Perché non ricordo gli e-book?

Perché non ricordo gli e-book?
di Marco Belpoliti
(pubblicato su Almanacco, 2 luglio 2015)

Incontro Giovanna in una libreria. Sta cercando tra le novità i libri da leggere questa estate. È incerta se comprare un libro di carta, oppure la sua versione e-book. Quello tradizionale pesa di più e costa anche di più, tuttavia, mi confessa, i libri che legge sul tablet non se li ricorda per nulla. “Strano – dice – è come se leggessi qualcosa di cui non conservo memoria”. E non è questione dei saggi, che legge di meno sul tablet, ma proprio dei romanzi o racconti. “Com’è possibile?”, mi domanda.

La medesima osservazione me l’ha fatta un mese fa un amico. Anche lui ha constatato che i testi letti in versione elettronica sono meno ricordabili: “Che sia un mio difetto?”, mi ha domandato.

Da allora mi sto interrogando su questo strano effetto di oblio, o scarsa memorizzazione. Da tempo mi sono accorto che le e-mail, ma anche i documenti, che ricevo via posta elettronica, li ricordo meglio se li stampo. Visti su un foglio A4, le parole, le frasi, i concetti, li trattengo meglio. Ma non posso stampare tutto, sia per una ragione pratica, sia per un problema etico: si consuma troppa carta. Tuttavia il tarlo mi è rimasto.

Parlando con Giovanna mi viene in mente una cosa: il tablet è un supporto a due dimensioni. “Anche il libro”, dice Giovanna. “Sì, è vero, ma tu con il libro hai un orientamento spaziale”. “Come?”. “Destra e sinistra”, rispondo. Detto altrimenti, il libro si trova in uno spazio a tre dimensioni; possiede un orientamento che è quello determinato dalla nostra simmetria bilaterale: davanti/dietro; destra/sinistra. Pur essendo bidimensionale, il foglio partecipa della terza dimensione che è data dalla nostra stessa presenza nello spazio. Ricordiamo meglio perché le parole sono collocate su un supporto che è tridimensionale: il libro possiede tre dimensioni.

Sembra una cosa da poco, e invece il processo mentale per cui si ricorda è senza dubbio legato alla nostra stessa struttura spaziale, alle azioni che compiamo lungo le tre coordinate: x, y, z. La memoria si organizza su dati sensoriali che necessitano – o almeno prediligono – la tridimensionalità. Mentre i tablet su cui si legge (e anche i computer) sono bidimensionali. L’oggetto, per quanto presente nello spazio, tende a essere una lamina, a presentarsi come un oggetto a due dimensioni (x, y). Non possiede profondità, ed è questa profondità, dico a Giovanna, che ti aiuta a ricordare. Mi è tornato in mente che mi ero già occupato del problema quando ancora i tablet per gli e-book non esistevano.

All’inizio degli anni Novanta avevo letto un libro dedicato agli effetti delle microtecnologie sui processi mentali umani. Un professore di Letteratura classica in un’università del North Carolina, Jay David Bolter, aveva pubblicato un libro all’epoca decisivo: Lo spazio dello scrivere (Vita e pensiero). Venivo dalle riflessioni intorno a Calvino, al tema del “foglio-mondo” su cui i personaggi di alcuni suoi famosi romanzi immaginavano di scrivere (era questo il tema di Il cavaliere inesistente, ma anche di altri racconti topologici degli anni Sessanta), cui avevo dedicato un lungo saggio, L’occhio di Calvino (Einaudi, 1996).

Bolter sosteneva che la nostra mente è paragonabile a un vero e proprio testo composto di segni interrelati tra loro e che dunque scrivere sul computer equivaleva più o meno a scrivere sulla mente stessa. Dietro a lui si stagliavano i profili autorevoli di alcuni antropologi come Jack Goody o il gesuita Walter J. Ong, collega di Herbert Marshall McLuhan, che avevano esplorato gli effetti della scrittura sulla ricezione sensoriale e percettiva nel corso della storia delle civiltà umane. Di tutto questo avevo anche scritto in un articolo in cui presentavo il libro del professore americano.

Vi citavo un testo scovato in rete che mi aveva colpito molto: “Passione e morte della terza dimensione” di Ruggero Pierantoni (anno 2003). Qui bisognerebbe fare una parentesi su Pierantoni, che è stato, e ancora è, uno dei più singolari studiosi di percezione, e non solo, ma rimando ai suoi straordinari libri, il più celebre dei quali è L’occhio e l’idea (Bollati Boringhieri).

