Processi in Cambogia

La Corte Suprema della Cambogia aveva aperto il 17 ottobre 2014 a Phnom Penh il processo d’appello per due alti esponenti del regime dei khmer rossi condannati per genocidio.

Nuon Chea, 88 anni, era considerato l’ideologo del regime maoista cambogiano guidato da Pol Pot ed era soprannominato “il fratello numero 2″. Khieu Samphan, 83 anni, era stato presidente della Kampuchea Democratica, la Cambogia, dal 1976 al 1979. Entrambi erano stati condannati all’ergastolo il 7 agosto 2014 per crimini contro l’umanità, persecuzione religiosa, omicidio e tortura dall’ECCC, il tribunale speciale delle Nazioni Unite (Extraordinary Chambers of the Courts of Cambodia).

Nuon Chea, il fratello n. 2 dei khmer rossi, a Phnom Penh il 23 novembre 2016
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L’accusa in questo secondo processo era di genocidio nei confronti della minoranza vietnamita (ventimila vittime) e di quella musulmana di etnia cham (mezzo milione di vittime), e di aver costretto milioni di persone a trasferirsi dalle città per lavorare nelle campagne, nel tentativo del regime di ricreare un’utopia agraria.

Il tribunale speciale, istituito dieci anni fa e che aveva condannato finora solo tre khmer rossi, annunciava ai primi di marzo 2015 che anche Im Cheam e Meas Muth sarebbero stati processati per omicidio, sfruttamento della schiavitù, persecuzione etnica e politica e altre azioni inumane. Im Cheam, una monaca buddista di sessant’anni, era accusata di aver gestito un campo di lavoro durante il regime di Pol Pot, mentre Meas Muth, ottant’anni, ex generale della marina, era accusato di aver mandato gli oppositori politici in un campo di tortura.

Il 17 aprile 2015 la Cambogia ha commemorato il quarantesimo anniversario dall’inizio del regime dei khmer rossi. Quel giorno del 1975 i combattenti del gruppo maoista cambogiano guidato da Pol Pot si erano impossessati della capitale Phnom Penh. In seguito, nei quattro anni in cui sono stati al potere, i khmer rossi hanno ucciso 1,8 milioni di persone.

Khieu Samphan nel 2014
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Il 23 novembre 2016 il tribunale ha confermato le condanne all’ergastolo per Khieu Samphan, ormai 85enne, e per il 90enne Nuon Chea.

E’ un fatto epocale, è la prima volta che qualcuno dei responsabili è stato giudicato colpevole dei crimini del regime dei khmer rossi” ha detto il portavoce del tribunale Lars Olsen.

David Scheffer, l’inviato del Segretario dell’ONU a Phnom Penh, ha commentato che questo verdetto è di monito anche per altri che non rispettano i diritti umani, vedi la Corea del Nord, le Filippine e l’ISIS.

Youk Chhang, un sopravvisuto oggi direttore esecutivo del Documentation Center of Cambodia, ha detto: “Il verdetto ridà speranza al processo di giustizia, anche se non ci restituisce certo ciò che abbiamo perduto e non ci dà comunque garanzia che simili crimini non siano mai più ripetuti”.

Accanto al grande desiderio di svoltare pagina in Cambogia, non c’è però il generale consenso sul come dovrebbe realizzarsi la riconciliazione.

Il Primo Ministro Hun Sen è stato critico sull’efficacia del tribunale, giudicato lento e assai poco conclusivo, e ha espresso preoccupazione che altri processi di questo tipo potrebbero portare ad altri conflitti. Altri pretenderebbero più chiarezza pubblica nei procedimenti e nelle decisioni processuali.

