss si può reputare come il maggiore esponente della purezza dello stile, da lui sempre appassiona­tamente sostenuta. Tuttavia già nel 1910 e 1911, anni nei quali si ebbe la maggior attività arrampicatoria di Preuss, l’evoluzione dell’arrampicamento venne portata ulteriormente innanzi dalle memorabili imprese effettuate in Italia e fuori da Angelo Dibona, alcune delle quali lo stesso Preuss fu il primo a ripetere. Poi negli anni successivi lo sviluppo si è spinto ancor piò innanzi, in così decisa maniera verso il limite del possibile, in senso atletico natural­mente, da trasformare la purezza dello stile in una vera e propria gara al suicidio. Perciò attualmente si de­ve considerare come stile normale il procedere assieme di due o più ar­rampicatori con i relativi mezzi di reciproca assicurazione fissati dalla tecnica.

L’assicurazione non garantisce certo la vita ma può spesso rappre­sentare la salvezza; essa, principal­mente, serve a ridurre il senso dell’ignoto che grava paurosamente nelle difficoltà di una prima ascensio­ne, e in tal modo attenua il distacco di valore che esiste sempre tra i primi salitori e i successivi, migliorando la precisione delle valutazioni.

I mezzi di reciproca assicurazione, che sono poi tutti e i soli mezzi arti­ficiali ammessi nell’arrampicamento, sono esclusivamente: corde, chiodi, moschettoni e martello.

Tutto lo sviluppo storico e tecnico dell’arrampicamento moderno si è basato sull’uso di tali mezzi soltanto. Ammetterne altri significherebbe creare una forma di attività diversa da quella che è l’arrampicamento fi­nora praticato, completamente ete­rogenea. È poi del tutto assurdo ri­tenere — come hanno fatto alcuni — mezzo artificiale le pedule e gli in­dumenti, che, a parte la moda, si possono usare per la vita ordinaria, come avviene in varie regioni, e non costituiscono assolutamente degli strumenti.

I mezzi artificiali
Nella pratica i mezzi artificiali specificati possono servire anche al­trimenti che come assicurazione, cioè per appigli artificiali o per co­struirne artificialmente. Ciò si può anche ammettere, ma in ogni caso la valutazione delle difficoltà va riferi­ta, come criterio fisso e generale, al puro lavoro atletico di roccia, secon­do le particolarità che risultano qui appresso. Questo criterio è necessario per tenersi più prossimi che sia pos­sibile alla purezza dello stile mante­nendo contemporaneamente il con­cetto umano di avere una certa ri­serva di sicurezza, ottenuta con i sud­detti mezzi artificiali, riserva molto limitata, ma che unita ad una retta preparazione e coscienza sportiva può permettere di affrontare i mag­giori pericoli e le più impressionanti audacie con tutta consapevolezza.

Resta dunque definitivamente fis­sato il principio:
Corde, chiodi, moschettoni e mar­tello sono gli unici mezzi artificiali ammessi nell’arrampicamento, e tut­to il loro impiego va condizionalo ad una valutazione delle difficoltà basa­ta sulla purezza dello stile.

È chiaro che fino a quando si manterrà la purezza dello stile, il valore sportivo alpinistico reale di una arrampicata sarà, dopo i primi salitori, sempre lo stesso e richiederà sempre le adeguate doti di tecnica, coraggio e di energia. Mentre anche il sommo Everest potrà essere vinto dallo sviluppo dei mezzi artificiali con un valore umano intrinseco, va­lore intimo sostanziale di nervi d’audacia e di muscoli, limitatissimo.

Degli stessi mezzi artificiali sta­biliti ci può essere un abuso, il cui riconoscimento non è facile, sia in nuove ascensioni, sia nella ripeti­zione di salite conosciute.

Però, chi effettua un’arrampicata nota, che è al disopra della sua ca­pacità, supplendo a forza di chiodi e di corda alla propria deficienza, e non sente che in tal modo non ha ri­petuto la via originale ma compiu­to un’impresa assai diversa, avendo alterato le condizioni originali, in­ganna sé e gli altri; e se ha il diritto di divertirsi in montagna come vuo­le, non ha alcun diritto di fare delle valutazioni e dei confronti.

E chi si apre una nuova via con l’uso di chiodi, deve basarsi sul prin­cipio, già esposto da Dülfer, che:
I chiodi necessari in una arrampi­cata, nel giudizio della difficoltà, si devono considerare come infissi.

Si riduce così la valutazione della difficoltà al puro lavoro di roccia; sebbene, ad onore dei buoni chio­datori, è giusto anche ricordare che il piantare dei chiodi in certe circo­stanze, è un lavoro durissimo e pie­namente meritevole quanto il superamento di difficoltà di roccia senza aiuti artificiali.