L’articolo, apparso su una delle prime riviste telematiche italiane, Golem, spiegava una cosa banale ma importantissima: la bidimensionalità sta prevalendo a svantaggio della tridimensionalità. Quello che si perde è la competenza spaziale degli esseri umani. Poiché il tempo dedicato alla contemplazione passiva delle immagini colorate e mobili è molto aumentato (e allora era solo il computer a tenere gli occhi e la mente occupate nella bidimensionalità), adulti, e soprattutto bambini, perdono progressivamente le competenze spaziali, ovvero la capacità di muoversi in un mondo a tre dimensioni, in cui la profondità di campo, così utile per i nostri progenitori cacciatori, ma anche per noi consumatori stanziali, diminuisce progressivamente.

Nella sua brillante conclusione Pierantoni sosteneva che solo due categorie di umani continuavano a fare uso della terza dimensione: i boy-scout e i criminali. Ovvero, coloro che svolgono attività di orientamento spaziale a scopo ludico educativo, e coloro che devono invece fare i conti con le tre dimensioni per produrre delle performance senza essere colti in fragrante (in particolare i borsaioli che agiscono sui nostri portafogli, o borsette, con una destrezza sempre strabiliante).

Pierantoni ha perfettamente ragione, e il problema dell’uso prevalente della bidimensionalità ha un peso specifico anche nella lettura degli e-book sui supporti bidimensionali. La geniale idea del “toccare” (touch), toccare per sfogliare i tablet, l’iPad e l’iPhone in particolare, non è solo un elemento pratico, ma anche una risposta più o meno consapevole alla necessità di entrare nella terza dimensione per svolgere la funzione di lettura: toccare (o sfiorare) è tridimensionale, certo, ma sempre in versione virtuale. L’elemento sagittale, la profondità, sugli schermi non esiste, è virtualmente riprodotta. Per questo diventa più difficile ricordare, perché la nostra memoria associa al gesto e al movimento l’atto del ricordare. Non basta la sola vista, l’occhio, ma occorre il gesto (“il gesto e la parola”, come dice il titolo di un famoso libro di un paleontologo dedicato a questo problema nell’arco della storia della civiltà umana).

Ho ripreso in mano quell’articolo che avevo scritto per cercare di ritrovare ulteriori argomentazioni; ricordo quel testo non solo e non tanto per averlo scritto, ma perché è dentro un libro di cui ho memoria fisica: colore, copertina, dimensione, collocazione nello scaffale, ecc.

Il primo libro che avevo citato è di Jan Assmann, un eminente egittologo di origine ebraica, credo che all’epoca insegnasse a Heidelberg, La memoria culturale (Einaudi). Si tratta di un libro complesso da cui avevo tratto un paio di considerazioni; come altri eminenti studiosi, Assmann pensa che le civiltà siano state modellate in profondità dai sistemi di scrittura e, se in Mesopotamia la scrittura si è sviluppata dalla sfera economica, nell’antico Egitto è invece il rapporto con la rappresentazione politica a prevalere. È attraverso i monumenti, le piramidi, che lo stato egizio rende visibile se stesso e l’ordine eterno su cui si fonda. La scrittura colossale, i geroglifici, sono presenti soprattutto sulle superfici dei templi, e fungono da trasposizione tridimensionale e monumentale di quello che è altrove il libro (il volumen). La scrittura è in Egitto immagine e privilegia l’aspetto tridimensionale (Assmann spiega ulteriormente come questo si leghi alla particolare religione dell’eternità propria degli Egizi).

Noi non discendiamo dagli egizi, bensì dal mondo greco ibridato dalla tradizione ebraica. Da queste due linee culturali abbiamo ereditato quella che Assmann definisce “la tirannia del libro”. Alla base poi c’è lo sviluppo del carattere esegetico, il commento dei testi nell’ebraismo, e poi nel cristianesimo. Gli ebrei sono un popolo esiliato e disperso, fondato sulla extraterritorialità, legato al ricordo, e quindi al Libro sacro.

Ramingo per il mondo, dopo la cacciata dalla Terra promessa e la diaspora, questo popolo ha creato una propria “memoria culturale” differente dagli egizi stanziali e monumentali. L’altro lascito ci arriva, come ho detto, dai Greci, e ci giunge attraverso l’oralità: in quella cultura non c’è lo spazio ufficiale, non esistono caste sacerdotali, o Sacre Scritture, e al tempo stesso l’oralità non è “spinta verso la sottocultura”, cosa che è invece accaduta a partire dal nostro Medioevo per almeno cinque secoli.