Fuori dell’aula del tribunale a Phnom Penh, in Cambogia, dove si è svolto il processo d’appello contro i due alti esponenti del movimento dei khmer rossi, Nuon Chea e Khieu Samphan. Foto: Samrang Pring, Reuters/Contrasto.
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Forse solo il 10% o 20% della popolazione capisce appieno il significato e l’impatto di queste sentenze” dice Long Panhavuth. Youk Chhang invece è ottimista su quest’evoluzione, secondo lui la riconciliazione non dipende dalle sentenze: “la riconciliazione è una questione personale. Sarebbe troppo semplice pensare che queste condanne rimettano d’amore e d’accordo l’intera società in così poco tempo… però servono a tutti, perché non dobbiamo dimenticare che la Cambogia è l’unico paese al mondo in cui un’intera generazione è stata educata al genocidio”.

A maggiore approfondimento di questa breve cronaca, abbiamo ritenuto opportuno riprendere un articolo scritto nel 2009 e pubblicato da Lettera22. E’ di Gianpasquale Polloni, un milanese che conosce assai bene la Cambogia avendo operato per anni con Handicap International per il miglioramento delle condizioni economico-sociali dei disabili.

Vittime dei khmer rossi manifestano fuori del tribunale a Phnom Penh, in Cambogia, il 17 ottobre 2014. Foto: Samrang Pring, Reuters/Contrasto
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Ma giustizia non sarà fatta (2009)
di Gianpasquale Polloni

La fase istruttoria del processo che dovrebbe stabilire le responsabilità dei dirigenti del governo di Kampuchea Democratica, meglio conosciuti come khmer rossi, è entrata nel vivo. Durante il loro regime, durato 3 anni, 8 mesi e 20 giorni, dal 17 aprile 1975 al 7 gennaio 1979, persero la vita centinaia di migliaia di cambogiani; le stime più verosimili parlano di un milione e 700mila vittime.
L’interesse della maggior parte dei cambogiani rispetto al processo è sempre elevato e ultimamente si registra volontà di comprendere anche da parte delle nuove generazioni, tenute sempre all’oscuro sul passato (basti pensare che il periodo khmer rosso non è citato nei libri scolastici). L’importanza di condannare con un atto storico le azioni dei responsabili e di non accettare che la tragedia sia da considerare un orrore da rimuovere, avrebbe tra la popolazione l’effetto di rendere giustizia a chi ha subito la totalità di questo dramma perché non c’è famiglia, in Cambogia, che non abbia avuto qualche vittima durante il regime.
La struttura del processo è formalmente un ibrido composto da due istanze: la Commissione delle Nazioni unite sui crimini dei khmer rossi e la magistratura cambogiana, o meglio le Camere straordinarie della Corte di giustizia. Il fatto però che le udienze siano a porte chiuse, che ci sia un totale controllo sui media accreditati e che spesso l’iter processuale si blocchi a causa della burocrazia procedurale, fa temere che queste difficoltà possano favorire una sorta di assuefazione da parte del pubblico. Alcuni osservatori particolarmente sospettosi fanno notare che queste lentezze sembrano funzionali all’augurio che questi vecchi criminali ultrasettantenni finiscano le loro esistenze al più presto, cosa d’altronde già accaduta per alcuni di loro, tra cui Pol Pot, il fratello n°1. I continui appelli per nuovi fondi affinché l’iter processuale possa continuare fino al 2011, stanno oscurando lo scopo stesso del processo, in una sorta di autoreferenzialità che finisce per mettere in secondo piano la ricerca della verità, quasi fosse una faccenda secondaria rispetto all’esistenza dello stesso tribunale.
Gli scandali suscitati dagli alti salari e dalle procedure clientelari per la nomina dei 200 affiliati all’associazione degli avvocati cambogiani, che insieme ai cento avvocati internazionali compongono questo carrozzone sovradimensionato del costo di 117 milioni di dollari, non hanno scosso l’insieme della struttura, né i suoi maggiori sponsor, le Nazioni unite.