Lo stesso criterio va esteso al­l’uso eventuale del martello per in­cidere qualche appiglio o qualche appoggio, uso che in pratica avviene però solo eccezionalissimamente. Si ha così anche il principio:
Gli appigli o gli appoggi incisi o comunque modificati col martello, nel giudizio della difficoltà, vanno consi­derati come naturali.

Ciò, si capisce, anche se tale la­voro di martello è costato sforzi notevoli. Questo principio non era mai stato posto finora, ma è altret­tanto logico e necessario quanto l’al­tro stabilito da Dülfer relativamente ai chiodi.

Cima della Busazza, parete ovest, e Torre Trieste dalla Cima delle Listolade (Civetta). In centro lo spigolo Videsott-Rittler-Rudatis.

Tecnica e stile
In tal modo si ottiene lo scopo di escludere dai valori della difficoltà l’effetto dei mezzi artificiali come trasformazione della natura della montagna, si mantiene la purezza dello stile ad un livello stabile e si raggiunge una omogeneità sufficien­te delle capacità che soddisfa la con­dizione «seconda», come appunto è stato detto.

Pertanto il giudizio di difficoltà che danno i primi salitori resta quel­lo corrispondente alle condizioni del­la montagna che saranno incontrate dai secondi. Naturalmente i primi salitori avranno faticato di più, ma la parziale svalutazione eventuale del loro lavoro elimina appunto il lato impuro dell’arrampicamento, il lavoro di alterazione delle condi­zioni naturali, che se venisse anche solo minimamente valutato, finireb­be col ridurre l’arrampicata ad una impresa industriale, distruggendo l’essenza stessa dell’arrampicamen­to. Nella pratica, se una cordata a forza di chiodi e di lavoro di martel­lo tracciasse una via su una parete altrimenti impossibile, si trovereb­be forse poi costretta a giudicarla ab­bastanza al disotto del limite del possibile.

L’esattezza delle indicazioni di difficoltà poggia essenzialmente su l’educazione alpinistica sportiva, su la stessa onestà dei salitori; ma la tecnica quando ha fornito le pre­cise norme di valutazione ha per­fettamente adempiuto il suo com­pito.

I prìncipi esposti, salvaguardando la purezza dello stile, risultano vera­mente di capitale importanza. Il su­periore livello sportivo degli arram­picatori delle Dolomiti lo si consta­ta appunto anche nel fatto che essi hanno sempre tenuto conto, oltre ai risultati, del modo con cui sono stati raggiunti. Le superbe pareti dolomitiche non hanno mai visto in­fatti l’uso di corde fisse, di pertiche, di scale di corda e di vari strumenti come le altre regioni delle Alpi.

Relativamente alla condizione «terza» si può subito affermare che nell’arrampicamento puro anch’es­sa è soddisfatta.

Arrampicatori che hanno raggiun­to le più alte prestazioni, e che quin­di giudicano delle difficoltà minori con serenità, e nei quali il grande allenamento ha maggiormente svi­luppato il controllo dello sforzo e la coscienza del proprio punto di ren­dimento, possono paragonare in mo­do quasi ideale le proprie imprese. Ai migliori arrampicatori avviene persino di rendersi conto quando una difficoltà risulta maggiore di quanto corrisponde al valore della loro capacità perché affrontata in modo errato, ossia, come si dice tecnica­mente, presa male; e di quanto l’im­perfetto stato fisico e l’allenamento deficiente aumentano le difficoltà. E ciò dimostra appunto l’esistenza di una coscienza delle proprie capacità.

Necessariamente la condizione «terza» è tanto più soddisfatta quanto più ci si attiene alle valuta­zioni dei migliori arrampicatori, pro­fessionisti o no indifferentemente. È ovvio che individui di scarsa ca­pacità e privi di una coscienza tecnica sportiva non possono dare alcuna valutazione attendibile in materia di difficoltà.

La coscienza eroica del­l’arrampicatore
Ciò che è stato esposto inizialmen­te come concetto generale, ossia che la sportività alpinistica rappresenta il grado più elevato di progresso tec­nico e di piena consapevolezza, tro­va così adesso la sua evidente con­ferma nel seguente principio:
Le valutazioni di difficoltà valide sono quelle dovute ai migliori arram­picatori in senso assoluto, a quelli cioè che per qualità naturali, prepara­zione tecnica e sportiva, e allenamento hanno maggiormente sviluppato le proprie capacità raggiungendo quel grado di «forma» che permette di su­perare coscientemente le più grandi imprese.