Cerco di tirare le fila di un ragionamento alquanto complesso nato da una conversazione in libreria. Si può dire che la scrittura abbia addomesticato il pensiero umano (Goody) privilegiando la bidimensionalità (greco-ebraica) che deriva poi dalla pratica di registrare un pensiero su un foglio, un papiro o una tavoletta di cera. L’origine di tutto è probabilmente lì, dice Assmann, comincia con il libro, ma poi prosegue con il computer, come scrive Pierantoni (e in mezzo c’è stata la televisione che aspetta ancora, dopo McLuhan, uno studio chiarificatore al riguardo). Ora, lo sappiamo da un pezzo, il processo è andato avanti e il tablet intensifica la bidimensionalità iniziata molti secoli fa. Ricordiamo sempre meno perché sappiamo sempre di più. Se non ricordiamo un titolo di un libro, il nome di un attore, un indirizzo stradale, o altro ancora, ricorriamo allo schermo piatto che abbiamo sul tavolo di lavoro, sul cruscotto dell’automobile e ora in tasca o nella borsetta.

C’è alternativa? Non credo. Forse un modo per mitigare il tutto risiede nel frequentare più spesso i luoghi dei boy-scout e dei criminali: boschi e strade. Forse solo in questo modo, con la vita all’aria aperta, con questa diversa ecologia percettiva e spaziale, la nostra competenza tridimensionale potrà risorgere, o almeno non spegnersi del tutto. Personalmente, per cercare di ricordare quello che leggo, nonostante tutto, privilegio ancora il libro, la sua dimensione a tre dimensioni. So bene che è solo un attardarsi verso future mete dell’umanità, tuttavia è una strategia di sopravvivenza personale assai utile, almeno per me. Buona lettura di questo testo composto con le due dimensioni e diffuso nel medesimo modo. Nessuno è perfetto.

Perché non ricordo gli e-book? ultima modifica: 2025-04-08T04:29:00+02:00 da GognaBlog

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17 pensieri su “Perché non ricordo gli e-book?”

  1. Leggo gli uni e gli altri.
    Mi dimentico o mi ricordo indifferentemente dal supporto.
    Quello che mi coinvolge o interessa lo trattengo, carta o byte quali che siano.

  2. Un libro vero è libertà, un ebook è un’illusione.

    È una finzione, più o meno quello che ho detto al punto 2

  3. Il vero problema degli ebook, di cui nessuno sembra voler parlare – chissà perché? – è la loro intangibilità.
    Non hanno un contenuto vero: con un semplice click, loro possono cancellarli dal tuo dispositivo, riscrivere la storia, eliminare idee scomode. I libri stampati, invece, sfuggono al controllo digitale: non si spengono, non si aggiornano. Restano.
    Un libro vero è libertà, un ebook è un’illusione. Ecco perché i libri spariranno.
    E, poi, quelle sensazioni tattile e olfattive della carta chimicamente sbiancata e degli inchiostri pieni di metalli pesanti… Ti restano dentro. Letteralmente.
     
    P.S.
    Un dubbio mi assale: perché le innovazioni tecnologiche generano così spesso paure e rifiuti aprioristici?
    Soprattutto tra i più “diversamente giovani” [cit.].
    Sarà saggezza o senilità? 🙂

  4. Non credo che sia il solo coinvolgimento emotivo a dettare la differenza: mi capita che se cerco la traduzione di un termine straniero online, poi me ne dimentico, mentre se lo individuo sul dizionario no.

    Penso sia molto importante il contatto, poiché non sono i soli occhi a leggere, ma lo si fa anche con altri sensi (tatto, olfatto, sentimenti).

  5. @10
    Ma scia’ me scuse,
    salvare le conoscenze dell’umanita ok, ma solo se mi faranno salire pulito un 6c il prox we!
    Eh….

  6. 10@ Fabio tutte considerazioni più che concrete, saremo legati a doppio filo sempre più alla A.I. cosi imperante che prenderà probabilmente il posto di maestri e professori nelle scuole future abbattendo quelle utime cortecce cerebrali  sopravvissute alle mille diavolerie che ci rendono comoda la vita ma che impoveriscono la memoria.
    Cercare la Verità sarà allora ancor più difficile.

  7. Antonio, a volte un dubbio mi assale:
    1) Le incisioni sulla pietra si sono conservate per millenni.
    2) I libri si conservano per diversi secoli.
    3) Quanto dureranno i supporti digitali? In ogni caso, quando diventano obsoleti bisogna trasferire i dati in un nuovo tipo di supporto.
    4) Se non si esegue il punto 3, col tempo i dati sui vecchi supporti diventeranno irrecuperabili.
    È un rischio remoto (qualcuno provvederà per tempo, speriamo), ma in gioco ci sono le conoscenze dell’umanità.

