Idee emarginate dall’opportunismo dei partiti
di Luigi Iannone
(pubblicato su ilgiornale.it il 16 dicembre 2018)
Quando in Italia si fa riferimento alla Nouvelle Droite, il pensiero va dritto a Marco Tarchi. Negli anni Settanta fu tra i principali protagonisti di quel mondo culturale che cercò di depurare la destra dal nostalgismo e, al contempo, di leggere con netto anticipo la crisi della politica con tutti i suoi correlati sociali ed economici.
Su questo tentativo ha scritto vari volumi. E alcuni di essi, penso per esempio ad Esuli in patria, sono divenuti dei veri e propri bestseller nel campo della saggistica. Tarchi è ora un fine politologo che insegna all’Università di Firenze ma ha due meriti importanti. Innanzitutto, quella sua giovanile esperienza lo portò ad intrecciare relazioni culturali con Alain de Benoist e con decine di altri intellettuali non catalogabili in rigidi schematismi, e perciò in grado di far fermentare un ampio fronte metapolitico le cui intuizioni appaiono ancora originali. E poi è stato il primo a proporre una seria indagine scientifica sul fenomeno populista. Due meriti che, a distanza di decenni, sembrano avere talune connessioni e tratti in comune, e su cui abbiamo sondato il suo parere.
Quale fu la scintilla che diede il via alla Nouvelle Droite?
«La profonda insoddisfazione di Alain de Benoist e dei suoi amici nei confronti della povertà culturale e dell’inefficacia politica di quella estrema destra da cui provenivano: un ambiente ossessionato dalle nostalgie e incapace di affrontare i problemi del proprio tempo».
Per quale motivo vi fu una particolare simbiosi tra Italia e Francia, tanto da tradursi anche in private amicizie?
«Perché anche in Italia serpeggiava un’analoga insofferenza tra parecchi giovani dell’ambiente missino, e per loro la scoperta delle riviste della Nouvelle Droite fu il segnale che c’era, in un Paese vicino, chi stava cercando di scuotere dal torpore il microcosmo neofascista. Il passo successivo riconoscere le affinità e iniziare un percorso comune venne di conseguenza, e i legami si rafforzarono con l’andar del tempo».
Si è dato una risposta sul perché una esperienza così articolata venisse e venga ancora accostata al radicalismo di destra?
«Beh, quello era l’ambiente di provenienza dei suoi animatori, e questo bastava, agli occhi di commentatori prevenuti, per liquidare la novità del fenomeno come un banale tentativo di travestire mimeticamente le solite vecchie idee. Era un errore, una prova di miopia».
Le vostre riviste anticiparono non poche questioni contemporanee. Allora, però, forse proprio perché esterne alla politica dei partiti, sembrarono nel concreto influire pochissimo.
«Sul piano delle idee, la Nuova Destra ha lasciato già tracce significative, che potrebbero avere un’eco significativa nel prossimo futuro. Politicamente ha inciso poco perché l’ambiente che avrebbe dovuto per primo trarne ispirazione, quello della destra che si usa definire radicale, è rimasto sordo ai richiami ad attrezzarsi per vincere la sfida della modernità. E ha preferito, in Italia ancor più che in Francia, affidarsi all’opportunismo e all’improvvisazione, svendendo la propria identità e finendo per essere la pedina di giochi altrui».
C’è chi parlò di gramscismo di destra, attraverso la critica del concetto di Occidente, dell’americanismo e del consumismo. Volevate connettere una idea di una Europa forte, transnazionale e forse federalista, con i valori espressi da una visione comunitaria.
«Fu lo stesso de Benoist a lanciare la formula del gramscismo di destra, volendo indicare che la destra doveva seguire la lezione di Gramsci: che cioè per gettare le basi di una rivoluzione occorre seminare le proprie idee nella mentalità collettiva. Era quella che allora veniva definita la via metapolitica. Che mirava ad inserire nel dibattito pubblico i temi che lei cita, ed altri ancora».
Alcune vostre previsioni sono realtà. Penso, per esempio, alla resa della politica, al primato della tecnica e dell’economia finanziaria. C’erano stati i vaticini di Heidegger e della Scuola di Francoforte, ma da quali premesse partivate per decretare che quel tempo fosse oramai giunto?
«Non c’era la convinzione che i tempi fossero già maturi perché le nostre idee trovassero una accoglienza diffusa, ma pensavamo che fosse giunto il momento di impegnarsi attivamente sul terreno culturale per evitare che quello che già allora si iniziava a chiamare pensiero unico dominasse la scena senza trovare alcuna seria opposizione».
All’omologazione planetaria, alla retorica dei diritti umani, alla prepotenza di una Europa dei mercati e dei burocrati si tentò allora di sfuggire tirando in ballo valori e idee come l’ambientalismo e la difesa delle identità. Sono idee ancora valide?
«Lo sono oggi più di allora, perché i processi a cui lei fa riferimento negli anni Settanta erano ancora in una fase di sviluppo, mentre oggi si sono pienamente dispiegati, e i loro effetti negativi stanno diventando sempre più evidenti e richiedono urgentemente antidoti».
La Nouvelle Droite sdoganò il concetto di «nuove sintesi». I moderni populismi possono esserlo?
«L’espressione nuove sintesi è stata coniata in Italia da alcuni degli animatori della ex Nuova Destra, verso la metà degli anni Novanta, per far capire che i problemi del nostro tempo non possono più essere efficacemente affrontati facendo riferimento a categorie politiche nate in epoche lontane, com’è il caso dei concetti di destra e sinistra. Sono altri, oggi, gli spartiacque che definiscono le nuove linee di convergenza o di antagonismo».
Democrazia partecipativa, contraddizioni dello sviluppo neocapitalistico. In fondo, quelli dei populisti sono proprio i «vostri» temi?
«I movimenti populisti ne hanno individuati alcuni: identità contro cosmopolitismo, popoli contro oligarchie, specificità culturali contro omologazione, ecc. Sono temi su cui la Nuova Destra aveva puntato. Manca però almeno per ora, alla quasi totalità dei populisti, la consapevolezza che, su questi versanti di conflitto, la guerra non si combatte con gli slogan ma con le idee. Guai ad accontentarsi dei riscontri elettorali: le opinioni sono volubili e volatili, e se non sono ancorate a convinzioni profonde, possono cambiare di segno nell’arco di pochi anni, se non di mesi».