Succede alle volte che arrampi­catori superano qualche punto di forte difficoltà, senza avere un grado di «forma» adeguato ma puramen­te per rischio fortunato, compiuto più o meno in stato di incoscienza o di disperazione; è ovvio che que­sti casi accidentali non rappresen­tano un valore, e quasi del tutto pri­ve di senso risultano le valutazioni corrispondenti, per il duplice motivo che non può aversi una valutazione se non vi è coscienza dello sforzo e del pericolo e che, come è stato già specificato, la valutazione va fatta nel complesso di una salita e scarsa importanza ha un punto solo. In una grande impresa moderna d’arrampicamento altro che qualche ri­schio fortunato, tutta una serie di fortune necessiterebbe!

Si sono poste in tal modo tutte le basi per concludere.
Le quattro condizioni fondamen­tali, necessarie per la valutazione delle imprese alpine, sono tutte sod­disfatte nell’arrampicamento puro, nelle Dolomiti e in altre regioni, il quale costituisce un’attività ben definita con una tecnica sua pro­pria, e i principii essenziali di tale attività sono chiaramente risultati dallo stesso svolgimento di questo studio.

L’alpinismo dolomitico ha dunque tutti i caratteri di determinatezza e di valutabilità per essere uno sport perfetto. Cesserebbe per questo di essere alpinismo? Sarebbe stolto anche il pensarlo. È invece un alpi­nismo evoluto, forse unilaterale da certi punti di vista, ma da altrettanti positivi punti di vista sicuramente superiore.

Perché esistono le salite così spiccatamente di moda nelle Do­lomiti?
Perché è proprio nella precisa pro­gressione dei valori sportivi dell’arrampicamento puro che quasi tutti sono costretti ad arrestarsi ad un certo punto della progressione e pur rimanendo indietro vogliono giu­stificare il loro arresto, esaltando ciò che si è a loro imposto come un termine, creando una moda e un li­mite fittizio; perché troppo terribile è il procedere sempre verso la difficol­tà crescente, verso il limite del pos­sibile.

Ma lo sport dell’arrampicamento è proprio l’andare oltre, sempre più oltre, alla conquista dei limiti del­l’umana possibilità.

Non appagarsi della cima e tanto meno della quota di una cima qua­lunque essa sia. Una macchina può trasportare in su le membra più flac­cide, le volontà più deboli, gli spiriti più poveri. Ma ascendere in una in­finita varietà di sforzi e di movimenti intelligenti, in una vicenda coscien­te lucida eroica che ha per soli testimoni il tempo e lo spazio, misuran­do tutte le possibilità e tutte le ener­gie. Aver tutta la coscienza e la vo­lontà formidabile del pericolo mor­tale di istante in istante, metro per metro, di appiglio in appiglio, e dal proprio io trarre tutta la potenza di essere completamente e costante­mente dominatori di ogni muscolo, di ogni fibra, di ogni gesto, di ogni brivido.

Questo è lo sport dell’arrampi­camento! Il più emozionante, il più volitivo, il più virile di tutti gli sport (i).

Nota
(i) Per la trattazione di alcuni punti vedi anche: Domenico Rudatis, Difficoltà e limite del possibile in montagna, in Alpinismo, Torino, 1929 e Domenico Rudatis, La moderna gra­duazione delle difficoltà, in Annuario della Società Alpinisti Tridentini, Trento, 1930.

Per consultare questo articolo nella sua versione originale su Lo Sport Fascista, clicca qui.

Storia dell’arrampicamento – 01 ultima modifica: 2018-11-15T05:31:43+01:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “Storia dell’arrampicamento – 01”

  1. Paolo i limiti son fatti per essere superati. Poi siamo umani e come tali ognuno di noi ha i propri limiti . Chi riesce a superarli e chi no. Chi non si impegna abbastanza , chi invece fa di tutto ma non ha abbastanza talento. Ma questo è bello perchè appunto ci ricorda che siamo umani , con tutte le nostre debolezze.

    Per continuare ad alzarla ci vuole coraggio o incoscenza…

  2. Quando si abbassa l’asticella vuol dire che si sta invecchiando o se non si riesce mai ad alzarla allora si è dei gran brocchi 🙂
    Ma “alzare l’asticella” è una filosofia di vita molto impegnativa (il continuare a  superarla diventa sempre più difficile e si incontrano i propri limiti).
    Ed è molto diversa dalla imperante filosofia del divertimento: bisogna avere molto coraggio per continuare ad alzarla.

    Comunque secondo me quel Domenico faceva sempre dei ragionamenti piuttosto “fuori di testa” anche per la gente bravina.

  3. Ma lo sport dell’arrampicamento è proprio l’andare oltre, sempre più oltre, alla conquista dei limiti del­l’umana possibilità.

    Alzare l’asticella…!?!

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