  8. Da una tavoletta d argilla ad una a LCD…
    Si tramanda ancora dai tempi di Ur l aneddoto di uno che voleva sostituire gesti danze e suoni tradizionalmente usate come Memoria del passato con delle strane e codificate linee cunee evitando così equivoci e aggiunte… tutti a dirgli che era si una buona idea ma senza alcun futuro. 😊 

  9. Antonio, abbiamo rischiato di farci molto male, e qualcuno se l’è anche fatto,  ma bè mi tempi!!!

  10. OT “frecce da archi autocostruiti con le stecche degli ombrelli,”
    Alberto io una di quelle la ricordo più che bene ; me la tirò mio fratello nel braccio destro altezza muscolo fortunatamente conseguenze zero e massima omertà nel coprire ferita e misfatto.
    Altro che Adolescence o/e guerre di bottoni…
    Ciao 

  11.  
    Tra gli stereotipi della nostra epoca c’è anche l’etica, invocata a sproposito in molte circostanze. Ricorrere all’etica per rifiutare la cultura alfabetica fornisce un alibi all’ignoranza delle giovani generazioni che all’impegno preferiscono il divertimento. Rifiutare la carta per non studiare non è una scelta etica, ma una scelta immorale.

  12.  
    Tra gli stereotipi della nostra epoca c’è anche l’etica, invocata a sproposito in molte circostanze. Ricorrere all’etica per rifiutare la cultura alfabetica fornisce un alibi all’ignoranza delle giovani generazioni che all’impegno preferiscono il divertimento. Rifiutare la carta per non studiare non è una scelta etica, ma una scelta immorale.

  13. . Forse un modo per mitigare il tutto risiede nel frequentare più spesso i luoghi dei boy-scout e dei criminali: boschi e strade.

     
    Da ragazzi si giocava alla guerra. Ci si divedeva in bande sugli argini opposti di un fosso e ci si lanciava sassi con le fiode, ghiove di terra, frecce da archi autocostruiti con le stecche degli ombrelli, cingini sparati da fucili di legno con i gancetti per i panni fregati alle mamme, ect. Oggi tutte queste emozioni le si possono “vivere” come se fossero vere,  guardandole dentro ad uno schermo seduti comodamente su un divano in salotto. Un mondo virtuale. Sicuramente le immagi appaiono vere, sembra di esserci dentro, di toccarle, ma non ci si sporca e non ci si fa male. Ma siamo sicuri che sia la stessa cosa? Che siano vere emozioni? Oppure lo pensiamo solo perchè quelle vere non si sa cosa siano?

  14. Stavo riflettendo sulla stessa cosa di Marcello Cominetti: la differenza la fa l’impronta emotivo-emozionale che mi lascia il testo che sto leggendo. In altre parole, quanto mi coinvolge. Se attraverso una zona industriale, per me priva di qualsiasi attrattiva e che mi suscita anzi emozioni repulsive, dopo pochi giorni ho dimenticato tutto: ciò che ho visto, la strada che ho fatto per arrivarci, forse permangono più a lungo gli odori sgradevoli. Quando sono in mezzo alla natura, meglio se poco o nulla antropizzata, in montagna o al mare, ricordo tutto per lungo tempo: ho netti ricordi di boschi dove ho giocato da piccolo, di prime cime conquistate dietro a mio papà, legato in vita con un cordino ( e che sensazione di sicurezza che mi dava, alla faccia dell’oggettività!!) e poi di tanti altri luoghi / ambienti naturali. Tutti ricordi in 3D. Ma cambia il colorito emotivo. La stessa differenza la ritrovo in ciò che leggo o studio, su carta o su video. E si potrebbe ancora ampliare il discorso : solo un accenno, il potere evocativo-emozionale delle immagini, delle fotografie, su carta o in video. Bidimensionali, ma di enorme impatto. Concludendo, credo che i mezzi, come al solito, siano solo mezzi. Fisici o digitali che siano. La differenza la facciamo noi, scegliendo la tinta con cui colorare il mondo in cui viviamo. 

  15. La differenza tra leggere una cosa su uno schermo o  su un libro, è come la differenza tra giocare con  animale in carne ed ossa ed un pupazzo.

  16. Ho quasi 64 anni. Mi succede che se leggo delle minchiate ,restano poco nella mia memoria. Mentre quello che mi piace e mi interessa lo ricordo.
    Il tutto indipendentemente dall’averlo letto su uno schermo o sulla carta.
    È grave?

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