L’arrivo dei khmer rossi a Phnom Penh il 17 aprile 1975. Foto: Roland Neveu, LightRocket/Getty Images.
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Cinque imputati
Gli imputati al processo sono solo cinque: Nuon Chea, Ieng Sary, Khieu Samphan, Khieu Tirith, Kaing Khek Iev alias Duch. Altri imputati dirigenti khmer rossi sono nel frattempo deceduti; alcuni di loro erano in stato di detenzione, come Ta Mok, il «macellaio», e Sam Bith, responsabile del rapimento e uccisione di ostaggi internazionali. Pol Pot e Son Sen sono invece morti nel 1998, nei territori ancora controllati dai khmer rossi, per malattia il primo e per purghe interne il secondo.
Tra gli imputati al processo, Nuon Chea, il cui vero nome è Long Bunroth, conosciuto come fratello n°2, ha ricoperto il ruolo di segretario generale aggiunto del Partito dei lavoratori khmer (Ptk e in seguito Pck) e di presidente dell’Assemblea di Kampuchea Democratica dal 1976 al 1979. Era secondo solo a Pol Pot nella gerarchia del regime.

Pol Pot quando era al potere
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Kim Trang, alias Ieng Sary, figlio di un ricco proprietario terriero del Sud Vietnam, era il ministro degli Esteri, responsabile del Comitato economico e finanziario e interlocutore esclusivo delle autorità cinesi per quanto riguarda l’assistenza finanziaria e militare fornita da Pechino ai khmer rossi anche dopo la caduta del regime.
Khieu Samphan alias Hem, figlio di un giudice, laureato in Francia, eletto deputato alle elezioni del 1962 in Cambogia, è stato presidente di Kampuchea Democratica dal 1976 al gennaio 1979, poi primo ministro del governo in esilio dal 1979 al 1982 e presidente e ministro degli Esteri in esilio fino al 1992. Infine presidente e ministro della Difesa del fronte unito antigovernativo fino al 1994.
Khieu Thihrit alias Phea, moglie di Ieng Sary, figlia di un giudice di Battambang apparentato alla famiglia reale, la cui sorella Khieu Ponnary era la prima moglie di Pol Pot, è stata ministro degli Affari sociali e portavoce dei khmer rossi fino al 1995.
Kaing Khek Iev alias Duch, era invece il capo dei servizi di sicurezza del Comitato centrale del Partito sin dal 1973, agli ordini diretti di Son Sen; ha diretto il centro S21, quartier generale della polizia segreta, centro di tortura ed eliminazione di circa 16mila persone, delle quali solo otto sono sopravvissute. Duch partecipava direttamente agli interrogatori. È stato arrestato mentre lavorava con un’organizzazione non governativa cristiano-americana che aveva accettato la sua conversione.

Pol Pot detenuto
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In febbraio Duch è stato messo a confronto con i luoghi in cui ha operato come capo dei servizi di sicurezza, l’S21 e il sito di Choeng Ek, meglio noto come killing field, dove avvenivano le esecuzioni dei prigionieri dell’S21 non sottoposti a interrogatori o ancora vivi dopo le torture. Sulla stampa locale e internazionale, che non era presente perché il processo è accessibile solo a pochissimi media accreditati, è filtrata la notizia delle sue lacrime e del suo presunto pentimento. Ma pochi giorni dopo, testimoni oculari hanno smentito il particolare, aprendo così un altro capitolo inquietante sul processo e sulla mancanza di trasparenza delle procedure che si presterebbero a manipolazioni vergognose.
Gli imputati sono accusati di uccisioni di massa, torture, deportazioni forzate di centinaia di migliaia di persone (morte poi in seguito al lavoro forzato o per fame), dell’eliminazione fisica di minoranze come i Cham, di religione musulmana, vietnamiti, la minoranza khmer tailandese o i gruppi indigeni di altre parti del paese. Sono anche responsabili dell’uccisione di migliaia di monaci buddisti e della distruzione dei loro luoghi di culto, dell’eliminazione fisica degli intellettuali accorsi al momento della vittoria dell’aprile 1975 per aiutare il paese ma ritenuti un pericolo, della distruzione delle infrastrutture produttive, sociali e politiche del paese, dalla Banca centrale all’anagrafe, dalla Biblioteca nazionale alle scuole e alle università.
È necessario rammentare che già nel 1982 era stato istruito un processo che aveva chiaramente riconosciuto colpevoli di genocidio i massimi dirigenti di Kampuchea Democratica. Questo precedente storico ha fatto sì che all’inizio del 2008 un gruppo di ricercatori cambogiani del Centro di documentazione della Cambogia, organizzazione che si occupa della documentazione sul genocidio, richiedesse alla magistratura cambogiana di contattare una parte del milione di cambogiani firmatari di una petizione nella quale chiedevano di essere ascoltati dalla Commissione di ricerca sui crimini dei khmer rossi, istituita nel 1982 dal Fronte di salvezza nazionale (poi Repubblica popolare di Kampuchea) che aveva preso il potere in Cambogia dopo la cacciata di Pol Pot. La Commissione di ricerca, che si può definire una sorta di Commissione per la verità e riconciliazione ante litteram, permise a centinaia di vittime di partecipare alle udienze e portò alla luce documenti e testimonianze che chiarirono responsabilità umane e politiche di uno dei più efferati regimi del XX secolo. Il processo che seguì, istituito dal Tribunale rivoluzionario del popolo, portò alla condanna dei dirigenti khmer rossi ma non riuscì a portare all’attenzione della comunità internazionale la tragedia sofferta dal popolo cambogiano.

Centro S21, quartier generale della polizia segreta del regime
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Purtroppo, la comunità internazionale, il 13 gennaio del 1979, cinque giorni dopo la caduta dei khmer rossi ad opera delle truppe vietnamite, affermò per voce del Consiglio di sicurezza dell’Onu che l’unico rappresentante legale della Cambogia era il governo di Kampuchea Democratica, ovvero… i khmer rossi. Era il frutto dalla congiuntura di interessi politici cinesi e statunitensi che caratterizzò la guerra fredda in Asia e la fase seguita alla sconfitta americana in Vietnam. Instancabilmente, Usa e Cina, continuarono a sostenere i khmer rossi ormai espulsi dalla Cambogia e arroccati lungo il confine thailandese, dopo aver preso in ostaggio migliaia di cambogiani. Tutto l’Occidente, le Nazioni unite e, salvo alcune rare eccezioni, anche la cooperazione internazionale e le organizzazioni umanitarie, si allinearono a questa visione secondo la quale il regime da condannare era quello portato al potere in Cambogia dai vietnamiti, mentre armamenti, sostegno politico, e in certi casi anche aiuti internazionali, affluivano massicciamente ai khmer rossi.

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Le complicità internazionali
Il seggio all’ONU fu occupato dai khmer rossi fino al 1989, mentre la Cambogia, rea di aver subito l’ invasione vietnamita, finiva sotto un embargo totale che mise i cambogiani sull’orlo della carestia. La Commissione per i diritti dell’uomo dell’ONU si rifiutava di visionare la documentazione relativa alle atrocità commesse durante il regime dei khmer rossi. L’appoggio di USA e Cina a Pol Pot continuò fino al 1993, e anche oltre. E la missione ONU in Cambogia del 1992-93, che doveva pacificare il territorio e disarmare i khmer rossi, riuscì nel contrario: i khmer rossi controllavano un sesto di territorio prima dell’arrivo delle truppe ONU. Ne controlleranno quasi un terzo dopo la loro partenza. La fine della guerra arriverà solo nel 1998, quando le purghe interne metteranno fine al dominio di Pol Pot e porteranno alla resa delle ultime fazioni combattenti.
Ma tutto ciò non fa parte del processo istruito dalla Corte mista internazionale e cambogiana. Durante il negoziato preliminare, è stato definito preventivamente il periodo che verrà preso in considerazione durante il processo: solo i 3 anni, 8 mesi e 20 giorni di regime. Per non imbarazzare nessuno, vengono cancellati per sempre gli anni in cui i khmer rossi, armati e sostenuti da potenze straniere, hanno continuato a uccidere, assalire, distruggere, prolungando di quasi venti anni la possibilità della pace per tutti i cambogiani.
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Processi in Cambogia ultima modifica: 2017-02-17T06:34:55+01:00 da GognaBlog

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